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Autore: Angye    12/04/2015    11 recensioni
La storia comincia nell'episodio "Il salto del tonno" della serie Sam and Cat. Mentre si trova a Los Angeles con Sam, Freddie riceve una telefonata che lo avvisa dell'arrivo a sorpresa di Carly, a Seattle per qualche giorno. Il ragazzo decide di partire, Sam no, perchè sconvolta dall'aver scoperto il bacio che i due si sono scambiati in IGoodbye. Una serie di eventi e circostanze riporteranno Freddie, Sam e Carly sulla stessa strada e nelle rispettive vite. Il nuovo ragazzo di Sam non semplificherà le cose tra lei e Freddie. E, forse, arriverà il momento di chiarire ogni punto lasciato in sospeso e scoprire cosa significa, davvero, amare.
Storia sospesa, ma non abbandonata; riprenderà non appena possibile
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutti.
Mi scuso per il tremendo ritardo, purtroppo ho avuto e continuo ad avere una serie di problemi di salute discretamente gravi e, presto, mia madre dovrà subire un intervento cardiaco.
Prego quindi tutti voi di avere pazienza e perdonarmi se gli aggiornamenti saranno più lenti (diciamo una volta ogni 8/9 giorni).
Ho deciso di dedicare un capitolo intero al compleanno di Sam (il prossimo), quindi potete considerare questo e il prossimo due capitoli legati.
Risponderò alle vostre recensioni in privato.
Approfitto per farvi auguri di Buona Pasqua, sebbene con grande ritardo.
 
Ringrazio, come sempre, la mia Beta, Aduial.
 
 
 
 
 
Aprile.
 
Alison quel giorno sembrava pensierosa, Spencer se ne accorse nell’istante in cui aggiunse al suo caffè il terzo cucchiaino di zucchero, proprio lei che lo preferiva amaro.
La osservò a lungo e notò che giocherellava con l’anello sottile in oro che suo padre le aveva regalato anni prima, gesto tipico di quand’era in pieno fermento mentale: stava rimuginando su qualcosa, su un pensiero che le dava il tormento, un’idea che non aveva il coraggio di esprimere a voce.
Per l’artista, le altre persone, Alison compresa, sarebbero sempre rimaste un mistero; non comprendeva, davvero, il motivo per cui si facessero sempre tanti problemi a dar voce ai propri pensieri, desideri, sogni e a inseguirli, senza dar peso a ciò che la gente avrebbe pensato a riguardo.
A lui non era importato di essere visto come uno “strano”, quando si era precipitato alla Sala Giochi per vincere un delfino che agognava dall’infanzia.
Sorrise al ricordo, aggrottando poi le sopracciglia, scocciato: dove diamine l’aveva messo, poi, quel pupazzo?!
Doveva cercarlo, decise, sfilando i guanti di gomma, ma, quando lo sguardo gli cadde nuovamente su Alison, seduta sul divano con le gambe incrociate, si rese conto che il delfino avrebbe potuto aspettare ancora un po’ e affiancò la fidanzata.
- Ehi.- le disse, distendendo un braccio sulla spalliera dietro di lei.
Gli occhi scuri di Alison si appuntarono su di lui, profondi e ipnotici come al solito e Spencer si sporse a baciarla senza nemmeno rendersene conto.
- Ehi.- sorrise lei, arricciando le labbra in un’espressione maliziosa e dolcissima al contempo.
Era una Domenica pomeriggio e avevano pranzato assieme a casa Shay, da soli, dato che Carly aveva qualcosa da fare all’Università – a Spencer era sorto il dubbio se fosse possibile che una scuola restasse aperta anche di Domenica, ma dato che lui era allergico anche solo alla parola “Università”, aveva preferito non indagare per principio.
Ad Alison, invece, non era sfuggito il fatto che, recandosi a casa Shay, quella mattina, era passata proprio di fronte alla scuola di Carly, ovviamente chiusa e, poi, gli occhi luminosi della ragazza e il suo abitino elegante e sobrio, le avevano tolto ogni dubbio.
Sapeva che c’era di mezzo un ragazzo ed era felice per Carly: negli ultimi mesi aveva avuto modo di conoscerla e capire che, sotto quell’aria di ragazza dolce e ottimista, si celava una bambina costretta a crescere in fretta a causa dell’assenza dei genitori e bisognosa in modo spasmodico d’avere qualcuno accanto, qualcuno che l’amasse e la facesse sentire sempre unica e speciale.
