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Autore: elyxyz    26/04/2015    16 recensioni
Questa fic è una sorta di Camelot!AU, oppure è un ‘what if’ gigantesco, se preferite.
[Dragon!Merlin, Dragonlord!Merlin, Soulbond!Merthur].
Tutto era cominciato quando erano giunte a Camelot le prime voci riguardanti un drago avvistato a Nord, agli estremi confini del regno.
(...) Arthur raccolse le redini dello stallone e, sguainata la spada, s’incamminò guardingo dove la traccia delle fronde conduceva.
Ma ciò che vide lo lasciò di sale.
Stava lì.
Accasciato fra le radici nodose di un albero secolare, l’essere più bello al mondo.
Morente.
(...) L’essere magico sorrise tristemente, come rassegnato.
“Le lacrime di principessa guariscono tutto”, filosofò, lasciando la testa ricadere all’indietro, sfinito.

Leggende. Erano solo leggende. Idiozie. Favole raccontate ai marmocchi prima di andare a letto. Anche a lui ne avevano sciorinate a bizzeffe quand’era un poppante. Ma se...
“Beh, dovrai accontentarti di sangue di principe, qui non ci sono principesse”, lo informò, caustico.
[E per dimostrarvi che non c’è solo angst... Un’altra sinossi di questa storia potrebbe dirvi che Merlin ha strane zone erogene e Arthur si diverte a scoprirle].
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione, Contesto generale/vago
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Dragon

Ho cominciato la bozza di questa storia addirittura prima di Magic Melody, ma ci ho messo un sacco di mesi a scriverla, due righe alla volta, nei ritagli di tempo.

 

Come ho già detto in altre premesse, anche questo fa parte della mia personale sfida per riuscire a scrivere una fic su tutti i prompt/cliché più comuni, ma chiarirò l’elenco nelle note finali. Intanto, ecco il mio contributo alla Causa ‘Dragon!Merlin’,Dragonlord!Merlin’ e ‘Soulbond’, tre in uno!

(Ho altre bozze con questi medesimi prompt, ma chissà quando le finirò ;_;)

 

Questa fic è una sorta di Camelot!AU, oppure è un ‘what if’ grosso come una casa, se preferite.
Ho cercato di mantenere l’ossatura dei personaggi IC, con i pregi e i difetti che ben conosciamo, ma date le premesse estremamente diverse rispetto al telefilm ‘Merlin’, mi sono divertita ad esplorare anche altre strade, prendendomi alcune libertà. Spero che il risultato possa comunque soddisfarvi.

 

 

Dedicata a chi ama il Merthur.

A chi si entusiasma per le mie bizzarre ispirazioni e mi sostiene con i suoi pareri.

Voi rallegrate le mie giornate!

Grazie.

 

 

 

 

Dragon!Dragonlord!Merlin

 

 

 

 

 

Tutto era cominciato quando erano giunte a Camelot le prime voci riguardanti un drago avvistato a Nord, agli estremi confini del regno.

Racconti frammentari, riportati di bocca in bocca, attraverso carovanieri e mercanti, spiegazioni che erano state alquanto confuse e contraddittorie, tanto da sembrare dicerie; ma poi, ad esse si erano unite altre lamentele preoccupanti, di draghi e banditi, così re Uther non poté più fingere che il problema non esistesse.

I Pendragon avevano sempre combattuto e sconfitto i draghi; non importava quanto fossero grossi e paurosi, loro ne sarebbero usciti vincitori. Quindi, avrebbero affrontato anche quella seccatura.

 

Dal canto suo, invece, questa era la missione che il principe Arthur attendeva da sempre.

Per dimostrare finalmente il proprio valore come erede al trono, egli avrebbe abbattuto il drago malefico, avrebbe messo in salvo indifese fanciulle e poveri contadini, e avrebbe ripulito dai briganti quelle terre desolate, ottenendo riconoscenza e lustro.

 

Fu così che il giovane Pendragon partì dal castello natio una fredda mattina d’autunno, con le migliori intenzioni e un mucchietto di cavalieri – pochi e selezionatissimi, eccellenti uomini che aveva addestrato personalmente.

 

Il viaggio si rivelò lento ed estenuante, per colpa delle lunghe piogge e del corrispettivo fango che intralciava il loro incedere.

Tuttavia, quel medesimo maltempo aveva dato loro modo di fare numerose soste obbligatorie e di raccogliere, lungo la via, le impressioni della gente.

