Nuovo
esperimento! Spero vi piaccia… e spero di essere in
grado di trattare gli argomenti come si deve! Ormai ho preso
l’abitudine a
scrivere due righe in cima al capitolo, ma non voglio dilungarmi
troppo, quindi
vi lascio alla lettura e ci vediamo in fondo, dove troverete tutte le
delucidazioni (spero) riguardo questo primo capitolo!
Capitolo
1
-
Eric! Vieni immediatamente
qui! – gridò una giovane donna dai capelli neri
legati dietro la testa,
indirizzando la voce verso il fondo dello spazio riservato ai bambini.
Un
bambino di circa quattro
anni si alzò dal fondo del grande stanzone facendo leva
sulle mani e si diresse
trotterellando verso la donna che l’aveva chiamato. La stanza
era stata adibita
per accogliere i figli del personale, bambini con parenti ricoverati e
piccoli
pazienti che necessitavano di un momento di svago.
Elizabeth
guardò con
impazienza il bambino, sperando che si velocizzasse: aveva passato
l’ultimo
quarto d’ora a sentire le lamentele dell’addetta ai
bambini, e prima obbligava il
figlio a chiederle scusa per quella benedetta pedata, prima avrebbe
potuto
prendere lui e il fratello e tornarsene a casa. Possibile che suo
figlio non
riuscisse a stare fermo e buono nemmeno per mezzo pomeriggio?
E
fortuna che non c’erano
state emergenze o mancanza di personale quel giorno, o né
lei né tantomeno il
marito avrebbero potuto correre a prendere i figli.
Il
bambino era quasi
arrivato al cancelletto in legno che divideva l’atrio
asettico dall’area
colorata e sicuramente più vivace in cui si trovava lui,
quando rallentò
l’andatura, si fermo, ed alzò gli occhioni grigi
sulla madre e sulla
responsabile dei bambini, la signora Lovelace.
Elizabeth
lo squadrò dalla
testa ricoperta di capelli nerissimi, fino alla punta delle scarpe da
ginnastica,
e storse la bocca. Le sembrava un po’ troppo.. in
ordine.
-
William, tesoro, non ci
provare nemmeno. – gli disse rapidamente, facendolo fermare
sul posto con aria
spaesata.
Il
bambino le lanciò
un’occhiata perplessa guardandosi poi alle spalle, come se si
aspettasse di
vedere qualcun altro.
Eccellente:
i suoi figli non andavano ancora ai Livelli
Inferiori, e già pensavano a come raggirare lei e con ogni
probabilità suo
marito.
-
Ma… - iniziò a protestare
il piccolo, prendendosi le mani e guardandola come se si aspettasse che
la
madre correggesse il proprio errore.
-
Vai a dire a tuo fratello
che sono arrivata, d’accordo? – gli disse,
lanciandogli uno sguardo che non
ammetteva repliche, nonostante il tono fosse accomodante.
-
Va bene… - acconsentì
William, senza troppa convinzione, tornando rapidamente sui suoi passi
e
svoltando nella stanza laterale a quella principale.
Elizabeth
si armò di
pazienza: fino a quando entrambi non fossero stati lì, e lei
non avesse avuto
una buona scusa per liberarsi della signora Lovelace, avrebbe dovuto
sopportare
le lamentele di quest’ultima sul figlio; “e
quanto è agitato, e perché non dorme il
pomeriggio come gli altri bambini, e come
mai non ascolta i rimproveri, e che si distrae in
continuazione..”
Intanto,
William era di
ritorno. L’aria fin troppo soddisfatta per il compito che
aveva svolto da solo.
Lo
guardò le sopracciglia
scure e ben delineate inarcate in un’espressione perplessa.
-
Ho fatto mamma! – le
comunicò lui con entusiasmo, la voce intrisa della
soddisfazione di chi si
aspetta di sentirsi dire quanto è stato bravo, mentre
spostava il peso da una
gamba all’altra.
Elizabeth
lo guardò, stringendo
leggermente le labbra, come se stesse cercando di far capire al figlio
come
stavano le cose senza sgonfiarlo come un palloncino.
-
Hai fatto cosa, ehm…
tesoro? – gli domandò titubante, mentre
l’entusiasmo del bambino lasciava il
suo viso per fare spazio all’espressione confusa di chi non
capisce dove ha
sbagliato.
William
sbuffò gonfiando le
guance paffute, come se dovesse rispiegare qualcosa di terribilmente
ovvio a
qualcuno di terribilmente lento a capire e non ne avesse la minima
voglia.
-
Ho detto a Eic che sei arrivata!
– spiegò
cantilenante.
-
E… dov’è? – lo
incalzò la
donna, incerta. Nonostante fosse un’Erudita, non era per
niente sicura di voler
sapere la risposta a quella domanda.
Il
bambino girò il busto e
indicò con l’indice verso la stanza in cui era
sparito poco prima, guardando le
due donne quasi turbato dalla lentezza con cui stavano seguendo i suoi
ragionamenti.
-
Ha detto che lo sa, che
sei arrivata! – specificò sorridendo, come se
avesse finalmente capito, come
mai le due donne non riuscissero a comprendere quello che stava
cercando di
spiegare.
Si
scambiarono tutti e tre
uno sguardo silenzioso, che rimbalzò da William alla madre,
dalla madre alla
signora Lovelace, e dalla signora Lovelace nuovamente al bambino.
Le
possibilità, secondo
Elizabeth, erano due: o i suoi figli erano due idioti, uno
più dell’altro, oppure
erano già due piccole menti diaboliche e geniali. In ogni
caso potevano solo
peggiorare, ed una risposta del genere era esattamente quello che si
poteva
definire una risposta preoccupante.
Se già a quell’età facevano dei
discorsi del genere, non osava nemmeno
immaginare cosa le avrebbero riservato una volta cresciuti.
Elizabeth
aprì il
cancelletto in legno si
abbassò verso il
bambino, si sedette sui talloni, e gli accarezzò un guancia.
-
William, amore della
mamma… - iniziò, guardandolo pazientemente e
scostandogli dagli occhi grigi
come l’acciaio i capelli corvini.
Venne
interrotta dalla
signora Lovelace che si schiarì la voce, preannunciando dei
passetti rapidi e
lievi, probabilmente attutiti dal tappeto, che si dirigevano verso di
loro.
Alzando
lo sguardò incrociò
gli occhi grigi di Eric, che dopo aver osservato per un momento la
madre,
lanciò un’occhiata carica di ostilità
alla signora Lovelace, ancora in piedi
alle spalle della madre.
Elizabeth
si tirò in piedi, si
lisciò la gonna blu scura che indossava sotto il camice
chiuso solo per un paio
di bottoni agganciati sulla pancia, e si spostò dietro le
orecchie un paio di
ciuffi neri e lisci che erano sfuggiti all’acconciatura. Poi
guardò
intensamente il figlio.