Alison se ne intendeva di caratteri umani, aveva intrapreso la carriera di sceneggiatrice proprio grazie alla sua abilità nel decifrarli ed era certa di non sbagliare, a pensare che Carly fosse una di quelle donne che, nella vita, necessitano dell’amore sopra ogni altra cosa.
Spencer, che dopo pranzo era stato obbligato a lavare i piatti dalla fidanzata – parità di genere -, adesso giocherellava con le ciocche lisce dei suoi capelli, osservandole con la venerazione di un fedele di fronte a una reliquia sacra.
Sorrise, sporgendosi contro di lui e abbracciandolo in un gesto istintivo, colmo di tenerezza e lui la ricambiò automaticamente, comprendendo quel tacito bisogno di sostegno.
- Vuoi dirmi cosa c’è che non va?- le chiese, quando si furono separati.
Lei sospirò, passandosi una mano sul viso struccato e gli lanciò uno sguardo colpevole che fece trasalire l’arista, terrorizzato all’idea che lei volesse lasciarlo o che dovesse confessargli un tradimento.
Doveva c’entrare quel James, maledetto, si era lasciato ingannare dagli occhiali e l’aria svampita!
- Spencer? Ti senti bene?- la vocetta divertita di Alison lo innervosì: insomma, stava per confessare qualcosa che gli avrebbe spezzato il cuore e lo trovava anche divertente?!
La guardò malissimo.
- Si può sapere che ti prende?- domandò, ancora, lei.
L’artista serrò i pugni, si mise seduto composto – rigido – sul divano, chiuse gli occhi e prese un grande sospiro.
- Sono maturo e non salto alle conclusioni.- disse, lasciando la fidanzata sbigottita.
- Eh?-
Spencer riaprì un solo occhio. – L’ho letto su quel giornale che piace tanto a Carly! “Donne e amore” o una roba del genere! – spiegò.
Alison, confusa, aggrottò le sopracciglia. – Tesoro, stavolta dovrai sforzarti di più: non ho capito nulla.- fece, sistemandosi contro i cuscini.
L’artista sbuffò, sgonfiandosi e, tirate su le maniche della camicia, prese a gesticolare.
- Su quel giornale dicevano che le donne sono convinte che gli uomini si dividano in tre categorie: gli eterni bambini, gli eterni infelici e gli eterni dongiovanni, e che ciò che le donne odiano maggiormente nel loro partner è il non essere ascoltate e litigare perché lui è saltato subito alle conclusioni.- illustrò, accompagnando il tutto con occhiate cariche di significato.
Alison tacque qualche istante, trattenendosi dallo scoppiare a ridere e, quando non vi riuscì e Spencer assunse un’espressione oltraggiata e imbronciata di fronte a quella reazione, praticamente gli saltò addosso, sedendosi a cavalcioni su di lui e baciandolo ovunque.
L’artista, estasiato e confuso, decise che, se quelli erano i risultati, avrebbe letto ogni giornaletto di sua sorella.
Quando, diversi minuti dopo, si separarono, Spencer la guardò a lungo.
- Se non c’entra James e non vuoi lasciarmi, cos’è che ti rende tanto nervosa?-
Alison scosse la testa. – James?! Spencer, credevo fosse chiaro, ormai, che preferisco i tipi meno imbellettati!- lo prese in giro.
L’altro, tuttavia, rimase serio e lei comprese di essere alle strette.
Tornò seduta e, riprendendo a tormentare l’anellino, parlò.
- Siamo ad Aprile, ormai, Spencer, Giugno è più vicino di quello che sembra ed è anche il mese in cui scade il periodo di tempo che il Direttore del Canale ci ha dato per creare un nuovo Show. – sospirò, mettendosi dritta. – Vedi, dar vita a uno show è difficile e, prima che possa essere registrato anche solo il pilot (che comunque dovrà essere pronto almeno un mese prima del lancio ufficiale del programma), occorrono mesi di preparazione. Giugno è il limite massimo e noi non abbiamo ancora alcuna idea. – il suo tono si fece basso e stanco.
- O, meglio, un’idea ce l’avrei, ma ho davvero timore di ciò che potrebbe comportare.- aggiunse, sollevando finalmente gli occhi nei suoi.
Spencer sentì qualcosa agitarsi nello stomaco ed era quasi sicuro che non c’entrassero nulla gli spaghetti-takos.
- Quale idea?- domandò.
- Pensavo che… il nuovo show potrebbe essere ICarly.- disse lei, tutto d’un fiato.
Spencer impiegò qualche secondo per comprendere ciò che Alison aveva appena sussurrato.
