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Autore: M4RT1    28/02/2015    5 recensioni
"Leo, sei ubriaco", gli disse solo. Non sopportava che facesse così, che fosse debole quando lei non riusciva ad essere forte. Non era brava a consolarlo. "Non pensarci adesso".
Storia partecipante al "Tear contest" indetto da Wolf_Blood_001 sul forum di EFP.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cris, Leo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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N.d.A.: ho deciso di ambientare questa storia tra la prima e la seconda serie, diciamo che potrebbe terminare quando Cris va da Leo, all'inizio della prima puntata :3
Ho pensato che, negli otto mesi che separano le due stagioni, Leo ha avuto qualche giorni di "permesso" per tornare a casa u.u






 
You say you're fine
I know you better than that

[Taylor Swift - "You belong with me"]


 

Nei giorni seguenti, Cris non poté fare a meno di ripensare a quella scena, a quel momento che tanto l'aveva turbata - più di quanto fosse disposta ad ammettere, in realtà.

Anche quel pomeriggio, cercando le chiavi del motorino e infilandosi il casco sui capelli appena lavati, le ritornò in mente quel momento. Le ritornò in mente il buio bluastro della camera da letto di Leo, il suo profilo appena visibile. Se ne stava sdraiato sul letto, dandole le spalle.
Indossava un pigiama bianco e rosso, volutamente diverso dal solito celeste dell'ospedale, e i suoi capelli neri si confondevano con il buio circostante.

"Forse anche tu lo sai", aveva detto quella notte. La sveglia digitale gli illuminava appena la nuca, una pallida luce arancione irradiata dai numeri 00.03 - era tardi, ma Cris era rimasta lì, quasi pietrificata. Avrebbe voluto chiedergli a cosa si riferisse, dato che pochi minuti prima scherzavano su cosa si perdesse non restando da lui; eppure, una parte di lei sapeva che era uno sfogo e che avrebbe dovuto solo aspettare. E infatti, dopo pochi secondi, la voce impastata e incerta del ragazzo era tornata a riempire il silenzio che li separava. "Dovresti trovare una persona che possa darti tutto".

La ragazza aveva esitato, ancora incerta su quale fosse l'argomento. Si era stretta le braccia al petto, insicura, la maglietta sottile che non le bastava nell'aria frizzante della notte. Aveva chiuso gli occhi, per un secondo, accogliendo l'oscurità e sperando di risvegliarsi altrove, con un Leo non più ubriaco e, magari, sano. Quando li aveva riaperti, però, tutto era come prima: la stanzetta troppo piccola, il riverbero della radiosveglia sui vetri delle fotografie incorniciate, il pullover gettato sulla sedia girevole. Piccoli momenti di una vita quotidiana che a lei e al ragazzo erano sempre stati negati.

"Bambini", aveva poi detto lui. Aveva scandito quella parola forte, la voce che echeggiava nella casa quasi vuota; l'aveva pronunciata come se fosse la più bella e, nel contempo, la peggiore che potesse immaginare. C'era una punta di disperazione, forse, mista a qualcos'altro. "Io ci pensavo qualche giorno fa, sai, che non potrò mai avere figli. Ma tu sì, però, e dovresti averne" aveva continuato. In quel momento, per quanto Cris l'avesse visto bere quattro bicchieri di un alcolico che lei aveva sputato al primo sorso, sembrava più serio che mai. La cosa la preoccupò. "Sarebbero dei bambini bellissimi, biondi e con i tuoi occhi", continuò.

Cris non ci aveva mai pensato, in effetti. Forse perché era troppo giovane, forse perché le era stata rubata una fetta così importante della sua vita che, prima di diventare adulta, avrebbe voluto recuperarla: i ragazzi, le risate, le notti in bianco, la scuola e l'università, il motorino. E forse, in un cantuccio del suo cervello, c'era l'idea che anche per Leo - Leo, che aveva trascorso due anni e mezzo della propria adolescenza chiuso in ospedale - sarebbe stato lo stesso. Che magari avrebbero passato mesi semplicemente stando insieme. Aveva addirittura pensato che avrebbero potuto studiare insieme e che lui l'avrebbe accompagnata agli esami. Ma mai aveva riflettuto sul dopo, su un futuro così remoto.

