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Autore: Arlie_S    19/04/2015    1 recensioni
[PREQUEL AMBIENTATO CIRCA 14 ANNI PRIMA DELL'INIZIO DI DIVERGENT]
Cosa è successo, prima degli eventi che tutti conosciamo, nella vita di Eric per farlo diventare quello che ritroviamo in Divergent? Cosa l'ha portato ad essere il ragazzo freddo e incapace di relazionarsi agli altri?
In questa breve fic, ho cercato di dare la mia personale visione dei fatti.
I personaggi sono i soliti, con qualche new entry, della mia long "Braveheart", solo che qualcuno si è un po'...ristretto!
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[Cap.1]
Calmati. Conta fino a dieci: uno, due, tre..
Meglio se arrivo a cento.
- Come prego? – chiese freddamente, fingendo di non aver capito.
- È talmente agitato e incostante, signora, che non so davvero come farà! Ed io difficilmente mi sbaglio sui bambini di cui mi occupo - le disse in tono confidenziale. Molto bene; quella era sicuramente, da un punto di vista di ricerca, la frase che comprovava la sua teoria: quella donna era un’idiota.
- Lo diceva anche della figlia del dottor Evenson, il primario. – le fece notare, cercando di contare fino a cento prima di dire o fare qualcosa di cui sicuramente non si sarebbe pentita, ma che avrebbe potuto crearle non pochi problemi.
Genere: Commedia, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Eric, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nuovo esperimento! Spero vi piaccia… e spero di essere in grado di trattare gli argomenti come si deve! Ormai ho preso l’abitudine a scrivere due righe in cima al capitolo, ma non voglio dilungarmi troppo, quindi vi lascio alla lettura e ci vediamo in fondo, dove troverete tutte le delucidazioni (spero) riguardo questo primo capitolo!

 

Capitolo 1

 

 

 

 

- Eric! Vieni immediatamente qui! – gridò una giovane donna dai capelli neri legati dietro la testa, indirizzando la voce verso il fondo dello spazio riservato ai bambini.

Un bambino di circa quattro anni si alzò dal fondo del grande stanzone facendo leva sulle mani e si diresse trotterellando verso la donna che l’aveva chiamato. La stanza era stata adibita per accogliere i figli del personale, bambini con parenti ricoverati e piccoli pazienti che necessitavano di un momento di svago.

Elizabeth guardò con impazienza il bambino, sperando che si velocizzasse: aveva passato l’ultimo quarto d’ora a sentire le lamentele dell’addetta ai bambini, e prima obbligava il figlio a chiederle scusa per quella benedetta pedata, prima avrebbe potuto prendere lui e il fratello e tornarsene a casa. Possibile che suo figlio non riuscisse a stare fermo e buono nemmeno per mezzo pomeriggio?

E fortuna che non c’erano state emergenze o mancanza di personale quel giorno, o né lei né tantomeno il marito avrebbero potuto correre a prendere i figli.

Il bambino era quasi arrivato al cancelletto in legno che divideva l’atrio asettico dall’area colorata e sicuramente più vivace in cui si trovava lui, quando rallentò l’andatura, si fermo, ed alzò gli occhioni grigi sulla madre e sulla responsabile dei bambini, la signora Lovelace.

Elizabeth lo squadrò dalla testa ricoperta di capelli nerissimi, fino alla punta delle scarpe da ginnastica, e storse la bocca. Le sembrava un po’ troppo.. in ordine.

- William, tesoro, non ci provare nemmeno. – gli disse rapidamente, facendolo fermare sul posto con aria spaesata.

Il bambino le lanciò un’occhiata perplessa guardandosi poi alle spalle, come se si aspettasse di vedere qualcun altro.

Eccellente: i suoi figli non andavano ancora ai Livelli Inferiori, e già pensavano a come raggirare lei e con ogni probabilità suo marito.

- Ma… - iniziò a protestare il piccolo, prendendosi le mani e guardandola come se si aspettasse che la madre correggesse il proprio errore.

- Vai a dire a tuo fratello che sono arrivata, d’accordo? – gli disse, lanciandogli uno sguardo che non ammetteva repliche, nonostante il tono fosse accomodante.

- Va bene… - acconsentì William, senza troppa convinzione, tornando rapidamente sui suoi passi e svoltando nella stanza laterale a quella principale.

Elizabeth si armò di pazienza: fino a quando entrambi non fossero stati lì, e lei non avesse avuto una buona scusa per liberarsi della signora Lovelace, avrebbe dovuto sopportare le lamentele di quest’ultima sul figlio; “e quanto è agitato, e perché non dorme il pomeriggio come gli altri bambini, e come mai non ascolta i rimproveri, e che si distrae in continuazione..”

Intanto, William era di ritorno. L’aria fin troppo soddisfatta per il compito che aveva svolto da solo.

Lo guardò le sopracciglia scure e ben delineate inarcate in un’espressione perplessa.

- Ho fatto mamma! – le comunicò lui con entusiasmo, la voce intrisa della soddisfazione di chi si aspetta di sentirsi dire quanto è stato bravo, mentre spostava il peso da una gamba all’altra.

Elizabeth lo guardò, stringendo leggermente le labbra, come se stesse cercando di far capire al figlio come stavano le cose senza sgonfiarlo come un palloncino.

- Hai fatto cosa, ehm… tesoro? – gli domandò titubante, mentre l’entusiasmo del bambino lasciava il suo viso per fare spazio all’espressione confusa di chi non capisce dove ha sbagliato.

William sbuffò gonfiando le guance paffute, come se dovesse rispiegare qualcosa di terribilmente ovvio a qualcuno di terribilmente lento a capire e non ne avesse la minima voglia.

- Ho detto a Eic che sei arrivata! – spiegò cantilenante.

- E… dov’è? – lo incalzò la donna, incerta. Nonostante fosse un’Erudita, non era per niente sicura di voler sapere la risposta a quella domanda.

Il bambino girò il busto e indicò con l’indice verso la stanza in cui era sparito poco prima, guardando le due donne quasi turbato dalla lentezza con cui stavano seguendo i suoi ragionamenti.

- Ha detto che lo sa, che sei arrivata! – specificò sorridendo, come se avesse finalmente capito, come mai le due donne non riuscissero a comprendere quello che stava cercando di spiegare.

Si scambiarono tutti e tre uno sguardo silenzioso, che rimbalzò da William alla madre, dalla madre alla signora Lovelace, e dalla signora Lovelace nuovamente al bambino.