 

Quando il principe Arthur di Camelot giunse infine a destinazione, comprese che la faccenda era molto diversa da come era stata raccontata a palazzo.

E venne fuori che il drago – un grosso bestione nero con gli occhi gialli – non aveva mai mangiato nessuno, ma proprio nessuno: nessuna pecora, nessun uomo. Non aveva distrutto campi coltivati, non aveva incendiato fienili o granai.

Anzi, il lucertolone – stando ai bifolchi di lassù – dava la caccia ai malviventi; col suo fuoco e gli artigli, faceva desistere i banditi che da un po’ sostavano in quelle zone e quindi, a conti fatti, il drago proteggeva i villaggi.

 

Ma Arthur davvero non poteva credere a quella panzana! Egli aveva un dovere, una missione, una promessa fatta al padre: e i draghi erano cattivi, chiunque lo sapeva!

 

Il principe di Camelot si ripeteva questa convinzione ogni notte, davanti al fuoco di un bivacco o dentro la sala di una locanda: quel drago era probabilmente più astuto e subdolo dei suoi predecessori, ma non meno malvagio. Da che mondo era mondo, i draghi rappresentavano il Male.

 

E allora pensava alla faretra che lo accompagnava e col pensiero accarezzava il suo contenuto: una freccia d’argento purissimo. L’unica cosa che poteva uccidere un drago: dritta nel petto.

 

Così avrebbe portato a compimento la sua missione, avrebbe debellato quella terribile piaga e ne avrebbe, al contempo, approfittato per rafforzare il potere dei Pendragon con quei capivillaggio di confine.

 

L’occasione propizia arrivò prima di quanto l’erede al trono si fosse aspettato.

 

Durante l’ennesimo spostamento verso un paesello sperduto, i cavalieri si erano imbattuti in un covo di ladri – il terzo gruppo di malviventi, da che erano partiti – e Arthur avrebbe giurato per sempre che, con i suoi uomini, aveva tutto sotto controllo, benché fossero numericamente molto inferiori rispetto ai nemici.

Giusto quando stava per dichiarare una ritirata strategica per poi ritornare all’assalto, un’ombra scura coprì il sole e, un istante dopo, lingue di fuoco scesero a precipizio dal cielo, contro buona parte dei banditi, che finirono inceneriti all’istante.

 

Il principe osservò sgomento la scena e per un momento l’indecisione gli fu quasi fatale.

Tuttavia, egli rammentò il proprio dovere e, incoccata la freccia d’argento, prese la mira e colpì la bestia magica.

 

L’urlo selvaggio riecheggiò fra le valli, facendo rabbrividire gli astanti, ma il drago – contro ogni previsione – non cadde a terra, morto sul colpo.

Il suo corpo gigantesco galleggiava a stento nell’aria, come se ogni battito d’ali gli costasse enorme fatica, mentre cercava scampo, allontanandosi in una scia declinante verso il suolo.

 

L’erede al trono era consapevole di essere il miglior arciere di Camelot, e tuttavia non poteva rischiare di veder fallire la sua missione. Con un colpo d’occhio, egli vide che i suoi cavalieri stavano sopraffacendo i restanti manigoldi e quindi decise di inseguire il drago, per accertarsi della sua fine.

 

Afferrò pertanto le redini del proprio cavallo e galoppò a perdifiato nel folto della foresta, rischiando più volte di venir disarcionato, tale era la foga dell’inseguimento, rincorrendo la traiettoria disegnata dall’essere magico.

 

 

***

 

 

Arthur non sapeva per quanto tempo aveva corso né in che direzione fosse finito, forse si trovava persino oltre i limiti del suo regno ed era sconfinato nelle terre di re Cenred.

L’unica certezza consisteva nel fatto che si era smarrito, nel bel mezzo di una foresta straniera, infestata da banditi, mortalmente pericolosa, con un dannato drago altrettanto pericoloso

 

E quel dannato drago aveva una resistenza invidiabile!

 

Il principe ancora si chiedeva come avesse fatto a stargli dietro… aveva perso il conto delle deviazioni che aveva compiuto, degli stagni che aveva circumnavigato e delle zone scoscese su cui si era gettato a capofitto. Aveva saltato persino un dirupo per raggiungerlo!

 

Egli batté un’affettuosa manata sul collo del suo destriero, esprimendogli gratitudine.