-
Eric, vuoi chiedere scusa alla
signora Lovelace, per averle tirato un
calcio? – gli domandò duramente, con un tono che
faceva chiaramente intendere
che più che una richiesta, fosse proprio un ordine. Mal
sopportava Lilian
Lovelace, e trovarsi in condizione di doversi scusare la rendeva
notevolmente
nervosa.
Il
bambino non sembrava
particolarmente impressionato dal tono alterato della madre, mentre
sembrava
riflettere sulla risposta da rifilarle, e osservava il fratellino
sedersi per
terra ed estrarre dalla tasca principale dello zaino, un libricino.
-
No. – rispose dopo alcuni secondi,
usando lo stesso tono con cui avrebbe potuto rispondere in caso la
madre gli
avesse chiesto se aveva fame.
Elizabeth
alzò gli occhi al
cielo. La prossima volta che Thomas, suo marito, avesse provato a dire
che era
lei ad essere poco accomodante e poco paziente con i bambini,
l’avrebbe
abbandonato con i piccoli mostri per almeno quarantotto ore.
-
Eric, chiedi scusa alla
signorina Lovelace per averle tirato un calcio.
–riformulò, in tono più
autoritario.
-
No. –
Fece
un respiro profondo, e
si strinse tra due tira la sommità del naso, massaggiandosi
il punto in cui ci
sarebbero dovuti essere i segnetti degli occhiali. Chiuse gli occhi,
come se
fosse troppo stanca per tenerli aperti, e scosse leggermente le testa.
-
Perché no? – chiese, in un
sospiro a metà tra lo stanco e l’esasperato.
-
Perché è brutta. – rispose
il bambino, lanciando una strana occhiata alla donna accanto alla madre.
-
Lasci stare, signora
Turner. – intervenne la signora Lovelace guardando con
accondiscendenza il
bambino.
Eric,
prendendo per
terminata la discussione, raggiunse il cancellino in legno e lo
oltrepassò.
Poi, si diresse insieme al fratello fino alle sedie della saletta
d’attesa
dell’atrio.
Le
pareti della stanza erano
immacolate, talmente bianche da far quasi male agli occhi nelle
giornate di
sole, mentre le sedie erano azzurro chiaro come in tutto il resto
dell’ospedale.
Alcuni giochi per bambini erano sparpagliati sul pavimento o
eventualmente sui
tavolino bassi, mentre altri erano stipati tra gli scaffali delle
pareti in
ordine di “utilità”.
I
due bambini posarono gli
zainetti, uno blu e uno nero, su due sedie una accanto
all’altra. Uno di loro,
William, frugò nel proprio zainetto e ritirò
fuori il libricino per bambini,
raggiunse il fratello e si sedette, mentre l’altro si
attrezzava con quello che
trovava.
Elizabeth
osservò William
lanciare occhiate curiose al fratello e ogni tanto girarsi verso di lei
con
aria un po’ preoccupata. Probabilmente era preoccupato dal
fatto che Eric
stesse combinando qualcosa con lei nei paraggi. Eric era scalmanato e
pestifero, ma non era certo un bambino stupido. Anche se negli ultimi
giorni
era stato più immusonito del solito, non avrebbe combinato
niente, sapendo che
era arrabbiata con lui.
-
Mi spiace per mio figlio.
– si scusò, girandosi verso la signora Lovelace e
cercando di non apparire
forzata.
La
donna scosse la testa,
come a dire che non importava. Quindi per cosa l’aveva
tormentata fino a quel
momento?
-
Dispiace a me, signora.
Cercherò di avere più pazienza, sa, io li
riconosco subito i casi disperati.
–
Elizabeth
s’irrigidì e
indurì lo sguardo, lanciando un’occhiata
raggelante all’altra. Come si
permetteva quel metro e venti d’imbecillità?
Calmati.
Conta fino a dieci: uno, due, tre..
Meglio
se arrivo a cento.
-
Come prego? – chiese
freddamente, fingendo di non aver capito.
-
È talmente agitato e
incostante, signora, che non so davvero come farà! Ed io
difficilmente mi sbaglio
sui bambini di cui mi occupo - le disse in tono confidenziale. Molto
bene;
quella era sicuramente, da un punto di vista di ricerca, la frase che
comprovava la sua teoria: quella donna era un’idiota.
-
Lo diceva anche della figlia
del dottor Evenson, il primario. – le fece notare, cercando
di contare fino a
cento prima di dire o fare qualcosa di cui sicuramente non
si sarebbe pentita, ma che avrebbe potuto crearle non pochi
problemi.
Suo
marito le aveva
raccontato qualche aneddoto sull’adorata figlioletta
dell’attuale primario.
Anche se sospettava volesse fargli sembrare Eric meno tremendo di
quello che in
realtà era, messo a confronto con quella bambina agitata e
pestifera.
La
signora Lovelace rabbrividì.
Eric era un angioletto; un adorabile, tranquillo e posato bambino se
messo a confronto
con quel piccolo, terribile, mostro sotto mentite spoglie
dell’ultima genita
del primario dell’ospedale. Se non le era venuto un
esaurimento nervoso con la piccola, dolce e
adorabile figlioletta
di Jonathan Evenson, non le sarebbe venuto sicuramente mai
più.
Il
piccolo mostro, oltre ad
essere saccente e irriverente, era anche adorata e viziata dal padre e
dai
fratelli maggiori. Avrebbe potuto, fino a qualche anno prima,
lamentarsi con il
primario, ma l’anziano predecessore del padre della
pargoletta, stravedeva per
il suo giovane e promettente vice. E anche per la mostriciattola, e per
questo
tendeva a sminuire ogni malefatta o ogni capello bianco che le aveva
fatto
venire quella delinquente.
E
poi il padre si chiedeva
come mai non trovasse una baby-sitter. Aveva prognosticato, quando
ancora si
occupava il pomeriggio di lei, che la piccola Kaithlyn non avrebbe
compicciato
granché durante la scuola a causa del suo caratteraccio;
purtroppo invece,
durante i corsi estivi di preparazione ai Livelli Inferiori, che
ovviamente le
avevano fatto frequentare, si era rivelata più brillante di
tutti i suoi
compagni di corso messi insieme, rapida nell’apprendere e con
una mente
estremamente vivace e reattiva. E pareva anche che il padre la
considerasse
ancora svogliata e poco dedita allo studio.
-
Già! Una delle poche volte
in cui mi sono sbagliata! – affermò, non trovando
nient’altro da dire.
Un
sorrisetto soddisfatto le
increspò le labbra, mentre la signora Lovelace sembrava
ancora pensare alla
figlia minore degli Evenson.