Le possibilità, secondo Elizabeth, erano due: o i suoi figli erano due idioti, uno più dell’altro, oppure erano già due piccole menti diaboliche e geniali. In ogni caso potevano solo peggiorare, ed una risposta del genere era esattamente quello che si poteva definire una risposta preoccupante. Se già a quell’età facevano dei discorsi del genere, non osava nemmeno immaginare cosa le avrebbero riservato una volta cresciuti.

Elizabeth aprì il cancelletto in legno  si abbassò verso il bambino, si sedette sui talloni, e gli accarezzò un guancia.

- William, amore della mamma… - iniziò, guardandolo pazientemente e scostandogli dagli occhi grigi come l’acciaio i capelli corvini.

Venne interrotta dalla signora Lovelace che si schiarì la voce, preannunciando dei passetti rapidi e lievi, probabilmente attutiti dal tappeto, che si dirigevano verso di loro.

Alzando lo sguardò incrociò gli occhi grigi di Eric, che dopo aver osservato per un momento la madre, lanciò un’occhiata carica di ostilità alla signora Lovelace, ancora in piedi alle spalle della madre.

Elizabeth si tirò in piedi, si lisciò la gonna blu scura che indossava sotto il camice chiuso solo per un paio di bottoni agganciati sulla pancia, e si spostò dietro le orecchie un paio di ciuffi neri e lisci che erano sfuggiti all’acconciatura. Poi guardò intensamente il figlio.

- Eric, vuoi chiedere scusa alla signora Lovelace, per averle tirato un calcio? – gli domandò duramente, con un tono che faceva chiaramente intendere che più che una richiesta, fosse proprio un ordine. Mal sopportava Lilian Lovelace, e trovarsi in condizione di doversi scusare la rendeva notevolmente nervosa.

Il bambino non sembrava particolarmente impressionato dal tono alterato della madre, mentre sembrava riflettere sulla risposta da rifilarle, e osservava il fratellino sedersi per terra ed estrarre dalla tasca principale dello zaino, un libricino.

- No. – rispose dopo alcuni secondi, usando lo stesso tono con cui avrebbe potuto rispondere in caso la madre gli avesse chiesto se aveva fame.

Elizabeth alzò gli occhi al cielo. La prossima volta che Thomas, suo marito, avesse provato a dire che era lei ad essere poco accomodante e poco paziente con i bambini, l’avrebbe abbandonato con i piccoli mostri per almeno quarantotto ore.

- Eric, chiedi scusa alla signorina Lovelace per averle tirato un calcio. –riformulò, in tono più autoritario.

- No. –

Fece un respiro profondo, e si strinse tra due tira la sommità del naso, massaggiandosi il punto in cui ci sarebbero dovuti essere i segnetti degli occhiali. Chiuse gli occhi, come se fosse troppo stanca per tenerli aperti, e scosse leggermente le testa.

- Perché no? – chiese, in un sospiro a metà tra lo stanco e l’esasperato.

- Perché è brutta. – rispose il bambino, lanciando una strana occhiata alla donna accanto alla madre.

- Lasci stare, signora Turner. – intervenne la signora Lovelace guardando con accondiscendenza il bambino.

Eric, prendendo per terminata la discussione, raggiunse il cancellino in legno e lo oltrepassò. Poi, si diresse insieme al fratello fino alle sedie della saletta d’attesa dell’atrio.

Le pareti della stanza erano immacolate, talmente bianche da far quasi male agli occhi nelle giornate di sole, mentre le sedie erano azzurro chiaro come in tutto il resto dell’ospedale. Alcuni giochi per bambini erano sparpagliati sul pavimento o eventualmente sui tavolino bassi, mentre altri erano stipati tra gli scaffali delle pareti in ordine di “utilità”.

I due bambini posarono gli zainetti, uno blu e uno nero, su due sedie una accanto all’altra. Uno di loro, William, frugò nel proprio zainetto e ritirò fuori il libricino per bambini, raggiunse il fratello e si sedette, mentre l’altro si attrezzava con quello che trovava.

Elizabeth osservò William lanciare occhiate curiose al fratello e ogni tanto girarsi verso di lei con aria un po’ preoccupata. Probabilmente era preoccupato dal fatto che Eric stesse combinando qualcosa con lei nei paraggi. Eric era scalmanato e pestifero, ma non era certo un bambino stupido. Anche se negli ultimi giorni era stato più immusonito del solito, non avrebbe combinato niente, sapendo che era arrabbiata con lui.

- Mi spiace per mio figlio. – si scusò, girandosi verso la signora Lovelace e cercando di non apparire forzata.

La donna scosse la testa, come a dire che non importava. Quindi per cosa l’aveva tormentata fino a quel momento?

- Dispiace a me, signora. Cercherò di avere più pazienza, sa, io li riconosco subito i casi disperati. –

Elizabeth s’irrigidì e indurì lo sguardo, lanciando un’occhiata raggelante all’altra. Come si permetteva quel metro e venti d’imbecillità?

Calmati. Conta fino a dieci: uno, due, tre..

Meglio se arrivo a cento.

- Come prego? – chiese freddamente, fingendo di non aver capito.

- È talmente agitato e incostante, signora, che non so davvero come farà! Ed io difficilmente mi sbaglio sui bambini di cui mi occupo - le disse in tono confidenziale. Molto bene; quella era sicuramente, da un punto di vista di ricerca, la frase che comprovava la sua teoria: quella donna era un’idiota.

- Lo diceva anche della figlia del dottor Evenson, il primario. – le fece notare, cercando di contare fino a cento prima di dire o fare qualcosa di cui sicuramente non si sarebbe pentita, ma che avrebbe potuto crearle non pochi problemi.

Suo marito le aveva raccontato qualche aneddoto sull’adorata figlioletta dell’attuale primario. Anche se sospettava volesse fargli sembrare Eric meno tremendo di quello che in realtà era, messo a confronto con quella bambina agitata e pestifera.

La signora Lovelace rabbrividì. Eric era un angioletto; un adorabile, tranquillo e posato bambino se messo a confronto con quel piccolo, terribile, mostro sotto mentite spoglie dell’ultima genita del primario dell’ospedale. Se non le era venuto un esaurimento nervoso con la piccola, dolce e adorabile figlioletta di Jonathan Evenson, non le sarebbe venuto sicuramente mai più.

Il piccolo mostro, oltre ad essere saccente e irriverente, era anche adorata e viziata dal padre e dai fratelli maggiori. Avrebbe potuto, fino a qualche anno prima, lamentarsi con il primario, ma l’anziano predecessore del padre della pargoletta, stravedeva per il suo giovane e promettente vice. E anche per la mostriciattola, e per questo tendeva a sminuire ogni malefatta o ogni capello bianco che le aveva fatto venire quella delinquente.