Era stato fortunato che il suo stallone non si fosse azzoppato, perché si rendeva conto da di essere stato spericolato al limite dell’incoscienza.

 

Ma forse neppure questo era servito.

 

Il suo cavallo sbuffò, tremando e schiumando, sfinito. Il principe smontò di sella, per alleviarlo del suo peso, e lasciò che la bestia si abbeverasse in un rigagnolo d’acqua.

Anch’egli se ne servì, prima di guardarsi attorno, sconcertato.

 

C’era silenzio tutto attorno. Quiete immota e inutile.

 

Ed ora? Cosa doveva fare? Dove doveva andare?

Non v’era più traccia della bestia magica.

E lui sospirò sconsolato, indirizzando una muta preghiera agli Dei, col naso all’insù.

Fu a quel punto che notò la cima di un albero spezzata di recente. Troppo di recente.

 

Aguzzando la vista, osservò come le punte di alcuni fusti apparissero piegate, quasi che un enorme peso fosse planato loro sopra, prima di scivolare altrove.

 

Il cavaliere raccolse le redini dello stallone e, sguainata la spada, s’incamminò guardingo dove la traccia delle fronde conduceva.

Ma ciò che vide lo lasciò di sale.

 

Stava lì.

Accasciato fra le radici nodose di un albero secolare, l’essere più bello al mondo.

Morente.

 

Arthur si avvicinò lento, cauto, rafforzando la presa sull’elsa, tanto che i suoi guanti in pelle scricchiolarono per protesta.

S’impose di non levare lo sguardo da quel corpo – anche se avrebbe potuto inciampare sul terreno irregolare –, raccontandosi che forse era tutta una trappola, forse quella era un’imboscata, un inganno per distrarlo e catturarlo, forse l’altro non era così grave come sembrava e stava solo fingendo per fargli abbassare le difese, prima di colpire.

Sì, non doveva smettere di fissarlo… ma la verità era che non ci sarebbe riuscito, neppure volendo.

Si sentiva calamitato verso la sua meta, attratto da quel punto preciso in cui il corpo giaceva accasciato, sfinito.

 

La creatura – il ragazzo, il giovane uomo dinanzi a lui – gemette, agonizzante.

Per un eterno istante, il principe osservò quasi con stupore il petto glabro sollevarsi piano – un lento, doloroso respiro, la pelle nivea del torace che brillava argentea – mille piccoli diamanti baciati dal sole –, e poi le scaglie deturpate da una freccia conficcata nella spalla – la sua freccia – vicino al cuore, ma non abbastanza da essere ferale.

Le palpebre dell’essere fremettero, come unico segno di volontà.

 

“Finiscimi”, sussurrò, con dolore indicibile e dignità.

 

Sì, Arthur avrebbe dovuto fare esattamente quello.

Non era forse la missione che gli aveva affidato suo padre? Uccidere il drago e tornarsene a casa in gloria!

A ben vedere, la creatura era già spacciata; sarebbe stato un gesto di clemenza alleviare le sue pene, infliggendole una morte veloce.

 

L’erede al trono strinse l’impugnatura della sua spada un po’ di più, prendendosi il tempo di fermare il tremito del suo polso e tacitare quella voce che gli urlava che no – no, dannazione, no! – non doveva macchiarsi del suo sangue più di quello che aveva già fatto con il dardo.

 

Arthur deglutì a vuoto, perché mai, in vita sua, aveva subìto tale incertezza.

Aveva ucciso decine e decine di uomini in guerra, aveva imparato a convivere con quel peso e vi era venuto a patti nel momento stesso in cui aveva deciso che voleva vivere e non soccombere di fronte ad un nemico.

Eppure perché – diamine, perché? – si sentiva così lacerato dentro? Non era forse un mostro, quello?

Un drago – per tutti gli Dei – un drago era il Male! Era il pericolo!

E un drago non doveva apparire così bello, così vulnerabile, così delicato da annullare l’altrui volontà!

Perché anche solo l’idea di ucciderlo lo straziava tanto, come se stesse strappando via metà di se stesso?

 

“Finiscimi”, ripeté la creatura al suo carnefice, con l’ultima forza concessa, socchiudendo gli occhi illanguiditi dalle lacrime non versate – gli occhi più belli che Arthur avesse mai veduto.

 

Il giovane Pendragon sollevò la spada in alto e con un colpo netto la piantò solidamente nel terreno.

“Dimmi come curarti”.