-
Suo figlio è più chiuso e
irrequieto del solito, comunque. – le comunico, come per
riproiettare il
discorso sul bambino. - Il mio Frederick, invece è sempre
così tranquillo e ben
educato.. – disse, vantandosi con aria soddisfatta.
Elizabeth
inarcò le
sopracciglia. Le stava forse provando a insinuare che non aveva
insegnato
l’educazione ai suoi figli?
Cento
e uno, centodue, centotre…
Un’assurdità
del genere come
il contare poteva funzionare solo con suo marito, ovviamente.
Non
colpirla, non colpirla, non colpirla.
-
Ho notato. È successo
qualcosa durante il dopo scuola, che lei sappia? –
domandò, non dando peso,
anche se con un certo sforzo, alla seconda parte del discorso.
-
Vuole che le elenchi
quello che combina suo figlio sotto la mia supervisione, o preferisce
che le
mandi un mail stasera? – le domandò
l’altra, con una nota di sarcasmo che le
fece venire voglia di prenderla a schiaffi. Provò a
immaginarsi il marito che
le diceva di restare calma e di non abbassarsi al suo livello, ma non
era
sicura che potesse funzionare con lei quel bel giochetto.
Si
massaggiò le tempie,
stanca. Aveva avuto il turno di notte e con due bambini piccoli, uno
dei quali
esagitato, non era affatto facile riuscire a tenere tutto sotto
controllo. Suo
marito si dava da fare, certo, ma anche lui aveva i suoi impegni
improrogabili
e le sue ore da fare. Soprattutto ora che lavorava in
maternità. Avrebbe potuto
lasciare i figli con la suocera, ma non voleva nemmeno sorbirsi anche i
suoi
consigli su come gestire i suoi figli.
Poteva occuparsene lei, si diceva. Era sicura che avrebbe trovato il
tempo e le
energie per fare tutto, ma ultimamente, in particolari in momenti come
quello,
non ne era più così certa.
Entrò
nell’atrio un uomo
sulla trentina, alto e attraente. Il camice immacolato faceva risaltare
i capelli
neri pettinati all’indietro e gli occhi azzurri. Dal taschino
del camice, al
quale era attaccato il cartellino di riconoscimento, spuntava una penna
colorata e la mano destra reggeva una valigetta da lavoro.
Si
sistemò gli occhiali
rettangolari sul naso e lasciò vagare lo sguardo nella
stanza, fino a quando non
individuò i figli giocare sul pavimento, e la moglie parlare
con la signora
Lovelace davanti allo “Spazio bimbi”.
Le
fece un cenno, per farle
capire che era arrivato. Elizabeth si girò smettendo di
controllare i bambini e
dedicando tutto la sua attenzione all’altra donna, facendo
intendere al marito
che l’aveva visto.
Thomas
si avvicinò ai
bambini, sedendosi sulla sedia alla destra dello zainetto nero di Eric.
Aveva
cercato di arrivare il prima possibile, ma era stato trattenuto.
La
sua maggiore
preoccupazione, mentre si sbrigava per arrivare fin lì, era
stata il
temperamento poco tranquillo della moglie: certo, dai tempi della
scuola e dell’iniziazione
si era tranquillizzata parecchio, ma preferiva prevenire ogni eventuale
sbalzo
d’umore o, trattandosi proprio di Lilian Lovelace, ogni
possibile episodio di tentato omicidio.
-
Ciao papà! – lo salutò,
quello che era abbastanza sicuro
fosse William. Non perché ci fosse qualche differenza
nell’aspetto dei suoi
figli: erano due perfette gocce d’acqua, identici fino
all’ultimo capello e
perfino lui e sua moglie alle volte faticavano a riconoscerli, ma gli
sembrò un
po’ improbabile che William di mettesse a fare le torri con i
giocattoli e poi
si divertisse a distruggerle, quindi andò per esclusione.
Thomas
stirò le labbra in un
sorriso, mentre il bambino gli andava incontro con il librino che gli
aveva
dato quella mattina. Molti bambini Eruditi iniziavano a leggere
già a quell’età
e, né William né Eric, avevano fatto eccezione
anche se tra i due il più
interessato ad apprendere, almeno fino a quel momento, sembrava William.
Eric
sembrava prediligere il
mandare fuori di testa sua moglie e chiunque non gli andasse a genio.
Per
quel che lo riguardava,
per come la vedeva lui, la spiegazione per la costante agitazione del
figlio
era talmente ovvia da risultare quasi stupida. Anche se per il momento
Elizabeth sembrava preferire il far finta di nulla, o più
semplicemente
ignorare la cosa. Eppure tra qualche anno avrebbe dovuto fare i conti
anche lei
con le inclinazioni del figlio, era
inutile fingere di non vedere per convincersi che non fossero
già più che
evidenti.
-
Che fa tuo fratello? – chiese
distrattamente a William, che nel frattempo si era seduto a gambe
incrociate
davanti a lui e si rigirava distrattamente il libro tra le mani.
A
quanto pareva non lo
sapeva nemmeno lui perché si girò, ruotando sul
sedere, verso il fratello e lo
guardò incuriosito.
Poco
più in là rispetto a
dov’erano loro, Eric, dopo aver buttato in terra e
sparpagliato tutti i
giocattoli a cui era riuscito ad arrivare, si era messo
d’impegno nel fare una
torre con dei cubetti di lego colorati, e sembrava non essersi
minimamente
accorto del suo arrivo. Anche se probabilmente lo stava semplicemente
ignorando, concentrato com’era nel suo intento.
Quando
la “torre” fu
diventata alta all’incirca come il bambino, Eric si
alzò, la contemplò un
momento senza particolare entusiasmo, e poi le tirò una
pedata con rabbia,
facendo sparpagliare tutti i pezzi per terra.
Guardò
senza allegria il
disastro che aveva combinato, e i mattoncini di lego sparpagliati in
blocchi
più o meno grandi sul pavimento. Poi, si diresse senza dire
una parola verso di
lui, lanciandogli un’occhiata vuota e cupa. Quando fu
abbastanza vicino, Eric,
prese il suo zainetto e senza rendere conto a nessuno si diresse verso
la porta
a vetri che conduceva verso le scale.
Thomas
lanciò un’occhiata
veloce in direzione della moglie, che a quanto pare, contando sul fatto
che ci
fosse lui con i bambini non si era accorta di nulla. Si girò
verso William,
sperando che non gli venisse voglia di emulare il fratello e che
continuasse a
trovare interessante il librino che si era portato dietro tutto il
giorno e che
gli rimise immediatamente tra le mani.
-
Aspetta qui, d’accordo? E
non ti allontanare per nessun motivo, se hai bisogno di qualcosa chiedi
alla
mamma – disse, alzandosi e tirando su da sotto le braccia il
bambino per metterlo
a sedere dove fino a secondo prima stava lui.
