Il cuore è intento in una corsa disperata; un tremito percorre le ginocchia, s’insinua fra le viscere.
Nanami socchiude le labbra, mentre la mano di Tomoe ne carpisce il mento. Non v’è gentilezza, in quel tocco – solo un impietoso, vorace desiderio.
Persino la sua voce risulta distante, una melodia sinistra e macabra.
Tomoe. Tomoe. Tomoe, incalza l’intelletto, con un cadenza martellante.
Quindi, le iridi si levano. Ma colui che la dea scorge non è Tomoe.
È bensì una belva; una creatura dal sorriso malevolo ed un bagliore perverso negli occhi.
Nanami freme, stringendo le mani – esili, troppo piccole – a pugni. Avverte una ferrea presa opprimere la bocca dello stomaco. La delusione invadere l’animo, simile ad un veleno che corrode e distrugge; dilania le carni per poi raggiungere la mente.
 
Forse, Mizuki non ha torto.
Forse, un giorno, Tomoe la ucciderà. E la ucciderà quel sentimento a cui si ostina a non attribuire nome – non ancora. Non adesso.
Semplicemente, le trafiggerà il petto, così, in uno scroscio di gemme vermiglie – sino all’ultimo palpito.