E poi il padre si chiedeva come mai non trovasse una baby-sitter. Aveva prognosticato, quando ancora si occupava il pomeriggio di lei, che la piccola Kaithlyn non avrebbe compicciato granché durante la scuola a causa del suo caratteraccio; purtroppo invece, durante i corsi estivi di preparazione ai Livelli Inferiori, che ovviamente le avevano fatto frequentare, si era rivelata più brillante di tutti i suoi compagni di corso messi insieme, rapida nell’apprendere e con una mente estremamente vivace e reattiva. E pareva anche che il padre la considerasse ancora svogliata e poco dedita allo studio.

- Già! Una delle poche volte in cui mi sono sbagliata! – affermò, non trovando nient’altro da dire.

Un sorrisetto soddisfatto le increspò le labbra, mentre la signora Lovelace sembrava ancora pensare alla figlia minore degli Evenson.

- Suo figlio è più chiuso e irrequieto del solito, comunque. – le comunico, come per riproiettare il discorso sul bambino. - Il mio Frederick, invece è sempre così tranquillo e ben educato.. – disse, vantandosi con aria soddisfatta.

Elizabeth inarcò le sopracciglia. Le stava forse provando a insinuare che non aveva insegnato l’educazione ai suoi figli?

Cento e uno, centodue, centotre…

Un’assurdità del genere come il contare poteva funzionare solo con suo marito, ovviamente.

Non colpirla, non colpirla, non colpirla.

- Ho notato. È successo qualcosa durante il dopo scuola, che lei sappia? – domandò, non dando peso, anche se con un certo sforzo, alla seconda parte del discorso.

- Vuole che le elenchi quello che combina suo figlio sotto la mia supervisione, o preferisce che le mandi un mail stasera? – le domandò l’altra, con una nota di sarcasmo che le fece venire voglia di prenderla a schiaffi. Provò a immaginarsi il marito che le diceva di restare calma e di non abbassarsi al suo livello, ma non era sicura che potesse funzionare con lei quel bel giochetto.

Si massaggiò le tempie, stanca. Aveva avuto il turno di notte e con due bambini piccoli, uno dei quali esagitato, non era affatto facile riuscire a tenere tutto sotto controllo. Suo marito si dava da fare, certo, ma anche lui aveva i suoi impegni improrogabili e le sue ore da fare. Soprattutto ora che lavorava in maternità. Avrebbe potuto lasciare i figli con la suocera, ma non voleva nemmeno sorbirsi anche i suoi consigli su come gestire i suoi figli. Poteva occuparsene lei, si diceva. Era sicura che avrebbe trovato il tempo e le energie per fare tutto, ma ultimamente, in particolari in momenti come quello, non ne era più così certa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Entrò nell’atrio un uomo sulla trentina, alto e attraente. Il camice immacolato faceva risaltare i capelli neri pettinati all’indietro e gli occhi azzurri. Dal taschino del camice, al quale era attaccato il cartellino di riconoscimento, spuntava una penna colorata e la mano destra reggeva una valigetta da lavoro.

Si sistemò gli occhiali rettangolari sul naso e lasciò vagare lo sguardo nella stanza, fino a quando non individuò i figli giocare sul pavimento, e la moglie parlare con la signora Lovelace davanti allo “Spazio bimbi”.

Le fece un cenno, per farle capire che era arrivato. Elizabeth si girò smettendo di controllare i bambini e dedicando tutto la sua attenzione all’altra donna, facendo intendere al marito che l’aveva visto.

Thomas si avvicinò ai bambini, sedendosi sulla sedia alla destra dello zainetto nero di Eric. Aveva cercato di arrivare il prima possibile, ma era stato trattenuto.

La sua maggiore preoccupazione, mentre si sbrigava per arrivare fin lì, era stata il temperamento poco tranquillo della moglie: certo, dai tempi della scuola e dell’iniziazione si era tranquillizzata parecchio, ma preferiva prevenire ogni eventuale sbalzo d’umore o, trattandosi proprio di Lilian Lovelace, ogni possibile episodio di tentato omicidio.

- Ciao papà! – lo salutò, quello che era abbastanza sicuro fosse William. Non perché ci fosse qualche differenza nell’aspetto dei suoi figli: erano due perfette gocce d’acqua, identici fino all’ultimo capello e perfino lui e sua moglie alle volte faticavano a riconoscerli, ma gli sembrò un po’ improbabile che William di mettesse a fare le torri con i giocattoli e poi si divertisse a distruggerle, quindi andò per esclusione.

Thomas stirò le labbra in un sorriso, mentre il bambino gli andava incontro con il librino che gli aveva dato quella mattina. Molti bambini Eruditi iniziavano a leggere già a quell’età e, né William né Eric, avevano fatto eccezione anche se tra i due il più interessato ad apprendere, almeno fino a quel momento, sembrava William.

Eric sembrava prediligere il mandare fuori di testa sua moglie e chiunque non gli andasse a genio.

Per quel che lo riguardava, per come la vedeva lui, la spiegazione per la costante agitazione del figlio era talmente ovvia da risultare quasi stupida. Anche se per il momento Elizabeth sembrava preferire il far finta di nulla, o più semplicemente ignorare la cosa. Eppure tra qualche anno avrebbe dovuto fare i conti anche lei con le inclinazioni del figlio, era inutile fingere di non vedere per convincersi che non fossero già più che evidenti.

- Che fa tuo fratello? – chiese distrattamente a William, che nel frattempo si era seduto a gambe incrociate davanti a lui e si rigirava distrattamente il libro tra le mani.

A quanto pareva non lo sapeva nemmeno lui perché si girò, ruotando sul sedere, verso il fratello e lo guardò incuriosito.

Poco più in là rispetto a dov’erano loro, Eric, dopo aver buttato in terra e sparpagliato tutti i giocattoli a cui era riuscito ad arrivare, si era messo d’impegno nel fare una torre con dei cubetti di lego colorati, e sembrava non essersi minimamente accorto del suo arrivo. Anche se probabilmente lo stava semplicemente ignorando, concentrato com’era nel suo intento.

Quando la “torre” fu diventata alta all’incirca come il bambino, Eric si alzò, la contemplò un momento senza particolare entusiasmo, e poi le tirò una pedata con rabbia, facendo sparpagliare tutti i pezzi per terra.