Si
girò, e quasi si
aspettava di vedere Eric attraverso la porta a vetri, ma non fu
così.
Povero
illuso.
Figurati se quella peste aspettava i suoi
comodi.
A
quanto pare, il piccolo
delinquente, aveva deciso di darsi alla fuga. Non che fosse la prima
volta. Ebbe
un moto di preoccupazione: poteva essersi infilato ovunque, e se
Elizabeth si
fosse accorta che uno dei due bambini mancava all’appello,
sarebbero stati nei
guai tutti e tre.
Si
diresse, quasi correndo,
verso l’uscita e poi giù per le scale, sperando
che il piccolo mostriciattolo
non fosse arrivato già all’uscita
dell’edificio: era ancora piccolo, e aveva
paura decidesse di attraversare la strada da solo, rischiando di essere
investito.
Quando
arrivò al quinto piano,
gli venne sbarrata la strada da una giovane infermiera dai capelli
biondi
legati in un chignon.
-
Ha visto per caso un
bambino alto all’incirca così –
iniziò, prima che lei potesse aprire bocca, segnando
con una mano l’altezza del bambino. – con i
cappelli neri e gli occhi grigi,
passare dal reparto? Ha uno zainetto nero e una felpa blu.
-
No mi spiace dottore, io..
– iniziò la ragazza, gentilmente, guardandosi
intorno.
Thomas
girò, forse
sentendosi osservato, la testa verso la fine delle scale: eccolo, il
fuggiasco.
Lui e il figlio si scambiarono uno sguardo di un paio di secondi, poi
il
bambino iniziò a correre giù per le scale a tutta
velocità.
-
La ringrazio. – disse
sbrigativamente, mentre si lanciava all’inseguimento del
bambino che, per
essere così piccolo, prometteva già di essere un
ottimo corridore. Per lui era
più difficile scansare medici, infermieri e pazienti che
salivano e scendevano
le scale affollate, mentre Eric poteva benissimo passare sotto le
braccia degli
adulti e farsi spazio più agevolmente di un uomo di oltre un
metro e novanta
come lui.
-
Buongiorno, dottore! – lo
fermò una donna sulla sessantina con i capelli brizzolati,
mentre scendeva
rapidamente le scale tra il quarto e il terzo piano. Era la segretaria
del suo
reparto, quello di Maternità, e non era in grado di tenere
la bocca tutta
insieme per più di un paio di minuti. Forse anche meno.
-
Bello avere giovani
intelligenti e di talento, vero? – disse rivolgendosi
all’amica, che sembrava,
solo a vederla, tanto chiacchierone quanto lei. – Lei come
sta? Sua moglie? Il
dottore ha due gemellini così bellini, Ally, dove sono ora?
–
Uno
mi è appena scappato giù per le scale,
probabilmente
diretto verso l’uscita.
-
Uno se ne sta andando giù
per le scale. Vi lascio alle vostre chiacchiere.. – disse
sbrigativamente,
aggirando le due donne che tuttavia non si scomposero.
-
Ma certo, non si
preoccupi! – la sentì rispondere, con la stessa
nota rilassata nella voce di
chi non ha impegni nell’immediato. Come inseguire per
l’ospedale un bambino di
quattro anni esagitato e senza la minima considerazione delle regole.
Fece
i gradini due alla
volta rischiando anche di inciampare su una barella poi, finalmente,
dopo aver
urtato inavvertitamente alcuni colleghi, ed essersi quasi rotto
l’osso del
collo – fortuna che era già all’ospedale
- arrivò all’uscita e vide Eric
attraverso i vetri trasparenti della porta girevole, aspettare che si
fermassero le macchine.
-
Eric! – lo chiamò,
iniziando ad alterarsi. S’infilò rapidamente tra
due pannelli della porta e un
attimo dopo era fuori. Aveva quasi il fiatone per la corsa e il figlio
non
sembrava volerlo degnare di attenzione, mentre seguiva con la testa lo
scorrere
dei veicoli sulla strada a tre corsie.
Si
mise sulle ginocchia, per
arrivare all’altezza di Eric e poterlo guardare in faccia.
Quando lo girò verso
di sé il bambino immusonito più del solito, gli
lanciò uno sguardo accusatorio.
Che
c’era adesso?
-
Quante volte ti abbiamo
detto di non allontanarti da solo? – lo sgridò,
afferrandolo per un braccio e
stringendolo leggermente per assicurarsi che non scappasse in mezzo al
traffico.
– Vuoi essere investito? Si può sapere che ti
prende ultimamente? –
Prima
che potesse finire di
sgridarlo e il figlio potesse formulare una risposta, notò
che c’era qualcosa
che non andava nel bambino: aveva un’ombra, dietro gli
occhioni grigi che non
avrebbe dovuto esserci, ne era sicuro. Questo, lo fece esitare sui suoi
propositi di sfuriata.
C’era
qualcosa di maledettamente sbagliato nel modo in
cui lo stavo guardando suo figlio.
Ebbe
conferma dei suoi
sospetti due secondi dopo, quando lo vide strattonare il braccio e, non
riuscendoci, gli occhi gli si riempirono di lacrimoni.
Dannazione.
Non piangere, non piangere, non piangere.
Cerco
di recuperare la
calma, facendo un bel respiro e passandosi la mano libera tra i capelli
mossi,
ripettinandoli all’indietro e cercando di riacquistare il suo
comportamento tranquillo.
-
Mi ha sgridato anche la mamma…
- mormorò il bambino con voce tremolante, mentre posava a
terra lo zainetto e
si guardava intorno nervoso, come se si aspettasse di essere visto fare
qualcosa che non avrebbe dovuto.
-
E perché la mamma ti ha
sgridato? – gli domandò con più calma,
allentando la presa sul braccio del
bambino e massaggiandoglielo lentamente. Non voleva fargli male, per
nessuna
ragione al mondo.
Dopo
essersi guardato
nuovamente intorno con l’ansia dipinta sul viso,
piantò gli occhioni grigi sul
suo viso e deglutì, come se avesse paura e dire qualcosa che
l’avrebbe messo
nei guai.
-
Pecché ho tirato un
calcio alla signora … - iniziò insicuro,
fermandosi prima del nome con le sopracciglia aggrottate in
un’espressione
concentrata. Forse non sapeva come dirlo, in fin dei conti aveva solo
quattro
anni.
-
La signora Lovelace,
Eric?– gli suggerì. Eric annuì
timidamente, guardandolo con occhi colpevoli.
-
Perché ti sei comportato
male con lei? - gli chiese gentilmente, mentre afferrava lo zainetto
del figli
e si rimetteva in piedi, porgendo una mano al bambino che la
guardò sospettoso.