 

“Troppo… tardi…”

 

“Sciocchezze… non è mai troppo tardi”, lo smentì. “Dimmi come curarti…”

 

“Non-”

 

“La tua magia? Non puoi usare la tua magia? Tutti i dannati draghi hanno un briciolo di magia!” s’infervorò, vedendo la vita scivolare fuori da lui.

 

Il giovane soffocò un rantolo di tormento, mentre il suo corpo veniva scosso da un tremore.

Istintivamente si portò una mano verso la carne lacerata, ma le dita ricaddero, inermi e spossate, sul pallido torace.

 

“È la freccia, vero? Vero?! Ti sta avvelenando!” Tirò a indovinare l’erede al trono, impotente. “Oh, al diavolo!” imprecò e, prima di ulteriori ripensamenti, si spinse in avanti e fece leva con tutta la forza che possedeva, ritrovandosi il dardo d’argento insanguinato in mano. “Stringi i denti!” comandò e poi un urlo straziante rimbombò nella foresta.

 

Rimpianse la mancanza del suo fidato archiatra, Gaius, nel momento esatto in cui, dal foro improvvisamente vuoto, sgorgò copioso il sangue.

 

“Oh, perfetto! Salvato dall’avvelenamento per morire dissanguato!” sbraitò sarcastico, nell’unico modo che conosceva per non lasciarsi sopraffare dal panico, mentre tamponava la ferita con un pezzo di mantello. “Non ho nulla con me! Niente di utile per cauterizzare la ferita! Non conosci altri rimedi?”

 

L’essere magico sorrise tristemente, come rassegnato.

“Le lacrime di principessa guariscono tutto”, filosofò, lasciando la testa ricadere all’indietro, sfinito.

 

Leggende. Erano solo leggende. Idiozie. Favole raccontate ai marmocchi prima di andare a letto. Anche a lui ne avevano sciorinate a bizzeffe quand’era un poppante. Ma se…

 

“Beh, dovrai accontentarti di sangue di principe, qui non ci sono principesse”, lo informò, caustico, prima di incidere lievemente il polso contro la lama della spada conficcata a terra e far gocciolare il liquido rubino sulla ferita. All’istante, come per miracolo, l’apertura incominciò a chiudersi, e pochi momenti dopo, dov’era stato l’orrendo squarcio, non rimase che una piccola, insignificante cicatrice.

 

Arthur si lasciò cadere in ginocchio accanto al corpo, esausto anch’egli, e ancora incredulo.

“Ho salvato un drago. Ho salvato un dannato drago! Devo essere impazzito…” esclamò, tra lo sconcerto e l’euforia, scuotendo il capo, confuso.

Quando non ricevette risposta, realizzò che l’altro era svenuto. Ma almeno era vivo.

 

 

***

 

 

Il principe sospirò, affranto e irritato, per la milionesima volta. Cosa gli era passato per la testa?

Lanciò l’ennesimo rametto raccolto nel piccolo fuoco che era riuscito ad accendere. Entro breve, sarebbe servita più legna, ma non aveva nessunissimo desiderio di uscire dal riparo di fortuna che aveva scovato. Quella piccola rientranza nella roccia non era certo confortevole come una grotta vera e propria, ma almeno impediva che si inzuppassero con la pioggia insistente che aveva ripreso a cadere da quasi mezza veglia. A quell’ora, se non fosse improvvisamente impazzito, avrebbe potuto essere al calduccio, dentro una locanda, con un buon boccale di idromele e i suoi uomini a tenergli compagnia, e invece…

Che diamine gli era passato per la testa?

Poi arrischiò un’occhiata di traverso al giovane incosciente accanto a lui.

Ah, sì.

Ecco il perché.

 

Eppure… eppure, c’era una parte di lui che continuava a spingere, a sgomitare, insistendo sul fatto che quella follia era stata la cosa giusta da fare.

C’era quella corda, invisibile ma tenace, che continuava a strattonarlo verso la creatura. Ogni volta che i suoi pensieri avevano vagato altrove, ogni volta che si era allontanato un po’ da lui, il bisogno di riavvicinarsi era stato impellente, soverchiante. Un imperativo assoluto.

…Doveva essere ammattito, non v’era dubbio.

 

Oppure… era finito sotto incantesimo.

Il drago doveva averlo soggiogato, con qualche astrusa maledizione, per fare di lui ciò che voleva… ma Arthur scosse il capo, nient’affatto convinto.