- Spencer, non… preoccuparti. Non ho proposto nulla in Sala Sceneggiatori, è solo un’idea mia, qualcosa che mi frulla in testa da tempo, da quando ho conosciuto tua sorella, Sam e Freddie alla Mostra. Il loro show era grandioso e sarebbe incredibile lavorare con loro a livello professionale, ma non è che un’idea, davvero, niente di più. - aggiunse, subito, timorosa che il fidanzato potesse essere contrario.
Sapeva  che per Carly abbandonare Seattle, ICarly e i suoi amici era stato devastante ma, ancora di più, lo era stato tornare e rendersi conto che tutto era ormai perso.
Alison aveva visto Spencer soffrire, in quei primi mesi dopo il ritorno della sorella, insieme a Carly per quel passato che nessuno voleva lasciarsi alle spalle e si rendeva conto di quanto fosse difficile per un fratello sentirsi impotente e non poter rendere felice la propria sorellina.
Adesso che Carly sembrava di nuovo serena, non felice, ma almeno serena, lei rischiava di rovinare tutto, rivangando quel passato che ancora faceva soffrire tutti loro.
Spencer tacque a lungo e Alison si pentì amaramente di aver dato voce a quell’idea, fino a quando il primo non sospirò, passandosi una mano tra i capelli.
- Non saprei dirti se si tratta di una grande idea o di una pessima idea.- fece, in tono neutro.
- Lascia perdere, era solo un pensiero, te l’ho detto… -
Spencer scosse la testa. – No. No, Alison, ascolta: devi parlarne con Carly. Lei non è più una bambina e io… io non potrò sempre proteggerla da tutto. Deve essere lei a decidere. Chissà, potrebbe uscirne qualcosa di buono… - aggiunse, sottovoce.
Alison lo osservò, osservò l’espressione triste e gli occhi persi chissà dove e comprese che nemmeno per lui, il passato era passato e, nel profondo, ancora sperava di vedere riuniti i tre amici di sempre e ritrovarsi la casa invasa di adolescenti, grida e risate.
Spencer si volse a guardarle e le prese una mano, sorridendo; anche lui stava pensando la stessa cosa, anche lui immaginava di riavere tutta la sua famiglia proprio lì.
Ma, nei suoi pensieri, allo scenario si sommava un’altra persona, colei che, nel giro di qualche mese, era divenuta fondamentale per lui, essenziale affinché tutto il resto scaldasse e girasse in perfetta armonia: Alison.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le ultime due settimane erano trascorse così rapidamente che Sam quasi non se n’era resa conto.
Era sempre stata un’esperta nel litigare e urlare e sfogare la propria rabbia, eppure, dell’incidente avvenuto nel parcheggio della palestra e della “discussione” che ne era seguita, lei e Dylan non avevano più parlato. O, meglio, non avevano più parlato di niente.
Era stata una sorta di lento assopirsi, come due persone troppo stanche o troppo furiose l’una con l’altra e che temono di poter esplodere e arrivare a ferirsi reciprocamente troppo a fondo: tacevano, evitavano di discutere, di litigare, di ritrovarsi l’uno contro l’altro per qualsiasi motivo, dal più futile al più grave, per paura di una nuova frattura, stavolta insanabile.
Su due persone dai caratteri forti e ribelli quali erano i loro, quella situazione pesava in modo indicibile, arrivando a trasformarli in automi e, perfino nei momenti di tenerezza, la tensione delle cose non dette aleggiava su di loro, innervosendoli.
Non avevano parlato di ciò che era accaduto alla palestra, né del se e come Dylan avesse risolto le cose e, del resto, non sarebbe stata certo lei a tirare in ballo l’argomento, non fino a quando non avrebbe avuto la forza e il coraggio di affrontare il litigio e la frattura che ne sarebbero conseguiti.
Dylan nemmeno sembrava intenzionato a riaprire un discorso che, probabilmente, considerava acqua passata: il più grande ostacolo, tra loro, era sempre stato il fatto che lui non si accorgesse di quanto il suo comportamento ferisse Sam.
A distrarre – e irritare – quest’ultima, ci aveva pensato egregiamente Cat, soprattutto in quegli ultimi giorni, a causa delle sue idee sciocche ed infantili che, in quel contesto, si riassumevano semplicemente con le parole: festa di compleanno.
La dolce fanciulla dai capelli rossi aveva, da sempre, una vera ossessione per i compleanni e adorava festeggiarli, soprattutto quelli dei suoi amici più cari.
Per questo motivo, conoscendo Sam e quanto sapesse essere apatica, si era messa d’impegno per organizzarle una festa di compleanno – a sorpresa, ufficialmente – con i fiocchi, arruolando come aiutanti i ragazzi della Hollywood Arts.