Il
fatto che Eric scuotesse
la testa in quel modo e fosse così confuso lo
turbò. Aveva una strana
sensazione a cui non riusciva a dare un nome, più tardi ne
avrebbe discusso con
la moglie, poco ma sicuro.
Afferrò
comunque la mano del
bambino, dato che lui non sembrava intenzionato a prendere
l’iniziativa, permettendogli
di stringergli due dita e si avviarono verso l’entrata
dell’ospedale.
-
Ti va di fare merenda? –
lo tentò, mentre camminavano nell’atrio.
Eric
annuì con la testa mentre
si sforzava di trotterellare accanto al padre che aveva le gambe molto
più
lunghe delle sue.
Vedendo
la difficoltà del
bambino, rallentò un po’ l’andatura.
Si
fermarono poco dopo, in
mezzo all’ingresso, e Thomas si chinò per
rinfilare lo zainetto al figlio. Lo
guardò in viso, l’espressione tranquilla.
-
Perché hai tirato un
calcio alla signora Lovelace? – chiese ancora, con calma. Il
bambino parve
arrabbiarsi, mentre gli occhi grigi si infiammavano. Quando faceva
così, gli
ricordava in modo quasi inquietante Elizabeth ai tempi della scuola,
quando si
erano conosciuti e si detestavano come poche persone al mondo avevano
fatto. Il
che, considerando la diversità di carattere, era anche
comprensibile. Poi si erano
sposati e avevano messo al mondo due bambini, ma questo era un altro
discorso.
-
Perché è stata brutta! –
gli disse arrabbiato il bambino, stringendo i pugnetti e assumendo
un’aria
corrucciata.
Thomas
sospirò. Se c’era
un’altra cosa che sicuramente Eric aveva ereditato da sua
moglie, era il fatto
di dovergli tirar fuori le cose con le pinze. Oltre all’adorabile temperamento.
Thomas
si rimise in piedi, e
condusse il figlio fino alla fine dello spaziosissimo ingresso.
Svoltarono
a destra, proseguendo
per un largo corridoio, fino ad arrivare al bar. Prese in braccio il
bambino ed
entrò, mentre Eric si sedeva comodo sul braccio del padre e
si gingillava
nervosamente la mani, guardandosi in torno con aria vigile.
-
Buongiorno dottor Turner!
– lo salutò la barista quando arrivò al
bancone. Camille era una ragazza sulla
ventina dagli occhi verdi e dai capelli castani legati in una crocchia
dietro
la testa. Le sorrise cortesemente.
-
E lui chi è? William o
Eric? – domandò guardando il bambino, che
alzò il visino imbronciato su di lei
riservandole un’occhiata diffidente.
-
Eric. – rispose Thomas,
facendolo dondolare su e giù con il braccio su cui Eric era
comodamente seduto.
-
Ma certo! Ciao, Eric! – lo
salutò sporgendosi verso di lui cercando di intercettare lo
sguardo del bambino
che, per tutta risposta, si strinse al suo collo facendola scoppiare a
ridere.
-
Non ha molta voglia di
chiacchierare, oggi. Vero? – disse Thomas, indirizzando
l’ultima parola nell’orecchio
del bambino che scosse la testa, mogio. Il padre gli passò
una mano sulla
schiena, come quando aveva mal di pancia e voleva essere
tranquillizzato.
-
Ma scommetto che ti va di
bere qualcosa, vero? – gli chiese ammiccante la ragazza,
poggiando un braccio
sul bancone e guardandolo gentilmente.
-
Lei vuole qualcosa,
dottore? – chiese, rivolgendosi al dottor Turner.
Annuì,
mentre cercava di
stimolare il bambino a girarsi. - Per me un cappuccino, grazie Camille.
–
Camille
sorrise un po’ a
quella scena mentre faceva partire la macchina del caffè, e
preparava la
schiuma con il latte. Quando ebbe finito, posò la tazza
davanti all’uomo che,
nel frattempo, si era seduto su uno dei panchetti facendo accomodare il
bambino
sulle proprie gambe. Eric non sembrava molto entusiasta di quella
soluzione, ma
la sua attenzione fu catturata dalla schiuma bianca della bevanda.
Camille
vide Eric lanciare
un’occhiata al padre, che sembrava momentaneamente troppo
preso dai suoi
pensieri, e infilare un dito nella schiuma per poi ciucciarlo. Le venne
da
ridere a quella scena.
-
Guarda che ti ho visto! –
scherzò la ragazza, guardandolo con un’espressione
di finto rimprovero.
-
Anche io! – decretò il
bambino, infilando un’altra volta un ditino nella schiuma e
spalmandolo il tutto
sulla guancia del padre.
-
Eric! – lo riprese,
prendendo un tovagliolo per pulirsi. – Non è
divertente! – lo ammonì, non
riuscendo tutta via a nascondere un sorrisetto vedendo
l’espressione seria del
bambino. Almeno sembrava più tranquillo e non aveva
più i lucciconi, anche se
non sembrava ancora rilassato.
-
Anche tu, cosa? – indagò
gentilmente Camille, rivolgendosi al bambino.
-
Cchiuma! –
esclamò, indicando la tazza del padre.
-
Non sei un po’ piccolo per
il cappuccino, tesoro? – lo prese in giro la ragazza,
sorridendo vedendo
l’espressione risentita del bambino che aveva iniziato ad
agitarsi per sedersi
un po’ più in su sulla gamba del padre.
-
Vuole darlo a me, dottore?
– chiese la ragazza, vedendo il padre di Eric in
difficoltà.
-
Grazie! – le disse,
passandoglielo sopra il bancone. Eric non sembrava molto
d’accordo con quello
scambio, ma si fece prendere in braccio e posare a terra senza
protestare.
Si
guardò intorno,
incuriosito. Gli sembrava quasi un altro mondo dietro il bancone, ma il
fatto
di sentirsi ancora più piccolo del solito lo metteva in
agitazione.
La ragazza si sedette sui
talloni, per provare
parlargli.
-
Ti va di bere qualcosa? –
gli chiese gentilmente, passandogli una mano su un braccio.
Eric
la guardò diffidente,
ma poi annuì un paio di volte con la testa.
-
Allora vieni con me – gli
disse prendendolo per mano e conducendolo poco più avanti,
davanti al mini frigo.
-
Guarda… si preme qui, -
gli spiegò, prendendo il bottone di apertura.
All’interno del frigo c’erano
varie bibite. Eric la guardava con attenzione. - …e, secondo
me, a te va un bel
succo di frutta! Che dici? –
Il
bambino annuì un po’.