Guardò senza allegria il disastro che aveva combinato, e i mattoncini di lego sparpagliati in blocchi più o meno grandi sul pavimento. Poi, si diresse senza dire una parola verso di lui, lanciandogli un’occhiata vuota e cupa. Quando fu abbastanza vicino, Eric, prese il suo zainetto e senza rendere conto a nessuno si diresse verso la porta a vetri che conduceva verso le scale.

Thomas lanciò un’occhiata veloce in direzione della moglie, che a quanto pare, contando sul fatto che ci fosse lui con i bambini non si era accorta di nulla. Si girò verso William, sperando che non gli venisse voglia di emulare il fratello e che continuasse a trovare interessante il librino che si era portato dietro tutto il giorno e che gli rimise immediatamente tra le mani.

- Aspetta qui, d’accordo? E non ti allontanare per nessun motivo, se hai bisogno di qualcosa chiedi alla mamma – disse, alzandosi e tirando su da sotto le braccia il bambino per metterlo a sedere dove fino a secondo prima stava lui.

Si girò, e quasi si aspettava di vedere Eric attraverso la porta a vetri, ma non fu così.

Povero illuso. Figurati se quella peste aspettava i suoi comodi.

A quanto pare, il piccolo delinquente, aveva deciso di darsi alla fuga. Non che fosse la prima volta. Ebbe un moto di preoccupazione: poteva essersi infilato ovunque, e se Elizabeth si fosse accorta che uno dei due bambini mancava all’appello, sarebbero stati nei guai tutti e tre.

Si diresse, quasi correndo, verso l’uscita e poi giù per le scale, sperando che il piccolo mostriciattolo non fosse arrivato già all’uscita dell’edificio: era ancora piccolo, e aveva paura decidesse di attraversare la strada da solo, rischiando di essere investito.

Quando arrivò al quinto piano, gli venne sbarrata la strada da una giovane infermiera dai capelli biondi legati in un chignon.

- Ha visto per caso un bambino alto all’incirca così – iniziò, prima che lei potesse aprire bocca, segnando con una mano l’altezza del bambino. – con i cappelli neri e gli occhi grigi, passare dal reparto? Ha uno zainetto nero e una felpa blu.

- No mi spiace dottore, io.. – iniziò la ragazza, gentilmente, guardandosi intorno.

Thomas girò, forse sentendosi osservato, la testa verso la fine delle scale: eccolo, il fuggiasco. Lui e il figlio si scambiarono uno sguardo di un paio di secondi, poi il bambino iniziò a correre giù per le scale a tutta velocità.

- La ringrazio. – disse sbrigativamente, mentre si lanciava all’inseguimento del bambino che, per essere così piccolo, prometteva già di essere un ottimo corridore. Per lui era più difficile scansare medici, infermieri e pazienti che salivano e scendevano le scale affollate, mentre Eric poteva benissimo passare sotto le braccia degli adulti e farsi spazio più agevolmente di un uomo di oltre un metro e novanta come lui.

- Buongiorno, dottore! – lo fermò una donna sulla sessantina con i capelli brizzolati, mentre scendeva rapidamente le scale tra il quarto e il terzo piano. Era la segretaria del suo reparto, quello di Maternità, e non era in grado di tenere la bocca tutta insieme per più di un paio di minuti. Forse anche meno.

- Bello avere giovani intelligenti e di talento, vero? – disse rivolgendosi all’amica, che sembrava, solo a vederla, tanto chiacchierone quanto lei. – Lei come sta? Sua moglie? Il dottore ha due gemellini così bellini, Ally, dove sono ora? –

Uno mi è appena scappato giù per le scale, probabilmente diretto verso l’uscita.

- Uno se ne sta andando giù per le scale. Vi lascio alle vostre chiacchiere.. – disse sbrigativamente, aggirando le due donne che tuttavia non si scomposero.

- Ma certo, non si preoccupi! – la sentì rispondere, con la stessa nota rilassata nella voce di chi non ha impegni nell’immediato. Come inseguire per l’ospedale un bambino di quattro anni esagitato e senza la minima considerazione delle regole.

Fece i gradini due alla volta rischiando anche di inciampare su una barella poi, finalmente, dopo aver urtato inavvertitamente alcuni colleghi, ed essersi quasi rotto l’osso del collo – fortuna che era già all’ospedale - arrivò all’uscita e vide Eric attraverso i vetri trasparenti della porta girevole, aspettare che si fermassero le macchine.

- Eric! – lo chiamò, iniziando ad alterarsi. S’infilò rapidamente tra due pannelli della porta e un attimo dopo era fuori. Aveva quasi il fiatone per la corsa e il figlio non sembrava volerlo degnare di attenzione, mentre seguiva con la testa lo scorrere dei veicoli sulla strada a tre corsie.

Si mise sulle ginocchia, per arrivare all’altezza di Eric e poterlo guardare in faccia. Quando lo girò verso di sé il bambino immusonito più del solito, gli lanciò uno sguardo accusatorio.

Che c’era adesso?

- Quante volte ti abbiamo detto di non allontanarti da solo? – lo sgridò, afferrandolo per un braccio e stringendolo leggermente per assicurarsi che non scappasse in mezzo al traffico. – Vuoi essere investito? Si può sapere che ti prende ultimamente? –

Prima che potesse finire di sgridarlo e il figlio potesse formulare una risposta, notò che c’era qualcosa che non andava nel bambino: aveva un’ombra, dietro gli occhioni grigi che non avrebbe dovuto esserci, ne era sicuro. Questo, lo fece esitare sui suoi propositi di sfuriata.

C’era qualcosa di maledettamente sbagliato nel modo in cui lo stavo guardando suo figlio.

Ebbe conferma dei suoi sospetti due secondi dopo, quando lo vide strattonare il braccio e, non riuscendoci, gli occhi gli si riempirono di lacrimoni.

Dannazione. Non piangere, non piangere, non piangere.

Cerco di recuperare la calma, facendo un bel respiro e passandosi la mano libera tra i capelli mossi, ripettinandoli all’indietro e cercando di riacquistare il suo comportamento tranquillo.

- Mi ha sgridato anche la mamma… - mormorò il bambino con voce tremolante, mentre posava a terra lo zainetto e si guardava intorno nervoso, come se si aspettasse di essere visto fare qualcosa che non avrebbe dovuto.

- E perché la mamma ti ha sgridato? – gli domandò con più calma, allentando la presa sul braccio del bambino e massaggiandoglielo lentamente. Non voleva fargli male, per nessuna ragione al mondo.