Se quell’essere magico avesse potuto farlo, si sarebbe guarito da sé, invece era stato pronto a morire, stremato, quindi non aveva senso quel ragionamento.

Se lui non fosse intervenuto, l’altro sarebbe già passato a miglior vita.

Stranamente, la cosa lo fece rabbrividire di raccapriccio.

 

Sospirò ancora, controllando il respiro lieve e regolare accanto a sé. Poi gli rimboccò il mantello per proteggerlo dal freddo della sera.

Per un istante, il principe arrossì al ricordo di quel corpo nudo, svenuto fra le radici dell’albero.

Si era perso nell’osservare la sua leggiadra avvenenza: l’ossatura così delicata, i lineamenti esili, gli arti magri e agili, la muscolatura filiforme. Ovviamente l’apparenza ingannava, perché aveva visto con i suoi occhi quel mostro gigantesco volare oscurando il cielo.

Ma quel mostro era così diverso dal giovane uomo che aveva raccolto fra le braccia e poi avvolto nel suo mantello per ripararlo dal freddo, e pesava così poco!

Solo le scaglie argentate, che riverberavano alla luce del fuoco, potevano testimoniare la sua natura soprannaturale.

Arthur le aveva accarezzate, curioso. Le aveva immaginate sgradevoli al tatto, ruvide e fredde, come quelle dei serpenti (poiché i draghi altro non erano che grossi rettili), ma si era clamorosamente sbagliato. Tutta la pelle del giovane era morbida e perfetta – ad eccezione di quell’unica impurità lasciata come testimonianza dalla freccia –, ed era liscia come una pesca – come e forse più della nobildonna migliore di Camelot, più di Morgana, certamente – calda come il sole al tramonto, profumata come i campi di grano e il muschio dei boschi.

Il principe non era mai stato un aedo e arrossì al pensiero d’aver indugiato in quelle similitudini ardite da menestrello, che poco si confacevano all’uomo d’arme che era.

Si raddrizzò, per schiarirsi la mente e, col pretesto di raccattare nuova legna per la notte, si allontanò dal bivacco.

 

 

***

 

 

Quando fece ritorno, il ragazzo tremava vistosamente, farfugliando parole sconnesse, e Arthur si maledì per averlo abbandonato a se stesso.

Lasciò immediatamente cadere il fascio di legname raccolto e si premurò di bagnare una pezzuola da mettere sulla fronte rovente. Non poteva fare nient’altro, poiché non aveva erbe mediche con sé o altri rimedi.

Solo l’indomani, quando i suoi cavalieri lo avrebbero raggiunto, avrebbe potuto curarlo – ammesso che la medicina tradizionale avesse funzionato sul drago –, ma era altresì pronto a ferirsi nuovamente, se il suo sangue avesse garantito l’altrui guarigione.

E, anche se quel pensiero aveva un che di sconvolgente, il nobile sapeva, in cuor suo, che era nel giusto.

 

Pazientare, poteva solo pazientare. Anche se era ciò che aveva imparato a fare di meno.

 

Poiché non v’erano altre ferite visibili, forse la febbre stava combattendo il veleno della freccia d’argento, giacché la zona colpita sembrava arrossata e calda al tatto, quantunque ancora integra.

Ad Arthur non rimase altro che abbracciarlo stretto, per condividere il calore dei loro corpi, e sperare che l’alba giungesse presto.

 

 

***

 

 

Fu la prima luce del giorno a destarlo, oppure l’assenza di quel calore confortante di cui avevano goduto entrambi per tutta la notte.

Arthur preferì non indagare, mentre si risollevava di scatto a sedere, smarrito e preoccupato dal vuoto lasciato accanto a lui. Il suo mantello steso malamente sul terreno duro era l’unica testimonianza del fatto che quello non era stato tutto un sogno bizzarro.

Il principe sbatté le palpebre, stranito, cercando di mettere a fuoco. E fu allora che lo vide.

 

 

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La creatura – in tutta la sua nuda gloria – se ne stava accoccolata su una roccia ricoperta da tenero muschio, il naso all’insù, il collo reclinato in un arco perfetto, ad assorbire sul viso dai tratti delicati ogni raggio del sole nascente.

La sua pelle, scaglia dopo scaglia, pareva bere di quella luce riflettendola con la forza di mille soli.

Sembrava una visione celestiale, un momento rubato ad un dio ultraterreno.