Quella “signorina”, come gli diceva sempre di
chiamare le ragazze giovani la
mamma, iniziava a piacergli. E lui si sentiva un po’ meglio,
ora che iniziava a
distrarsi e il suo papà
era lì
vicino.
-
Che gusto vuoi? – gli
chiese Camille, facendolo mettere davanti al contenitore per scegliere.
-
Pera – rispose,
guardandola.
-
Guarda, è quello laggiù. –
gli indicò, permettendogli di prendersi la bibita da solo.
Il bambino s’infilò
nel frigo, con l’aria un po’ più
contenta rispetto a quella che aveva quando
era arrivato. Per prendere il succo si dovette quasi infilare del tutto
dentro
il frigo, ma riuscì a cavarsela e a riemergere con il
barattolino in vetro in
mano.
Camille
gli prese la bevanda
dalle mani e la sbatté un paio di volte sul palmo della sua
mano per agitarlo, tolse
il tappo, prese una cannuccia azzurra e lo diede in mano al bambino,
che iniziò
a bere con una certa soddisfazione.
Eric
sorseggiò il succo
fresco, tenendo con una mano il recipiente e con l’altra la
cannuccia. Si guardò
intorno di nuovo, girandosi e cercando di allungarsi sulle punte dei
piedi verso
il punto in cui avrebbe dovuto esserci, anche se non lo vedeva, il
padre. Non
che potesse andare molto lontano.
-
Il tuo papà è qui dietro,
stai tranquillo - gli spiegò Camille indicandogli un punto
alla sua destra,
anche se in quel momento il bambino non sembrava agitato o turbato
dall’assenza
della figura paterna; sembrava più incuriosito che altro.
Lei, dal canto suo,
non vedeva l'ora di terminare il percorso di studi in psicologia
infantile. Adorava
i bambini.
-
Un po’ di pizza, ti va? – aggiunse,
quando il bambino ebbe finito il succo di frutta.
Eric
annuì, passando il barattolo
vuoto a Camille che aprì con il piede un piccolo cestino
sotto il bancone e ce
lo buttò. Gli scaldò un quadrato di pizza
margherita, mentre il bambino si
guardava intorno. Chissà com’era stare
lì dietro, essere così piccoli, e dover
guardare tutto dal basso verso l’alto.
Avvolse
il pezzetto di pizza
in due tovaglioli, in modo che non si bruciasse e gliela
passò.
Eric
mangiò in silenzio,
continuando a girellare senza una meta precisa, fino a quando non
sentì la voce
del padre spostarsi verso l’altra parte del bancone. Si
allungò nuovamente per
vedere dove stava andando, non voleva rimanere lì da solo.
-
Vai d’accordo con tuo
fratello? – gli domandò Camille, cercando sia di
distrarlo dalla momentanea
assenza del padre sia di stimolarlo a parlare.
Eric
annuì con la testa, poi
parve riflettere su qualcosa e la inclinò prima a destra e
poi a sinistra, come
a dire “così e così”.
Quando
ebbe finito di
mangiare, di diresse verso il cestino, lo aprì e ci
buttò dentro i
tovagliolini, strofinando le mani tra loro per mandar via le ultime
briciole di
pizza. Poi tese seriamente le braccia verso Camille, per farsi tirare
su.
Lei,
sempre sorridendo, si
chinò e lo prese in braccio tenendogli una mano sotto in
modo che stesse
seduto. Afferrò un tovagliolino da uno dei recipienti in
metallo e lo passò al
bambino, che si pulì la bocca, con calma. A quanto pare non
era di molte
parole; lo mise seduto sul bancone, le gambe rivolte verso di lei.
-
Come si dice, Eric? – gli
chiese il padre che aveva appena pagato alla cassa e si stava sedendo
nuovamente sullo sgabello.
Il
bambino si mordicchiò il
labbro inferiore e lanciò un’occhiata un
po’ timida a Camille che continuava a
sorridergli gentilmente.
-
Grazie.. – cantilenò con
voce mogia, dondolando le gambe che poi sollevò e
passò dall’altra parte del
tavolo, verso il padre.
-
Eric. – lo chiamò il padre,
facendolo girare. – sei sicuro che non
c’è niente che mi vuoi dire? – chiese,
guardandolo intensamente, come a intimargli di dire la
verità. Quel
comportamento altalenante cominciava a preoccuparlo. Un momento prima
era
tranquillo, e un attimo dopo era triste e ombroso.
Il
sorriso sparì subito
dalla faccia del bambino, che scoccò un’occhiata
all’uomo e scosse la testa di
un cenno affermativo, mentre teneva gli occhi puntati alle spalle del
padre.
Stava
passando un uomo sulla
quarantina con i capelli color paglia e l’aria arrogante che
li degnò di una
rapida occhiata e proseguì, probabilmente diretto verso gli
ascensori.
Thomas,
che avendo
intercettato lo sguardo turbato del bambino si era girato per vedere
cosa aveva
richiamato la sua attenzione, avrebbe potuto non trovarci niente di
strano, se
non per il fatto che Eric, vedendo passare l’uomo, aveva
tirato le gambe sul
bancone del bar e aveva messo su un’espressione ostile e,
anche se non ne era
sicuro, forse anche un po’ spaventata.
-
Eric? Che c’è? –
insistette ancora, questa volta guardandolo severamente. Sapeva che era
inutile
insistere troppo con lui, perché era tremendamente cocciuto
e avrebbe preferito
fare lo sciopero della fame piuttosto che fare qualcosa contro voglia,
ma
cominciava a spazientirsi.
Il
bambino storse un po’ la
bocca, costringendolo a rigirarsi, quasi esasperato. Perché
non parlava? Suo
fratello non teneva mai la bocca tutta insieme, mentre lui ultimamente
non
spiccicava parola.
Camille
alzò gli occhi,
guardando anche lei nella stessa direzione dei due: stava entrando,
tenendo per
mano l’esatta fotocopia di Eric, una donna sulla trentina che
doveva essere
senza dubbio la madre dei due; aveva gli stessi occhi grigio chiaro dei
figli,
e per quanto la somiglianza con il padre fosse marcata, entrambi i
bambini
aveva qualcosa nell’espressione che avrebbe tolto ogni dubbio
a chiunque.
Elizabeth
si avvicinò,
ancora irritata dalla conversazione appena avuta con quella menomata,
ignorante
e stupida della signora Lovelace. Thomas avrebbe dovuto essere fiero di
lei, poiché
era riuscita a non cedere alla provocazione, cosa che le era costata un
certo
sforzo, e a trattarla con sufficienze senza perdere
le”staffe”.
Lanciò
uno sguardo
penetrante a Eric, che ricambiò con l’espressione
di chi si aspetta una bella lavata
di testa. Il bambino inarcò un po’ le
sopracciglia, cercando di fare tenerezza
alla madre, ma non parve funzionare granché. Doveva essere
proprio arrabbiata,
anche se era abituato a essere sgridato, specialmente da lei.