Mai aveva pensato che Leo, dentro, temesse il momento in cui sarebbe tornato alla vita. Eppure lui ci aveva riflettuto, forse, magari era stato il suo primo pensiero quando aveva letto gli effetti collaterali della chemioterapia. E forse, conoscendola, si era reso conto che tra loro c'era un muro insormontabile.

"Magari potrei procurarmi dei braccialetti e regalarli anche a loro. Potrei essere una sorta di zio, mi piace: zio Leo, quello figo", sussurrò ancora.

In quel momento, Cris capì che stava piangendo. Vedeva le sue spalle sussultare a ritmo irregolare, le lenzuola mosse dal suo respiro affannoso. Piangeva in silenzio e forse non voleva che lei se ne rendesse conto, perché continuava a parlare, con voce acuta.

"Forse potremmo restare comunque amici, da grandi. Vederci ogni fine settimana e-". A quel punto scoppiò in un pianto disperato, troppo forte per essere nascosto.

Cris gli si avvicinò piano, incerta. Si lasciò scivolare accanto a lui, sulle lenzuola bianche e profumate di detersivo, sul braccio che le tendeva, nonostante tutto; lasciò che il tepore della sua pelle la scaldasse, che il fianco snello di lui premesse contro il suo ventre troppo magro. Alla fine lo abbracciò forte. Erano così vicini che sentì l'umido delle lacrime sulla sua pelle e il respiro caldo che gli usciva dalla bocca; sapeva di alcol e dentifricio.

"Leo, sei ubriaco", gli disse solo. Non sopportava che facesse così, che fosse debole quando lei non riusciva ad essere forte. Non era brava a consolarlo. "Non pensarci adesso".

Anche nel buio, riuscì a vederlo scuotere la testa. "Non capisci, vero?" le sussurrò. Sembrava ferito, ferito così tanto che non riusciva neppure a mantenere la consueta passione che metteva in tutto ciò che diceva. "Non riesco a non pensarci, Cris. Sono una persona inutile, anche in quel senso. Pensa che sfiga, se anche dovessi sopravvivere".

"Non dire così".

Cris si era issata sulle braccia, a quel punto, e l'aveva baciato. Aveva sentito le labbra di lui che tremavano e il sapore salato delle lacrime che
ancora scendevano, lente e bollenti, sulle sue guance. Ne aveva asciugate un paio con la manica della maglietta, poi si era sdraiata di nuovo.
"Va tutto bene. Non ti lascerò per questo".

Mentre diceva quelle parole, si era resa conto che forse il problema era tutto lì, nella paura di restare solo. "Non ti lascio, te lo giuro", aveva ripetuto con più sicurezza.

"Allora sei una stupida", aveva mormorato il ragazzo, prima di voltarsi verso di lei, la testa nell'incavo del suo collo, il respiro che le solleticava la pelle. "Dovresti andartene, prima che sia troppo tardi".

Quella storia era finita lì. Il giorno dopo, quando Cris aveva chiamato Leo, si era semplicemente sentita dire che aveva un mal di testa bestiale e non riusciva neppure ad alzarsi dal letto, tanto che aveva dovuto confessare tutto a sua sorella per evitare che lo riportasse d'urgenza in ospedale.

Eppure, Cris sapeva che quel pianto non era stato dettato semplicemente dalla "fase no" della sbornia. Sapeva che c'era dell'altro, qualcosa che uno come Leo non avrebbe mai tirato fuori, non in modo diverso. Sperava solo di avere ancora un po' di tempo prima di riaffrontare la cosa.

Magari, un giorno, ne avrebbero parlato da adulti e una soluzione l'avrebbero trovata. In quel momento, le bastava sgattaiolare nella stanza d'ospedale di Leo e restarci per un po', felice, senza pensare a problemi troppo grandi per entrambi.
  
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