 

Il nobile aveva sentito parlare di ninfe e fate, di creature sublimi dalla beltà sovrumana, ma niente di tutto ciò bastava come misero paragone a quello spettacolo trascendentale.

Di colpo, si sentì quasi indegno di essere lì, a rubare quell’attimo così perfetto, così privato, alla creatura davanti a lui.

 

Come richiamato dal suo sguardo invadente, l’essere magico chinò il capo, con grazia e maestria, e i suoi occhi dorati incontrarono quelli del principe.

 

Se anche non lo avesse già sospettato, in quel momento fu chiaro ch’era perduto.

 

E quando il giovane saltò giù dal masso, agile e armonioso, l’incantesimo crebbe e crebbe, di passo in passo, come la distanza fra loro andava assottigliandosi.

 

Arthur non si accorse neppure che il suo corpo si era mosso da solo, per andargli incontro. Se n’avvide l’istante in cui – ad un soffio di fiato – la creatura vacillò, finendogli fra le braccia protese, e l’incanto si ruppe.

 

“Dove credi di andare, idiota! Eri più morto che vivo appena una veglia fa!” lo rimbrottò seccato, rafforzando tuttavia la stretta, sui fianchi esili e nudi, per sostenerlo.

 

“E di chi credi fosse la colpa?!” replicò l’altro, ugualmente suscitato, picchiettando un indice contro il nobile torace dell’erede al trono. “Asino che non sei altro! Mi hai quasi ucciso!” lo accusò.

 

“Beh… l’intento era quello…” ammise Arthur, borbottando controvoglia.

 

Ma con la mira scandalosa che ti ritrovi, non sei neppure riuscito a farcela!” lo accusò nuovamente la creatura, riprendendo a pungolarlo col dito ossuto nel bel mezzo del petto.

 

“Ehi, bestiaccia! Guarda che io-”

 

Merlin”.

 

Co-cosa?!

 

“Mi chiamo Merlin”, ripeté l’essere magico. “È il mio nome: Merlin. Mer-lin”, scandì lento, come se l’altro fosse stato ebete. “Non chiamarmi bestiaccia”, gli ordinò, mentre i suoi occhi dorati brillavano d’indignazione.

 

“D’accordo, Merlin”, rifece il principe, calcando volutamente sulla sillaba strascicata.

 

L’altro sbuffò accondiscendente, distogliendo un istante lo sguardo. Quando ristabilirono il contatto visivo, le iridi del ragazzo erano d’un blu abbacinante. Ad Arthur mancò il respiro.

 

“Perché mi hai salvato?” domandò il giovane, con lo stesso tono di un’accusa.

 

“Uhm… perché… uhm…” temporeggiò il cavaliere. Perché gli era mancato il coraggio?

 

“Dovevi finire quello che hai iniziato – dannazione! – e non farti prendere dal rimorso!”

 

“Ehi!” s’accalorò allora Pendragon. “Ma da che parte stai?!” lo contrattaccò, col medesimo tono. “E non era rimorso, era pietà!” sputò fuori, rinvigorendo inconsciamente la presa attorno alla vita del giovane.

 

“Lasciami!” strillò costui, perdendo completamente la grazia eterea che lo aveva contraddistinto.

 

“Non allargarti con le pretese…” lo contraddisse il principe, sollevandolo invece fra le braccia con una mossa fulminea, strappandogli un gridolino di sorpresa.

 

Incurante delle altrui proteste, fece ritorno al bivacco, dove lo depose e si accomodò al suo fianco; poi, con un gesto sprezzante, indicò il mantello rosso Pendragon e il tacito invito affinché l’altro coprisse la propria nudità.

 

Dopo che tale richiesta fu bellamente ignorata dal suo piccato interlocutore, il cavaliere prese l’incarico di petto e strattonò la stoffa quel tanto che bastava per renderlo presentabile, drappeggiandoglielo addosso.

 

“Ehi! Ma che diamine fa-”

 

“Qui, le domande le faccio io”, tagliò corto, sfidandolo a protestare. “E devi appellarti a me come si confà al mio rango! Puoi scegliere tra ‘Vostra Maestà’ o ‘Vostra Altezza’… Si dà il caso che io sia il nobilissimo Principe Ereditario di Camelot, Arthur Pendragon”.

 

“…Arthur?”

 

“Esatto”.

 

Arthur”, rifece la creatura, come a saggiare il sapore di quel nome. “Arthur”.