Ovviamente, Sam era a conoscenza di tutta la faccenda e, sebbene la sua intenzione iniziale fosse stata quella di sparire il giorno del suo compleanno, Tori l’aveva convinta a non comportarsi a quel modo, spiegandole quanto importante fosse per Cat.
Così, Sam aveva deciso di passare meno tempo possibile in casa, lontana dall’eccitazione incontrollabile della ragazza dai capelli rossi e aveva preso l’abitudine di trascorrere le serate in cui non usciva con Dylan (che divenivano sempre più frequenti) con Jade.
Si erano prese fin dal primo incontro, era vero, poiché i loro caratteri erano molto simili ed entrambe erano disposte a tutto per ottenere ciò che volevano, arrivando, a volte, anche a ferire le persone a cui tenevano, ma, a distanza di mesi, si erano accorte di conoscersi essenzialmente poco e che parlare tra loro era più facile che con altre persone.
Così, spesso, si erano date appuntamento sul vecchio ponte, di sera tarda e avevano parlato a lungo, tanto da veder sorgere l’alba, raccontandosi quel tanto che occorreva per comprendersi ma non troppo da rischiare di poter restare ferite dall’eventuale affezionarsi all’altra.
Sam aveva scoperto che Jade aveva vissuto una situazione sentimentale simile alla sua, sebbene lei, Beck e Tori non si conoscessero fin da bambini.
Anche adesso che, apparentemente, Jade era felice senza Beck, Sam poteva leggere dietro i suoi gelidi occhi, tanto simili ai suoi, la sofferenza che a nessun altro era dato di vedere: la mancanza di quella persona che è unica e insostituibile, radicata, nel cuore di ognuno.
Non conosceva bene Beck, lo aveva visto sporadicamente e non si era mai ritrovata a parlare con lui, eppure, qualcosa nel modo in cui il suo sguardo accarezzava Jade ogni volta che era convinto non lo notasse, le suggeriva che anche lui non aveva dimenticato.
Poi, però, Sam si accorgeva di Tori e del suo sorriso luminoso, della dolcezza che il suo volto irradiava e del modo in cui Beck ne sembrava conquistato e,  sebbene Cat le avesse assicurato che tra loro non vi fosse ormai più nulla, il tarlo del dubbio s’insinuava in lei, tormentandola.
Si rendeva conto di applicare vecchi e dolorosi schemi che erano suoi ad altre persone, rievocando ciò che lei, Freddie e Carly erano stati una volta, ma non poteva farne a meno.
Del resto, su chi avrebbe potuto spostare la sua attenzione?
Su Cat, tanto imbranata da non accorgersi che anche Robbie era invaghito di lei?
Ogni volta che si ritrovava a osservarli, impacciati e imbarazzati, a balbettare frasi insensate o parole a casaccio, le veniva voglia di prendere le loro teste e farle sbattere l’una contro l’altra.
Un’idea le balenò in mente, quella sera, dopo che ebbe riaccompagnato Jade a casa in moto e infilò la chiave nella toppa: se proprio doveva subirsi lo strazio di una festa di compleanno organizzata da Cat, almeno avrebbe potuto divertirsi.
Poteva trasformarsi in Cupido e provare ad aiutare Cat e Robbie, pensò.
Ridacchiando, entrò in camera loro e vide Cat che, facendo un fracasso infernale e cadendo dal letto, cercava di nascondere dei fogli rosa sui quali, probabilmente, vi erano gli appunti per la festa.
- Ehi, Sam!- gridò quasi Cat, nervosa.
La bionda finse indifferenza e si avvicinò al suo armadio.
- Ciao, Cat. – rispose, prendendo il necessario per la doccia.
Si avviò in bagno e, un istante prima che mettesse piede fuori dalla stanza, il suo cellulare squillò.
Tornò sui suoi passi e, letto il nome sul display, la sua espressione mutò, rattristandosi.
Sam gettò il telefono sul letto e uscì, mentre il nome di Dylan lampeggiava sullo schermo.
Cat sospirò, scuotendo la testa, col visetto rassegnato.
 
 
 
 
Carly se ne stava seduta comodamente sul divano del Professor Trust, senza scarpe, le ginocchia piegate e un libro tra le mani.
Il sole tramontante la illuminava alle spalle, colorando di rosso i capelli corvini.
L’uomo, rimasto incantato un istante sotto la porta, si riscosse, entrando in salotto col vassoio su cui poggiavano le tazze di tè e i biscotti.
Depositò tutto sul tavolino di cristallo e si accomodò accanto a lei, porgendole una tazza.