Dopo essersi guardato nuovamente intorno con l’ansia dipinta sul viso, piantò gli occhioni grigi sul suo viso e deglutì, come se avesse paura e dire qualcosa che l’avrebbe messo nei guai.

- Pecché ho tirato un calcio alla signora … - iniziò insicuro, fermandosi prima del nome con le sopracciglia aggrottate in un’espressione concentrata. Forse non sapeva come dirlo, in fin dei conti aveva solo quattro anni.

- La signora Lovelace, Eric?– gli suggerì. Eric annuì timidamente, guardandolo con occhi colpevoli.

- Perché ti sei comportato male con lei? - gli chiese gentilmente, mentre afferrava lo zainetto del figli e si rimetteva in piedi, porgendo una mano al bambino che la guardò sospettoso.

Il fatto che Eric scuotesse la testa in quel modo e fosse così confuso lo turbò. Aveva una strana sensazione a cui non riusciva a dare un nome, più tardi ne avrebbe discusso con la moglie, poco ma sicuro.

Afferrò comunque la mano del bambino, dato che lui non sembrava intenzionato a prendere l’iniziativa, permettendogli di stringergli due dita e si avviarono verso l’entrata dell’ospedale.

- Ti va di fare merenda? – lo tentò, mentre camminavano nell’atrio.

Eric annuì con la testa mentre si sforzava di trotterellare accanto al padre che aveva le gambe molto più lunghe delle sue.

Vedendo la difficoltà del bambino, rallentò un po’ l’andatura.

Si fermarono poco dopo, in mezzo all’ingresso, e Thomas si chinò per rinfilare lo zainetto al figlio. Lo guardò in viso, l’espressione tranquilla.

- Perché hai tirato un calcio alla signora Lovelace? – chiese ancora, con calma. Il bambino parve arrabbiarsi, mentre gli occhi grigi si infiammavano. Quando faceva così, gli ricordava in modo quasi inquietante Elizabeth ai tempi della scuola, quando si erano conosciuti e si detestavano come poche persone al mondo avevano fatto. Il che, considerando la diversità di carattere, era anche comprensibile. Poi si erano sposati e avevano messo al mondo due bambini, ma questo era un altro discorso.

- Perché è stata brutta! – gli disse arrabbiato il bambino, stringendo i pugnetti e assumendo un’aria corrucciata.

Thomas sospirò. Se c’era un’altra cosa che sicuramente Eric aveva ereditato da sua moglie, era il fatto di dovergli tirar fuori le cose con le pinze. Oltre all’adorabile temperamento.

Thomas si rimise in piedi, e condusse il figlio fino alla fine dello spaziosissimo ingresso.

Svoltarono a destra, proseguendo per un largo corridoio, fino ad arrivare al bar. Prese in braccio il bambino ed entrò, mentre Eric si sedeva comodo sul braccio del padre e si gingillava nervosamente la mani, guardandosi in torno con aria vigile.

- Buongiorno dottor Turner! – lo salutò la barista quando arrivò al bancone. Camille era una ragazza sulla ventina dagli occhi verdi e dai capelli castani legati in una crocchia dietro la testa. Le sorrise cortesemente.

- E lui chi è? William o Eric? – domandò guardando il bambino, che alzò il visino imbronciato su di lei riservandole un’occhiata diffidente.

- Eric. – rispose Thomas, facendolo dondolare su e giù con il braccio su cui Eric era comodamente seduto.

- Ma certo! Ciao, Eric! – lo salutò sporgendosi verso di lui cercando di intercettare lo sguardo del bambino che, per tutta risposta, si strinse al suo collo facendola scoppiare a ridere.

- Non ha molta voglia di chiacchierare, oggi. Vero? – disse Thomas, indirizzando l’ultima parola nell’orecchio del bambino che scosse la testa, mogio. Il padre gli passò una mano sulla schiena, come quando aveva mal di pancia e voleva essere tranquillizzato.

- Ma scommetto che ti va di bere qualcosa, vero? – gli chiese ammiccante la ragazza, poggiando un braccio sul bancone e guardandolo gentilmente.

- Lei vuole qualcosa, dottore? – chiese, rivolgendosi al dottor Turner.

Annuì, mentre cercava di stimolare il bambino a girarsi. - Per me un cappuccino, grazie Camille. –

Camille sorrise un po’ a quella scena mentre faceva partire la macchina del caffè, e preparava la schiuma con il latte. Quando ebbe finito, posò la tazza davanti all’uomo che, nel frattempo, si era seduto su uno dei panchetti facendo accomodare il bambino sulle proprie gambe. Eric non sembrava molto entusiasta di quella soluzione, ma la sua attenzione fu catturata dalla schiuma bianca della bevanda.

Camille vide Eric lanciare un’occhiata al padre, che sembrava momentaneamente troppo preso dai suoi pensieri, e infilare un dito nella schiuma per poi ciucciarlo. Le venne da ridere a quella scena.

- Guarda che ti ho visto! – scherzò la ragazza, guardandolo con un’espressione di finto rimprovero.

- Anche io! – decretò il bambino, infilando un’altra volta un ditino nella schiuma e spalmandolo il tutto sulla guancia del padre.

- Eric! – lo riprese, prendendo un tovagliolo per pulirsi. – Non è divertente! – lo ammonì, non riuscendo tutta via a nascondere un sorrisetto vedendo l’espressione seria del bambino. Almeno sembrava più tranquillo e non aveva più i lucciconi, anche se non sembrava ancora rilassato.

- Anche tu, cosa? – indagò gentilmente Camille, rivolgendosi al bambino.

- Cchiuma! – esclamò, indicando la tazza del padre.

- Non sei un po’ piccolo per il cappuccino, tesoro? – lo prese in giro la ragazza, sorridendo vedendo l’espressione risentita del bambino che aveva iniziato ad agitarsi per sedersi un po’ più in su sulla gamba del padre.

- Vuole darlo a me, dottore? – chiese la ragazza, vedendo il padre di Eric in difficoltà.

- Grazie! – le disse, passandoglielo sopra il bancone. Eric non sembrava molto d’accordo con quello scambio, ma si fece prendere in braccio e posare a terra senza protestare.

Si guardò intorno, incuriosito. Gli sembrava quasi un altro mondo dietro il bancone, ma il fatto di sentirsi ancora più piccolo del solito lo metteva in agitazione.

 La ragazza si sedette sui talloni, per provare parlargli.

- Ti va di bere qualcosa? – gli chiese gentilmente, passandogli una mano su un braccio.