 

L’erede al trono sentì accapponare la pelle per l’intensità di quell’inflessione, come se fosse provenuta dalle viscere della terra o dal centro stesso di quell’essere. Sentì un formicolio traditore, un’eccitazione disdicevole e assolutamente fuori luogo. Ma per il tempo di un battito di ciglia, pregò di sentir gemere ancora il suo nome così – su quelle labbra, con quella voce – in un altro contesto completamente diverso.

 

Esalò un lungo, sofferto sospiro che, nelle intenzioni più ingenue, avrebbe dovuto restituirgli la padronanza di sé.

 

“D’accordo. ‘Arthur’ può bastare. Smettila di ripeterlo!” scattò, spazientito, guardando altrove per ricomporsi, prima di sentirsi nuovamente attratto dal volto del giovane.

Suo malgrado, anche volendo, non avrebbe potuto intravedere nulla di mostruoso in quel viso perfetto, cesellato dalla mano di uno scultore divino.

Persino con le due corna che…

“Un momento!” scattò, focalizzando quel particolare che finora la sua mente aveva ritenuto di trascurabile importanza. “Giuro che ieri non c’erano!” considerò, allungandosi per sfiorare le due protuberanze che spuntavano fra i capelli del suo interlocutore, ricevendo in cambio un sussulto sorpreso e un gemito roco che niente aveva a che fare col dolore.

 

L’essere magico si ritrasse all’istante dal suo tocco, avvampando d’imbarazzo e di vergogna.

 

Arthur ritirò a sua volta le dita e si guardò i polpastrelli, dove percepiva ancora un leggero formicolio e un tepido calore irresistibile.

Com’era possibile che…

 

Non ebbe modo di terminare la frase, perché le due corna scomparvero un momento dopo, in un baluginio dorato.

Se ci si impegnava un po’, poteva credere di averle solo sognate…

 

“Ma dove…? Cosa?” tartagliò sconcertato, e forse in parte deluso.

 

“Non… non avresti dovuto vedere…” incespicò il ragazzo-drago, con riluttanza.

 

Ma perché?” s’intestardì Arthur, come se conoscere questo fosse fondamentale. Come se tutto di quell’essere fosse adesso affar suo.

 

Anche se l’altro sembrava reticente, la spiegazione arrivò, quasi che fosse stato un comando a cui non poteva opporsi. E forse lo era davvero.

“Le mie corna spuntano quando mi sto rigenerando… Oppure… quando mi rilasso troppo”, ammise controvoglia, come se gli avesse confidato il più intimo dei segreti o il suo punto debole.

 

“Beh, non mi disturbano… se ti va, puoi tenerle…” gli concesse magnanimamente.

 

Ma questa generosa autorizzazione, anziché apparire gradevole, fece arroccare ancor più l’essere magico.

N-no, grazie, ma no. Se ne sono andate, e non torneranno”.

 

“Ma perché?!” insistette il principe, cocciutamente.

 

“Ci vuole la giusta predisposizione d’animo. E io…” arrossì zittendosi. Poi si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore. “Possiamo parlare d’altro, per favore?”

 

“Giusto”, ne convenne il nobile, riacquistando la posizione eretta e un’adeguata distanza. “Vado a procacciarci qualcosa per fare colazione. Oppure riesci a…?” Il sottinteso fu chiaro per entrambi, anche se era evidente che per il principe l’argomento Magia fosse ancora un impaccio.

 

“Troppo debole. Mi dispiace”, ammise, contrita, la creatura.

 

“D’accordo. Ma non ti muovere e non fare scherzi. Intesi?” lo redarguì il cavaliere, allontanandosi, anche se dubitava che l’altro avesse la forza necessaria per fare più di qualche passo. Ne avevano avuto la riprova poc’anzi, quando gli era praticamente svenuto tra le braccia.

 

 

***

 

 

I draghi erano notoriamente carnivori e gran divoratori; perciò, quando Arthur fece ritorno, a malincuore, con appena una piccola lepre scuoiata e una manciata un po’ più sostanziosa di bacche selvatiche e mirtilli, sapeva di aver fallito.

 

Non era da lui sentirsi manchevole in qualcosa, per cui cercò di mascherare la sua contrizione impostando la solita aria arrogante, man mano che si riavvicinava al riparo di fortuna. Aveva persino preparato un paio di risposte sagaci, nel caso in cui il drago indisponente avesse avanzato rimostranze.