Carly sorrise, dolce. – Grazie, ha un profumo squisito.- mormorò.
Trust si sporse a baciarle una tempia e indugiò tra i suoi capelli, respirando a fondo.
- Mai quanto il tuo.- commentò, facendola ridere.
Da quel loro primo bacio, settimane prima, la loro relazione era proceduta lenta e armonica, priva di scossoni o grandi ostacoli sul percorso.
Perfino le lezioni erano state più semplici da affrontare di quanto la giovane avesse mai creduto possibile: Trust era abilissimo nel non lasciar trapelare nessuno dei sentimenti profondi che provava per lei.
La trattava normalmente, con distanza e rispetto, senza mai divenire, però, egoista di  gentilezza.
E, sebbene lo sguardo profondo e indagatore di Jennifer White la tormentasse più spesso del solito, Carly era ben decisa a star lontana da quella soglia di coscienza dove avevano preso dimora il senso di colpa e la vergogna.
Non era una stupida, sapeva bene che il loro rapporto non poteva definirsi sano o giusto, che, almeno fino a quando lei non fosse stata più grande e non avesse lasciato l’università in cui lui lavorava, non avrebbero potuto vivere quella relazione alla luce del sole, eppure si sentiva ugualmente appagata.
Certo, talvolta, una fitta di dispiacere e dolore faceva capolino, quando guardava Louisa e Freddie uscire a cena, andare a teatro o a ballare, magari prendere una semplice fetta di torta al bar in centro e, segretamente, li invidiava, desiderosa di quella semplicità, ma era abile a mettere a tacere quei pensieri.
Del resto, era senza dubbio eccitante vivere una storia clandestina, no?
Come nei migliori romanzi.
- Per oggi non credi di aver lavorato abbastanza?- le domandò, con quella voce calda e roca che aveva il potere di farle contrarre le viscere.
- Non voglio restare indietro solo perché…-
- Perché stiamo insieme?- terminò Trust per lei.
La bruna annuì, imbarazzata, mentre l’uomo le accarezzava dolcemente un braccio.
- Oh, Carlotta…- sospirò, intenerito, scuotendo la testa. – Sei così responsabile.- aggiunse, sfiorandole il collo con le labbra.
Immediatamente il cuore della ragazza prese a tamburellare violento nel petto e le guance s’imporporarono mentre le loro labbra si incontravano, avide.
Gli afferrò le spalle, salendo con le dita tra i capelli, mentre lui le afferrava la vita, tirandosela addosso.
Il loro respiro divenne irregolare, il sole uno spettatore indiscreto e Trust la lasciò un istante, dopo averle depositato un bacio leggero sulle labbra, per chiudere le tende.
Carly sapeva che le immense vetrate del suo appartamento non aiutavano il loro bisogno di privacy e quel pensiero le diede una stilettata al cuore che, tuttavia, scomparve, non appena Trust fu di nuovo accanto a lei.
- Sei bellissima.-
Lo disse con tanta convinzione da farla avvampare e nascondere il viso sul suo collo, depositandovi piccoli baci.
Era appagante vedere l’espressione rapita di Trust, i suoi occhi chiusi, il suo capo abbandonato contro lo schienale del divano e sapere di essere lei a fargli quell’effetto.
I libri sui quali avevano lavorato giacevano abbandonati ai piedi del tavolo, penne e fogli di carta stropicciati erano stati gettati di lato, poco graditi in quel momento.
Al rumore dei loro respiri si sommò il rumore della sera, calata d’improvviso e il vociare allegro dei ragazzi che uscivano a divertirsi, le risate degli innamorati che si rincorrevano sul marciapiede, la musica leggera proveniente dai ristoranti.
Carly si perse a guardare le luci di Seattle, lo sguardo fisso su un punto indefinito alle spalle di Trust e lui, intento a baciarle il profilo della mascella, se ne accorse.
- Qualcosa ti turba?- le domandò.
Carly scosse la testa, incrociando i suoi occhi.
- Credi che… noi potremo mai… non so, andare a cena?- domandò, timorosa.
L’uomo rimase a osservarla in silenzio, a lungo e la bruna temette di aver rovinato tutto con le sue pretese da ragazzina sciocca e insicura.
Era sul punto di rimangiarsi la domanda, quando le mani dell’uomo le afferrarono il viso con delicatezza.
- Non voglio che tu abbia timore di dirmi ciò che ti rende infelice.- le disse, solenne.
- D’accordo?- aggiunse.
Carly annuì.
Trust l’abbracciò, stringendosela al petto. – Ti porterò a cena Sabato, se non hai altri impegni, mia piccola Carlotta.- promise.