Elizabeth
inarcò un sopracciglio:
ora faceva il pentito? Appena fossero arrivati a casa,
l’avrebbe sentita, che
Thomas fosse d’accordo oppure no.
Il
fatto che anche lei
avesse avuto l’impulso di prendere a calci la signora
Lovelace, non implicava
necessariamente che fosse una cosa corretta e che approvasse che fosse
suo
figlio a farlo. E poi non sopportava di dover delle scuse a quella.
-
Beh, andiamo? – chiese
spiccia all’indirizzo del marito, mentre lasciava il bambino
che teneva per
mano e si avvicinava a Eric per farlo scendere dal bancone. Lo prese da
sotto
le braccia e lo posò a terra, scoccandogli
un’occhiata di rimprovero.
Lo
prese sbrigativamente per
mano, controllando che avesse preso tutto e che fosse tutto in ordine.
Respirò
pesantemente dal naso: Eric e la
parola “ordine”
non andavano bene
nemmeno nella stessa frase. Scosse leggermente la testa, mentre
aspettava che
il marito prendesse l’altro bambino. Fece un cenno di saluto
alla giovane
barista ed uscirono.
-
Ciao, Camille! – sentì
salutare il marito. Ecco, ci mancava solo che si mettesse a fare
conversazione.
Non andavano di fretta?
Uscirono
dall’edificio e si
ritrovarono tutti e quattro ad attendere che le macchine che
percorrevano la
via si fermassero. Quando venne il momento di attraversare
intimò ad Eric di
non schizzare via come al solito e si mosse rapida verso
l’altro lato della
strada.
Quando
furono tutti e
quattro sul marciapiede opposto ed ebbero fatto due passi in direzione
del
parcheggio riservato ai dipendenti dell’ospedale,
abbassò gli occhi sul bambino
che, a quanto pareva, non aveva intenzione di proseguire oltre.
Sembrava gli si
fossero incollati i piedi a terra. E adesso che diamine c’era?
Thomas
e William erano un
po’ più avanti, a una decina di metri
dall’ingresso del parcheggio.
Provò
a tirarlo, senza
metterci troppa forza per spronarlo a muoversi. Desiderò di
non averlo mai
fatto: il bambino, con lo sguardo abbassato a terra, sporse un
po’ il labbro
inferiore e sembrò essere sull’orlo delle lacrime,
mentre con una mano si
strusciava gli occhi.
Strattonò
la mano dalla
presa della mamma e tirò su con il naso.
L’irritazione
che aveva
provato fino a quel
momento svanì all’istante
come una nuvola di vapore, sostituita dalla preoccupazione.
Elizabeth
s’inginocchiò
davanti al bambino e gli accarezzò la testa, cercando di
capire cosa c’era che
non andava.
-
Che hai amore? Ti ho fatto
male? – gli chiese preoccupata, scostandogli i capelli dal
viso per vederlo in
faccia.
-
Mi fa male la pancia. –
piagnucolò il bambino, mettendosi una mano sul ventre e
sviando lo sguardo
della madre.
Si
avvicinò un po’ di più a
lui, passando con la mano nel punto in cui si era toccato.
-
E la testa..- aggiunse in
un lamento, mentre iniziava a piangere disperato, spalle scosse dai
singhiozzi.
Lo
attirò più vicino a sé, e
gli posò le labbra sulla fronte, lasciandogli un bacio e
accarezzandogli i
capelli per tranquillizzarlo.
-
La febbre non ce l’hai
tesoro… - disse, incerta. – dove senti male? Qui?
– gli chiese massaggiandogli con
una mano la schiena mentre con l’altra continuava ad
accarezzargli i capelli.
-
Sì.. – singhiozzò lui,
facendo cadere due lacrimoni sul pavimento, mentre lei sentiva crescere
l’ansia. Eric piangeva così di rado che non appena
lo faceva, lei andava subito
nel panico pensando che avesse chissà cosa.
-
Così tanto? – domandò
ancora preoccupata, prendendolo in braccio e stringendoselo contro il
petto,
mentre il bambino le stringeva le braccia intorno al collo e annuiva
contro la
sua spalla.
Continuò
a massaggiargli la schiena,
cercando di calmarlo.
-
Va tutto bene tesoro, ora
andiamo a casa.. – cercò di rassicuralo, mentre
raggiungeva il marito che la
stava aspettando vicino all’autoveicolo.
Thomas
le lanciò un’occhiata
interrogativa, come a chiederle spiegazioni, e lei gli face segno di
lasciar
stare.
Andò
dalla parte del
guidatore ed aprì lo sportello posteriore, infilando
cautamente il bambino sul
seggiolone e sedendosi sul bordo del sedile posteriore.
-
Facciamo così: appena
arriviamo a casa ti preparo una bella tisana calda, ti va amore?
– gli domandò,
mentre lo sistemava in modo che stesse comodo per il tragitto di
ritorno.
Il
bambino annuì,
asciugandosi gli occhi con la manica della felpa e tirando un
po’ su con il
naso mentre si rannicchiava sul seggiolone sofferente.
Elizabeth
gli passò il
pollice sulla guancia, e il dorso dell’indice
sull’altra per asciugargli i
lacrimoni che stavano ancora scendendo, poi estrasse un fazzoletto
dalla borsa
e gli pulì il viso con delicatezza lasciandoglielo poi sulle
gambe, nel caso
avesse avuto bisogno durante il tragitto.
Nel
frattempo il marito
aveva sistemato William dall’altro lato: avevano deciso, per
una volta di
comune accordo, di sistemare Eric dietro il guidatore in modo che la
madre lo
avesse sott’occhio, e William dietro il posto del passeggero.
Elizabeth
schioccò un altro
bacio sulla fronte del figlio, prima di fare il giro, montare in
macchina e
allacciarsi la cintura, il viso ancora preoccupato.
L’unico
rumore che si sentì
in auto dopo la partenza fu il tirare su con il naso di Eric, che se ne
stava
mogio sul su seggiolino, mentre il fratello lo guardava interrogativo e
cercava
di attirare la sua attenzione senza successo.
-
Come stai? – chiese dopo
un po’ Thomas, guardando il bambino dallo specchietto
retrovisore. Vedeva
giusto la testolina scura e spettinata di Eric appoggiata allo
schienale,
mentre William sembrava in procinto di addormentarsi beatamente.
Eric
si strusciò gli occhi
con le mani, e si spostò un ciuffo di capelli dagli occhi.
-
Insomma.. – mugugnò, senza
alzare gli occhi. Thomas addolcì un po’ lo sguardo.