Eric la guardò diffidente, ma poi annuì un paio di volte con la testa.

- Allora vieni con me – gli disse prendendolo per mano e conducendolo poco più avanti, davanti al mini frigo.

- Guarda… si preme qui, - gli spiegò, prendendo il bottone di apertura. All’interno del frigo c’erano varie bibite. Eric la guardava con attenzione. - …e, secondo me, a te va un bel succo di frutta! Che dici? –

Il bambino annuì un po’. Quella “signorina”, come gli diceva sempre di chiamare le ragazze giovani la mamma, iniziava a piacergli. E lui si sentiva un po’ meglio, ora che iniziava a distrarsi e il suo papà era lì vicino.

- Che gusto vuoi? – gli chiese Camille, facendolo mettere davanti al contenitore per scegliere.

- Pera – rispose, guardandola.

- Guarda, è quello laggiù. – gli indicò, permettendogli di prendersi la bibita da solo. Il bambino s’infilò nel frigo, con l’aria un po’ più contenta rispetto a quella che aveva quando era arrivato. Per prendere il succo si dovette quasi infilare del tutto dentro il frigo, ma riuscì a cavarsela e a riemergere con il barattolino in vetro in mano.

Camille gli prese la bevanda dalle mani e la sbatté un paio di volte sul palmo della sua mano per agitarlo, tolse il tappo, prese una cannuccia azzurra e lo diede in mano al bambino, che iniziò a bere con una certa soddisfazione.

Eric sorseggiò il succo fresco, tenendo con una mano il recipiente e con l’altra la cannuccia. Si guardò intorno di nuovo, girandosi e cercando di allungarsi sulle punte dei piedi verso il punto in cui avrebbe dovuto esserci, anche se non lo vedeva, il padre. Non che potesse andare molto lontano.

- Il tuo papà è qui dietro, stai tranquillo - gli spiegò Camille indicandogli un punto alla sua destra, anche se in quel momento il bambino non sembrava agitato o turbato dall’assenza della figura paterna; sembrava più incuriosito che altro. Lei, dal canto suo, non vedeva l'ora di terminare il percorso di studi in psicologia infantile. Adorava i bambini.

- Un po’ di pizza, ti va? – aggiunse, quando il bambino ebbe finito il succo di frutta.

Eric annuì, passando il barattolo vuoto a Camille che aprì con il piede un piccolo cestino sotto il bancone e ce lo buttò. Gli scaldò un quadrato di pizza margherita, mentre il bambino si guardava intorno. Chissà com’era stare lì dietro, essere così piccoli, e dover guardare tutto dal basso verso l’alto.

Avvolse il pezzetto di pizza in due tovaglioli, in modo che non si bruciasse e gliela passò.

Eric mangiò in silenzio, continuando a girellare senza una meta precisa, fino a quando non sentì la voce del padre spostarsi verso l’altra parte del bancone. Si allungò nuovamente per vedere dove stava andando, non voleva rimanere lì da solo.

- Vai d’accordo con tuo fratello? – gli domandò Camille, cercando sia di distrarlo dalla momentanea assenza del padre sia di stimolarlo a parlare.

Eric annuì con la testa, poi parve riflettere su qualcosa e la inclinò prima a destra e poi a sinistra, come a dire “così e così”.

Quando ebbe finito di mangiare, di diresse verso il cestino, lo aprì e ci buttò dentro i tovagliolini, strofinando le mani tra loro per mandar via le ultime briciole di pizza. Poi tese seriamente le braccia verso Camille, per farsi tirare su.

Lei, sempre sorridendo, si chinò e lo prese in braccio tenendogli una mano sotto in modo che stesse seduto. Afferrò un tovagliolino da uno dei recipienti in metallo e lo passò al bambino, che si pulì la bocca, con calma. A quanto pare non era di molte parole; lo mise seduto sul bancone, le gambe rivolte verso di lei.

- Come si dice, Eric? – gli chiese il padre che aveva appena pagato alla cassa e si stava sedendo nuovamente sullo sgabello.

Il bambino si mordicchiò il labbro inferiore e lanciò un’occhiata un po’ timida a Camille che continuava a sorridergli gentilmente.

- Grazie.. – cantilenò con voce mogia, dondolando le gambe che poi sollevò e passò dall’altra parte del tavolo, verso il padre.

- Eric. – lo chiamò il padre, facendolo girare. – sei sicuro che non c’è niente che mi vuoi dire? – chiese, guardandolo intensamente, come a intimargli di dire la verità. Quel comportamento altalenante cominciava a preoccuparlo. Un momento prima era tranquillo, e un attimo dopo era triste e ombroso.

Il sorriso sparì subito dalla faccia del bambino, che scoccò un’occhiata all’uomo e scosse la testa di un cenno affermativo, mentre teneva gli occhi puntati alle spalle del padre.

Stava passando un uomo sulla quarantina con i capelli color paglia e l’aria arrogante che li degnò di una rapida occhiata e proseguì, probabilmente diretto verso gli ascensori.

Thomas, che avendo intercettato lo sguardo turbato del bambino si era girato per vedere cosa aveva richiamato la sua attenzione, avrebbe potuto non trovarci niente di strano, se non per il fatto che Eric, vedendo passare l’uomo, aveva tirato le gambe sul bancone del bar e aveva messo su un’espressione ostile e, anche se non ne era sicuro, forse anche un po’ spaventata.

- Eric? Che c’è? – insistette ancora, questa volta guardandolo severamente. Sapeva che era inutile insistere troppo con lui, perché era tremendamente cocciuto e avrebbe preferito fare lo sciopero della fame piuttosto che fare qualcosa contro voglia, ma cominciava a spazientirsi.

Il bambino storse un po’ la bocca, costringendolo a rigirarsi, quasi esasperato. Perché non parlava? Suo fratello non teneva mai la bocca tutta insieme, mentre lui ultimamente non spiccicava parola.

Camille alzò gli occhi, guardando anche lei nella stessa direzione dei due: stava entrando, tenendo per mano l’esatta fotocopia di Eric, una donna sulla trentina che doveva essere senza dubbio la madre dei due; aveva gli stessi occhi grigio chiaro dei figli, e per quanto la somiglianza con il padre fosse marcata, entrambi i bambini aveva qualcosa nell’espressione che avrebbe tolto ogni dubbio a chiunque.

Elizabeth si avvicinò, ancora irritata dalla conversazione appena avuta con quella menomata, ignorante e stupida della signora Lovelace. Thomas avrebbe dovuto essere fiero di lei, poiché era riuscita a non cedere alla provocazione, cosa che le era costata un certo sforzo, e a trattarla con sufficienze senza perdere le”staffe”.