La ragazza sentì il calore avvolgerla e gli occhi riempirsi di piccole lacrime.
Si strinse a lui, con gli occhi chiusi, felice.
 
 
 
 
Freddie svoltò e s’immise sul vialetto, procedette per qualche metro e tirò il freno a mano, scendendo dall’auto e chiudendo lo sportello con un gesto secco.
Incamminandosi verso i gradini d’ingresso sistemò il colletto della camicia linda e perfettamente stirata, passò una mano tra i capelli ben pettinati e ripose in tasca le chiavi.
Era agitato, temeva di non passare l’accurato esame della donna, quella volta.
Non fece in tempo a bussare il campanello che un tornado profumato di biscotti e sapone lo travolse, stritolandolo in un abbraccio soffocante.
- Mamma, non respiro!- protestò, fintamente contrariato; sua madre, nel bene e nel male, gli mancava.
Solo dopo essere partito per l’Italia – e una volta rientrato a Seattle – si era reso conto di quanto dolce e sicuro fosse, l’essere “figlio”.
Responsabilità, problemi, paure, per ogni cosa vi era sempre qualcuno pronto a schierarsi dalla sua parte, a rassicurarlo e combattere per lui.
Adesso, invece, tutto dipendeva dalla sua volontà, dalle sue azioni e nessuno, al di fuori di lui, avrebbe affrontato le conseguenze delle sue scelte.
Quel giorno, in particolare, c’era un tarlo a tormentarlo che, tuttavia, non aveva nome o volto, come un pensiero sempre costante, ma dispettoso, che si divertiva a nascondersi nei meandri della sua mente per non farsi trovare e leggere chiaramente.
Cosa poteva divertirsi a tormentarlo a quel modo?
Non ebbe modo di cercare una risposta, poiché l’occhio aquilino di Marissa Benson si appuntò su di lui, studiandolo dalla testa ai piedi in cerca di qualcosa che non andasse.
Freddie temeva quegli appuntamenti mensili, durante i quali sua madre trascorreva metà del tempo a darsi pena e a sentirsi in colpa per “l’aver abbandonato il suo bambino a se stesso”.
Il rimorso, a dir suo, derivava sempre da qualcosa che, nell’abbigliamento o nel peso,  nel contegno o nella salute di Freddie, non risultava perfetto agli occhi di Marissa.
La donna lo fece accomodare e Freddie tolse la giacca leggera, adagiandola accorto sul divano.
- Non fa ancora caldo abbastanza da poter andar in giro con un semplice soprabito, Freddie.- commentò sua madre, rientrata con un vassoio sul quale faceva bella mostra di sé del tè e un piatto di biscotti.
- A Seattle fa più caldo, mamma. – rispose, educatamente.
Marissa, espressione contrariata e pensosa, si sedette accanto a lui e gli accarezzò la testa, acconciandogli un ciuffo di capelli.
- Mi sembri più… grosso.- disse, tastandogli una spalla e poi un braccio.
- Oh, Freddie, dimmi che non frequenti ancora quella sudicia palestra piena di tizi poco raccomandabili!- lo implorò, in quel suo tono lagnoso e spaurito.
- Mamma, per favore, non ricominciare.- sospirò il ragazzo, liberandosi delicatamente dalla sua stretta.
Marissa, oltraggiata, si appropriò di una tazza di tè, dosando meticolosamente il raso cucchiaino di zucchero e borbottando riguardo la sciagura di un figlio che non ha rispetto per la preoccupazione materna.
Freddie, nel tentativo di rabbonirla, si affrettò a raccontarle gli ultimi sviluppi lavorativi, del suo progetto di creare un videogioco e degli ultimi esami all’università, andati egregiamente.
Marissa si compiacque di entrambe le cose, sebbene non apprezzasse particolarmente l’idea che suo figlio si trasformasse in uno di quei fissati con i videogame che impazziscono dietro a codici numerici.
E, nel profondo, Marissa Benson sapeva bene che il primo distacco di suo figlio da lei era avvenuto proprio a causa di quel talento informatico, che lo aveva condotto ad ICarly e a quelle due ragazze dal carattere tanto opposto e, al contempo, complementare.
- Mamma, ti vedo pensierosa, va tutto bene?- domandò Freddie, fissandola con quegli occhi castani tanto profondi e duri, così diversi dallo sguardo caloroso di un tempo.
- Certo, Freddie, tutto benissimo.- mormorò.