-
Perché non dormi un
pochino anche tu? Vi portiamo su io e la mamma. – gli
consigliò, mentre si
fermava a un semaforo e la moglie si slacciava la cintura per sistemare
William
sul seggiolone dal quale stava scivolando.
Eric
annuì un po’,
lasciandosi scappare anche uno sbadiglio e, più rapidamente
di quanto entrambi
i genitori si sarebbero aspettati, scivolò anche lui nel
sonno.
Elizabeth
lanciò un’occhiata
dietro, per vedere cosa facevano i bambini mentre entravano nella
strada di
casa: William sembrava tranquillo, mentre Eric, costatò un
po’ serena, era
imbronciato anche nel sonno.
Si
slacciò rapidamente la
cintura, ancora prima che il marito avesse spento la macchina, e
l’avesse
finita di parcheggiare davanti al garage situato nella parte rivestita
di
pietra del giardino condominiale.
Aprirono
quasi in simultanea
le portiere, mentre Thomas slacciava e prendeva in collo Eric, e lei si
occupava di William. Ce la faceva ancora a prenderli in braccio, anche
se
iniziavano a diventare abbastanza pesanti entrambi.
Infilò
William nel suo lettino,
quello più in basso, mentre il marito sistemava Eric nel
suo, più in alto.
Si
assicurò che entrambi
fossero sistemati e diete un bacio a William, mentre ad Eric, non
arrivando fin
sopra e non volendolo svegliare, fece una carezza sui capelli
scompigliati, poi
lei e il marito uscirono in silenzio e si misero al tavolo della cucina
a
finire di lavorare.
-
Hai parlato con la signora
Lovelace, Elizabeth? – chiese distrattamente il marito mentre
guardava alcune
cartelle cliniche.
-
Sì.. – sospirò in risposta,
mentre metteva in ordine alfabetico i pazienti. – a parte le
scemenze che le
escono nove volte su dieci dalla bocca, non mi ha saputo spiegare
perché Eric
si è comportato così; ha detto che sembrava
tranquillo quando è arrivato dopo
la scuola. Ed io le ho detto che ero perfettamente consapevole di come
avevo
lasciato mio figlio lì da lei… dopo
l’ennesima risatina da decerebrata ho preso
William e sono venuta a cercarvi… e non sono più
nemmeno tanto sicura di
volerlo sgridare. Prova a starci tutto il giorno, con quella.
– raccontò, senza
staccare gli occhi da quello che stava facendo.
Thomas
sorrise un po’: per
quante ne potesse fare Eric, non sarebbero mai state abbastanza da far
provare
a sua moglie solidarietà verso la signora Lovelace; e come
il bambino aveva
detto di stare poco bene, ovviamente, il rimprovero che era piuttosto
che certo
stesse preparando per quando sarebbero stati a casa, era sfumato in una
secondo. Forse anche meno.
-
A te ha detto niente? –
domandò guardando attentamente il marito, che
sospirò mentre appuntava
qualcosa.
-
Eric? – domandò, senza
riflettere. Elizabeth annuì.
-
No, niente. Ma si è
comportato in modo strano per tutto il tempo… altalenante.
È passato in continuazione dalla tranquillità
all’ansia nel quarto d’ora che è stato
con me, non ha quasi spiccicato parola,
e quando l’ho trattenuto fuori dall'ospedale si è
quasi messo a piangere. –raccontò,
posando la penna e appoggiando entrambe le mani sulla tavola.
Elizabeth
inarcò le
sopracciglia. Quello sì che era strano: non tanto il
“tentativo di fuga”,
quello era un classico di suo figlio, ma quanto il fatto che piangesse
senza
motivo e che fosse addirittura più agitato e incostante del
solito.
-
Magari è stata solo una
giornataccia… vediamo domani come vanno le cose, che dici?
– propose, anche se
non sembrava troppo convinta di quello che diceva nemmeno lei.
-
D’accordo.. – acconsentì
il marito, tornando alla sua occupazione mentre lei si alzava e andava
a
controllare i bambini: era piuttosto sicura di aver sentito qualcuno
mugugnare
la parola “mamma”.
Salve
a tutti, sono sempre io!
Tanto
per cominciare vi
volevo ringraziare TUTTI/E
per aver apprezzato la scorsa one-shot (“It’s
Women’s Day also for you”)
perché
sul serio non me lo aspettavo, quindi GRAZIE,
GRAZIE, GRAZIE E ANCORA GRAZIE!
In
particolare voglio
ringraziare Kaimy_11, Adeus, Fabi96, i
love evanescence e awkward_girl
per aver recensito la storia e avermi detto cosa ne
pensavano… era esattamente
quello di cui avevo bisogno! Poi, ringrazio anche Lordy Voldy_girl,
Adeus
(di nuovo) e Memory Eaton per averla
inserita tra i
“Preferiti”, DarthGiuly
e Adeus
per
averla messa tra le “Ricordate”, ed infine Ally_78 per averla
messa tra le
seguite!
Ho
parecchie idee in
cantiere (forse anche troppe!) ma l’altro giorno, mentre
scrivevo
l’aggiornamento della mia long “Braveheart”,
mi è venuta l’ispirazione e mi sono messa a
scrivere questa storiella; non ho
ancora deciso quanto farla lunga, ma spero la apprezzerete ugualmente!
Sarà a
tratti comica, perché si parla della mia versione di Eric in
formati mini, ma
tratterà anche di argomenti di un certo spessore e di una
certa gravità. Ho
voluto provare a dare una spiegazione al perché Eric sia
così chiuso e cattivo
con tutti e mi sono inventata, di sana pianta,
“l’inizio” dei suoi problemi.
Passiamo
alle mie domande da
scrittrice esaurita: come vi sembrano i nuovi personaggi? Ovviamente
devono
ancora svilupparsi, ma io ho già in mente come fargli
evolvere. Qualcuno ha
capito la mia idea per la fic? O sono stata brava? Fatemi sapere che ne
pensate, che sia una cosa positiva, negativa, un consiglio, un
insul… insomma,
avete capito!
*il
nome Lovelace,
viene citato da Quattro in “Four – una scelta
può liberarlo” durante la
Cerimonia della Scelta, quando viene chiamato un ragazzo tutto vestito
di blu
che rimane negli Eruditi.
Il
resto, nomi, cognomi, personaggi
e quant’altro è frutto della mia mente bacata.
Spero
che abbiate apprezzato
questo primo capitolo, e che la lettura non risulti noiosa, e che
vogliate
farmi sapere con una recensione (positiva o negativa che sia) o con un
messaggio o eventualmente con un segnale di fumo (?) cosa ne pensate!
Vi
lascio anche il link
della mia pagine facebook: https://www.facebook.com/pages/Kaithlyn-J-Evenson/865334640156569?ref=hl
A
presto,
Kaithlyn.