Lanciò uno sguardo penetrante a Eric, che ricambiò con l’espressione di chi si aspetta una bella lavata di testa. Il bambino inarcò un po’ le sopracciglia, cercando di fare tenerezza alla madre, ma non parve funzionare granché. Doveva essere proprio arrabbiata, anche se era abituato a essere sgridato, specialmente da lei.

Elizabeth inarcò un sopracciglio: ora faceva il pentito? Appena fossero arrivati a casa, l’avrebbe sentita, che Thomas fosse d’accordo oppure no.

Il fatto che anche lei avesse avuto l’impulso di prendere a calci la signora Lovelace, non implicava necessariamente che fosse una cosa corretta e che approvasse che fosse suo figlio a farlo. E poi non sopportava di dover delle scuse a quella.

- Beh, andiamo? – chiese spiccia all’indirizzo del marito, mentre lasciava il bambino che teneva per mano e si avvicinava a Eric per farlo scendere dal bancone. Lo prese da sotto le braccia e lo posò a terra, scoccandogli un’occhiata di rimprovero.

Lo prese sbrigativamente per mano, controllando che avesse preso tutto e che fosse tutto in ordine. Respirò pesantemente dal naso: Eric e la parola “ordine” non andavano bene nemmeno nella stessa frase. Scosse leggermente la testa, mentre aspettava che il marito prendesse l’altro bambino. Fece un cenno di saluto alla giovane barista ed uscirono.

- Ciao, Camille! – sentì salutare il marito. Ecco, ci mancava solo che si mettesse a fare conversazione. Non andavano di fretta?

Uscirono dall’edificio e si ritrovarono tutti e quattro ad attendere che le macchine che percorrevano la via si fermassero. Quando venne il momento di attraversare intimò ad Eric di non schizzare via come al solito e si mosse rapida verso l’altro lato della strada.

Quando furono tutti e quattro sul marciapiede opposto ed ebbero fatto due passi in direzione del parcheggio riservato ai dipendenti dell’ospedale, abbassò gli occhi sul bambino che, a quanto pareva, non aveva intenzione di proseguire oltre. Sembrava gli si fossero incollati i piedi a terra. E adesso che diamine c’era?

Thomas e William erano un po’ più avanti, a una decina di metri dall’ingresso del parcheggio.

Provò a tirarlo, senza metterci troppa forza per spronarlo a muoversi. Desiderò di non averlo mai fatto: il bambino, con lo sguardo abbassato a terra, sporse un po’ il labbro inferiore e sembrò essere sull’orlo delle lacrime, mentre con una mano si strusciava gli occhi.

Strattonò la mano dalla presa della mamma e tirò su con il naso.

L’irritazione che aveva provato fino a  quel momento svanì all’istante come una nuvola di vapore, sostituita dalla preoccupazione.

Elizabeth s’inginocchiò davanti al bambino e gli accarezzò la testa, cercando di capire cosa c’era che non andava.

- Che hai amore? Ti ho fatto male? – gli chiese preoccupata, scostandogli i capelli dal viso per vederlo in faccia.

- Mi fa male la pancia. – piagnucolò il bambino, mettendosi una mano sul ventre e sviando lo sguardo della madre.

Si avvicinò un po’ di più a lui, passando con la mano nel punto in cui si era toccato.

- E la testa..- aggiunse in un lamento, mentre iniziava a piangere disperato, spalle scosse dai singhiozzi.

Lo attirò più vicino a sé, e gli posò le labbra sulla fronte, lasciandogli un bacio e accarezzandogli i capelli per tranquillizzarlo.

- La febbre non ce l’hai tesoro… - disse, incerta. – dove senti male? Qui? – gli chiese massaggiandogli con una mano la schiena mentre con l’altra continuava ad accarezzargli i capelli.

- Sì.. – singhiozzò lui, facendo cadere due lacrimoni sul pavimento, mentre lei sentiva crescere l’ansia. Eric piangeva così di rado che non appena lo faceva, lei andava subito nel panico pensando che avesse chissà cosa.

- Così tanto? – domandò ancora preoccupata, prendendolo in braccio e stringendoselo contro il petto, mentre il bambino le stringeva le braccia intorno al collo e annuiva contro la sua spalla.

Continuò a massaggiargli la schiena, cercando di calmarlo.

- Va tutto bene tesoro, ora andiamo a casa.. – cercò di rassicuralo, mentre raggiungeva il marito che la stava aspettando vicino all’autoveicolo.

Thomas le lanciò un’occhiata interrogativa, come a chiederle spiegazioni, e lei gli face segno di lasciar stare.

Andò dalla parte del guidatore ed aprì lo sportello posteriore, infilando cautamente il bambino sul seggiolone e sedendosi sul bordo del sedile posteriore.

- Facciamo così: appena arriviamo a casa ti preparo una bella tisana calda, ti va amore? – gli domandò, mentre lo sistemava in modo che stesse comodo per il tragitto di ritorno.

Il bambino annuì, asciugandosi gli occhi con la manica della felpa e tirando un po’ su con il naso mentre si rannicchiava sul seggiolone sofferente.

Elizabeth gli passò il pollice sulla guancia, e il dorso dell’indice sull’altra per asciugargli i lacrimoni che stavano ancora scendendo, poi estrasse un fazzoletto dalla borsa e gli pulì il viso con delicatezza lasciandoglielo poi sulle gambe, nel caso avesse avuto bisogno durante il tragitto.

Nel frattempo il marito aveva sistemato William dall’altro lato: avevano deciso, per una volta di comune accordo, di sistemare Eric dietro il guidatore in modo che la madre lo avesse sott’occhio, e William dietro il posto del passeggero.

Elizabeth schioccò un altro bacio sulla fronte del figlio, prima di fare il giro, montare in macchina e allacciarsi la cintura, il viso ancora preoccupato.

L’unico rumore che si sentì in auto dopo la partenza fu il tirare su con il naso di Eric, che se ne stava mogio sul su seggiolino, mentre il fratello lo guardava interrogativo e cercava di attirare la sua attenzione senza successo.

- Come stai? – chiese dopo un po’ Thomas, guardando il bambino dallo specchietto retrovisore. Vedeva giusto la testolina scura e spettinata di Eric appoggiata allo schienale, mentre William sembrava in procinto di addormentarsi beatamente.

Eric si strusciò gli occhi con le mani, e si spostò un ciuffo di capelli dagli occhi.