A causa del suo istinto materno iperprotettivo, dapprincipio dopo la partenza delle due ragazzine, Marissa si era sentita sollevata e aveva ringraziato il cielo che quei due uragani che avevano sconvolto la vita di suo figlio calamitandone su di loro l’attenzione e strappandola a lei, fossero sparite dalla sua vita.
Poi, col passare dei giorni, la donna aveva assistito al lento e inesorabile cambiamento di Freddie, all’indurimento del suo carattere, alla perdita dell’allegria e al senso di apatia che lo aveva colto.
Si era anche accorta di quella sorta di rabbia che era montata dentro di lui, sebbene non se ne spiegasse la ragione e che, evidentemente, nemmeno Freddie comprendeva e riusciva a gestire.
Per quanto ossessiva e fanatica fosse, si era allora resa conto che suo figlio era davvero infelice e, per questo motivo, la sua opposizione quando le aveva domandato – quando le aveva comunicato!- di voler partire alla volta di Los Angeles per andare da quella Sam, non era stata violenta come tutti si sarebbero aspettati.
Marissa aveva visto qualcosa riaccendersi, negli occhi di Freddie, anche di fronte alla sola idea di rivedere quel demonio biondo e non aveva avuto il cuore di impedirgli quel viaggio, nonostante ne fosse terrorizzata.
Del resto, si era detto, sempre meglio dell’Italia, che si trovava oltreoceano!
E, adesso, eccolo lì, a quasi due anni di distanza, suo figlio: un uomo ormai adulto, in grado di provvedere a sé – per quanto possibile – e, soprattutto, vuoto.
Del Freddie che la faceva ammattire per stare sempre al passo con quelle due ragazzine non era rimasta traccia e, le costava l’anima ammetterlo, la cosa l’addolorava.
- Come mai sei venuto, Freddie?- gli chiese, d’improvviso seria.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia scure e sorrise, forzato. – Vengo sempre a trovarti, mamma, come ti ho promesso.- rispose.
Anche Marissa sorrise. – Oggi non è Domenica, Freddie. Tu vieni sempre a trovarmi l’ultima Domenica del mese, vedi?- gli indicò il calendario appeso accanto all’attaccapanni e il cuore rosso che campeggiava sulle domeniche.
Freddie alzò le spalle. – Avevo voglia di vederti.- tentò, impacciato.
La verità era che nemmeno lui sapeva perché si fosse recato in visita a sua madre, quel giorno.
Avrebbe dovuto uscire con Louisa, sua ragazza da ormai un mese, eppure all’ultimo momento aveva assunto una chiamata di Marissa come scusa per annullare l’appuntamento.
Semplicemente, quel giorno, sentiva il bisogno di stare lontano da Louisa e dalla vita che stava vivendo, poiché quel tarlo lo aveva tormentato fin da quella notte, perfino nel sonno e non aveva mai smesso di assillarlo per tutta la mattina.
Così, aveva preso l’auto e guidato per l’ora e mezza che occorreva per raggiungere la piccola cittadina di periferia in cui si era stabilita sua madre, sperando che mettere un po’ di distanza tra sé e Seattle lo avrebbe aiutato a sfuggirgli.
Si era sbagliato.
Qualcosa, nello sguardo di Marissa, aveva acuito quel senso di fastidio, quell’insoddisfazione di quando qualcosa sfugge al conscio eppure non svanisce dalla mente.
- Mi preoccupa l’idea che tu abbia un’auto tua.- esordì Marissa, comprendendo quel bisogno di essere distratto che Freddie tentava di celare.
Il ragazzo sorrise. – Non preoccuparti, mamma, sono molto prudente.- la rassicurò.
- La prudenza non è mai troppa, Freddie.-
Il ragazzo ascoltò per un altro quarto d’ora gli sproloqui della donna riguardo una guida sicura e, alla fine, decise che fosse giunto il momento di rientrare in città.
- Devo andare, mamma, prima che faccia buio.- le disse, certo che lei sarebbe stata d’accordo sul non guidare di sera.
Marissa, difatti, si alzò e annuì, accompagnandolo alla porta.
Lo abbracciò in modo soffocante e, mentre lo guardava allontanarsi, pensò alla ragazzina che  occupava ancora tanto prepotentemente il cuore di suo figlio da impedirgli di essere felice.
Forse a Freddie non era chiaro, forse non se n’era reso conto, forse non lo avrebbe mai capito, ma Marissa Benson non era una sciocca; fin dapprincipio aveva capito cosa quel demonio biondo significasse per lui.
Marissa aveva detestato profondamente Carly Shay perché era stata lei a “iniziare” Freddie alle cotte e a fargli aprire gli occhi sul mondo femminile cosa che, inesorabilmente, aveva condotto all’altra.