- Insomma.. – mugugnò, senza alzare gli occhi. Thomas addolcì un po’ lo sguardo.

- Perché non dormi un pochino anche tu? Vi portiamo su io e la mamma. – gli consigliò, mentre si fermava a un semaforo e la moglie si slacciava la cintura per sistemare William sul seggiolone dal quale stava scivolando.

Eric annuì un po’, lasciandosi scappare anche uno sbadiglio e, più rapidamente di quanto entrambi i genitori si sarebbero aspettati, scivolò anche lui nel sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Elizabeth lanciò un’occhiata dietro, per vedere cosa facevano i bambini mentre entravano nella strada di casa: William sembrava tranquillo, mentre Eric, costatò un po’ serena, era imbronciato anche nel sonno.

Si slacciò rapidamente la cintura, ancora prima che il marito avesse spento la macchina, e l’avesse finita di parcheggiare davanti al garage situato nella parte rivestita di pietra del giardino condominiale.

Aprirono quasi in simultanea le portiere, mentre Thomas slacciava e prendeva in collo Eric, e lei si occupava di William. Ce la faceva ancora a prenderli in braccio, anche se iniziavano a diventare abbastanza pesanti entrambi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Infilò William nel suo lettino, quello più in basso, mentre il marito sistemava Eric nel suo, più in alto.

Si assicurò che entrambi fossero sistemati e diete un bacio a William, mentre ad Eric, non arrivando fin sopra e non volendolo svegliare, fece una carezza sui capelli scompigliati, poi lei e il marito uscirono in silenzio e si misero al tavolo della cucina a finire di lavorare.

- Hai parlato con la signora Lovelace, Elizabeth? – chiese distrattamente il marito mentre guardava alcune cartelle cliniche.

- Sì.. – sospirò in risposta, mentre metteva in ordine alfabetico i pazienti. – a parte le scemenze che le escono nove volte su dieci dalla bocca, non mi ha saputo spiegare perché Eric si è comportato così; ha detto che sembrava tranquillo quando è arrivato dopo la scuola. Ed io le ho detto che ero perfettamente consapevole di come avevo lasciato mio figlio lì da lei… dopo l’ennesima risatina da decerebrata ho preso William e sono venuta a cercarvi… e non sono più nemmeno tanto sicura di volerlo sgridare. Prova a starci tutto il giorno, con quella. – raccontò, senza staccare gli occhi da quello che stava facendo.

Thomas sorrise un po’: per quante ne potesse fare Eric, non sarebbero mai state abbastanza da far provare a sua moglie solidarietà verso la signora Lovelace; e come il bambino aveva detto di stare poco bene, ovviamente, il rimprovero che era piuttosto che certo stesse preparando per quando sarebbero stati a casa, era sfumato in una secondo. Forse anche meno.

- A te ha detto niente? – domandò guardando attentamente il marito, che sospirò mentre appuntava qualcosa.

- Eric? – domandò, senza riflettere. Elizabeth annuì.

- No, niente. Ma si è comportato in modo strano per tutto il tempo… altalenante. È passato in continuazione dalla tranquillità all’ansia nel quarto d’ora che è stato con me, non ha quasi spiccicato parola, e quando l’ho trattenuto fuori dall'ospedale si è quasi messo a piangere. –raccontò, posando la penna e appoggiando entrambe le mani sulla tavola.

Elizabeth inarcò le sopracciglia. Quello sì che era strano: non tanto il “tentativo di fuga”, quello era un classico di suo figlio, ma quanto il fatto che piangesse senza motivo e che fosse addirittura più agitato e incostante del solito.

- Magari è stata solo una giornataccia… vediamo domani come vanno le cose, che dici? – propose, anche se non sembrava troppo convinta di quello che diceva nemmeno lei.

- D’accordo.. – acconsentì il marito, tornando alla sua occupazione mentre lei si alzava e andava a controllare i bambini: era piuttosto sicura di aver sentito qualcuno mugugnare la parola “mamma”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve a tutti, sono sempre io!

Tanto per cominciare vi volevo ringraziare TUTTI/E per aver apprezzato la scorsa one-shot (“It’s Women’s Day also for you”) perché sul serio non me lo aspettavo, quindi GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE E ANCORA GRAZIE!

In particolare voglio ringraziare Kaimy_11, Adeus, Fabi96, i love evanescence e awkward_girl per aver recensito la storia e avermi detto cosa ne pensavano… era esattamente quello di cui avevo bisogno! Poi, ringrazio anche Lordy Voldy_girl, Adeus (di nuovo) e Memory Eaton per averla inserita tra i “Preferiti”, DarthGiuly e Adeus per averla messa tra le “Ricordate”, ed infine Ally_78 per averla messa tra le seguite!

Ho parecchie idee in cantiere (forse anche troppe!) ma l’altro giorno, mentre scrivevo l’aggiornamento della mia long “Braveheart”, mi è venuta l’ispirazione e mi sono messa a scrivere questa storiella; non ho ancora deciso quanto farla lunga, ma spero la apprezzerete ugualmente! Sarà a tratti comica, perché si parla della mia versione di Eric in formati mini, ma tratterà anche di argomenti di un certo spessore e di una certa gravità. Ho voluto provare a dare una spiegazione al perché Eric sia così chiuso e cattivo con tutti e mi sono inventata, di sana pianta, “l’inizio” dei suoi problemi.

Passiamo alle mie domande da scrittrice esaurita: come vi sembrano i nuovi personaggi? Ovviamente devono ancora svilupparsi, ma io ho già in mente come fargli evolvere. Qualcuno ha capito la mia idea per la fic? O sono stata brava? Fatemi sapere che ne pensate, che sia una cosa positiva, negativa, un consiglio, un insul… insomma, avete capito!

 

 

*il nome Lovelace, viene citato da Quattro in “Four – una scelta può liberarlo” durante la Cerimonia della Scelta, quando viene chiamato un ragazzo tutto vestito di blu che rimane negli Eruditi.

Il resto, nomi, cognomi, personaggi e quant’altro è frutto della mia mente bacata.

Spero che abbiate apprezzato questo primo capitolo, e che la lettura non risulti noiosa, e che vogliate farmi sapere con una recensione (positiva o negativa che sia) o con un messaggio o eventualmente con un segnale di fumo (?) cosa ne pensate!

Vi lascio anche il link della mia pagine facebook: https://www.facebook.com/pages/Kaithlyn-J-Evenson/865334640156569?ref=hl

A presto,

Kaithlyn.

  
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