Marissa aveva potuto detestare Carly, perché aveva sempre saputo che l’amore di Freddie per lei sarebbe passato, si sarebbe esaurito, come una scintilla priva di conseguenze.
Marissa aveva potuto odiare Carly, perché non vi era pericolo di perdere l’affetto di Freddie nel farlo.
Marissa aveva temuto l’altra, la biondina, perché quello che legava Freddie a lei era qualcosa che non aveva previsto e che la confondeva.
Marissa aveva temuto l’altra, perché Freddie era cambiato per lei, eppure sembrava sempre lo stesso, come se quella lì conoscesse il suo bambino meglio perfino di se stesso.
Marissa aveva temuto l’altra, perché Freddie era dipendente dai loro litigi, dai piccoli momenti di tenerezza condivisi in segreto e perfino dai lividi che gli procurava.
Marissa non si era mai opposta all’altra, non l’aveva mai aggredita, nemmeno quando quella aveva tormentato il suo bambino con scherzi orribili, perché temeva di essere la miccia di quella scintilla tra loro.
Marissa aveva tentato di separarli, perché quel loro amore, troppo ossessivo e travolgente per due ragazzini, l’aveva spaventata al punto da temere per la salute mentale di suo figlio.
Marissa non aveva mai potuto odiare Samantha Puckett, perché sapeva che Freddie l’aveva amata e l’amava e non le avrebbe mai perdonato una cosa del genere.
Piccolo demonio biondo.
 
 
 
Freddie guidò annoiato fino a casa, desideroso solo di trovare un istante di pace e placare quell’irrequietezza.
Entrò in ascensore e raggiunse il pianerottolo, cercò le chiavi dell’appartamento e, inserita quella giusta nella toppa, qualcosa giunse alle sue orecchie.
Il volume di un televisore decisamente più alto del lecito, talmente alto che le voci degli attori di una qualche sit-com gli arrivavano nitide e perfettamente udibili.
La signora Mitchell, che abitava due appartamenti più avanti rispetto a lui, doveva di nuovo aver dimenticato di accendere l’apparecchio e, Freddie ne era certo, a momenti sarebbe arrivato Lewbert, gracchiando come una cornacchia e avrebbe trascorso l’ora successiva a battere sulla porta della donna, nel tentativo di farsi aprire e ordinarle di abbassare il volume.
Poiché la donna gli aveva fornito un mazzo di chiavi di riserva dato che, sovente, si recava dalla figlia fuori città per trascorrervi qualche settimana e c’era bisogno di qualcuno che desse da mangiare alla sua gatta, il ragazzo s’incamminò verso il suo appartamento con l’intenzione di avvertirla lui stesso.
Mentre infilava le chiavi nella serratura, tuttavia, qualcosa lo gelò.
“ … mi causi costantemente traumi fisici ed emotivi!”
La voce di un giovane, fintamente offesa e irritata, poi la risata di una ragazza, cristallina.
Freddie perse, per un istante, contatto con la realtà, mentre, nella sua mente, una miriade di immagini e voci si susseguivano, senza una logica, come i pezzi di uno specchio caduto al suolo e frantumatosi.
Ogni scheggia era il riflesso di un ricordo.
“Perché è una brava ragazza…”
I mille colori dei palloncini piovuti giù dal soffitto dello studio.
Anche se mi causi costantemente traumi fisici ed emotivi, credo che ci leghi un’amicizia profonda…”
Un sorriso sghembo, un bicchiere sollevato nella sua direzione, lei seduta su quel trono di timidezza.
“ Evidentemente non ti ho traumatizzato abbastanza...”
Lei, imbarazzata e dalle gote arrossate.
“Buon Compleanno, Sam.”
Urla, applausi, lei e il suo sguardo triste.
Una spinta violenta lo riscosse improvvisamente e la voce fastidiosa di Lewbert gli forò i timpani.
- Togliti, moccioso. Signora Mithceeeel!-
Freddie lo ignorò, camminando lentamente verso casa sua, completamente stravolto.
Entrò e, nel buio, si lasciò cadere sul divano, lo sguardo perso nel vuoto, un senso di nostalgia a stilettare il cuore.
Lo schermo del suo cellulare s’illuminò, il nome di Luisa comparve lampeggiante.
Non rispose.
La data in alto a destra dello schermo parve farsi beffe di lui: diciassette aprile.
E il tarlo ebbe finalmente volto e nome.
Cos’altro avrebbe potuto divertirsi tormentarlo a quel modo?  No, non cosa: chi?
Il suo compleanno.
Sam.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
  
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