 

La sua maschera di superbia cadde nel momento in cui sgranò gli occhi e spalancò la bocca, incredulo.

L’essere magico se ne stava esattamente dove l’aveva lasciato, e sembrava riposare in un dormiveglia sfinito, ma beato.

La cosa straordinaria erano gli abiti apparsigli magicamente addosso – preziose sete, damasco finemente ricamato – e stivali del miglior cuoio.

 

Pareva un nobile d’alto rango e non una creatura mostruosa, degna di disprezzo.

Arthur deglutì a vuoto, sentendosi attirato ancor più verso di lui.

Non avrebbe dovuto dare retta a questo malsano desiderio. Suo padre sarebbe stato nient’affatto felice. E da qualche parte, nel mondo, una principessa stava attendendo di divenire la sua promessa sposa, quantunque lui non si fosse mai sentito particolarmente predisposto all’amor cortese.

Certo, era stato iniziato all’arte del piacere come qualunque cavaliere, ma nessuna donna l’aveva travolto a tal punto da mettere in discussione tutto – l’intera sua vita, le sue convinzioni – com’era riuscito a fare Merlin, in meno di un giorno.

 

Come richiamato dai suoi pensieri, il Bell’Addormentato si ridestò, salutandolo con un sorriso stanco, seppur gaudioso.

 

Arthur gli offrì i frutti di bosco e, mentre accendeva il fuoco per arrostire la carne, scoprì che la ferita quasi mortale era in via di guarigione, ma aveva richiesto un pegno considerevole da pagare, prosciugando le sue forze magiche.

Il ragazzo-drago, poi, aveva speso tutte le rimanenti energie, appena riguadagnate, per rendersi presentabile. Per questo, si sentiva stremato come il giorno addietro, anche se non era più in pericolo di vita.

 

Detto questo, Merlin ringraziò il principe dei frutti e, drago o meno, li aveva trangugiati con gusto.

 

“Vuoi dire che non riesci ancora a cavalcare?” domandò quindi il nobile, spartendo la carne appena cotta.

 

“Anche se riuscissi a rimanere in sella, il tuo stallone non me lo permetterebbe…” rispose il giovane, distogliendo gli occhi dallo sguardo interrogativo dell’altro.

Ma quando procrastinare oltre non fu più possibile, esalò un sospiro e continuò: “Il tuo cavallo mi rifiuta. Sente il mio odore…”

 

“Che cos’ha il tuo odore che non va?!” sbottò l’erede al trono, corrugando la fronte. “A me sembra normalissimo!”

 

Merlin si levò di scatto, allontanandosi, raccogliendo i lembi del mantello tutt’attorno a sé, come a proteggersi.

“Hai già dimenticato la mia natura, Arthur Pendragon?” domandò, retorico e amaro.

 

Oh, Dei! Come aveva potuto…?

Arthur rivide di colpo ciò che il suo cuore aveva celato alla mente e due immagini si sovrapposero: l’essere etereo e meraviglioso e il drago spaventoso che aveva cacciato.

Era lui. Era sempre lui.

 

 

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“Dimmi perché…” supplicò, con voce strozzata. “Perché sei diventato uomo? Per… per irretirmi? Per ingannarmi?”

 

L’essere magico scosse il capo, incapace di proferire parola. Anche se questa poteva essere la sua condanna.

 

Merlin!” ruggì il principe. “Ti ordino di rispondermi!” insistette, anche se sembrava più una supplica e, suo malgrado, il giovane cedette, come rispondendo ad un comando superiore.

 

“Non mi crederai… Nessuno lo fa mai…”

 

“Mettimi alla prova!” rispose, cocciuto, incrociando le braccia.

 

E fu così che Merlin gli rivelò il suo triste passato.

L’eredità dei suoi padri l’aveva reso l’ultimo Dragonlord al mondo, ma egli – che non voleva cedere ad un vile ricatto e assoggettare i draghi al Male – era stato punito da un malvagio stregone con una terribile maledizione: tramutato in uno degli esseri che avrebbe dovuto comandare, solo la morte lo avrebbe liberato dal terribile sortilegio.

Per questo, sarebbe stato destinato a vagare di regno in regno, braccato e cacciato da tutti, conducendo un’esistenza miserevole.

Ma egli non aveva voluto sottomettersi a quel destino infausto e, anzi, cercava di far del bene come poteva, aiutando contadini e pastori contro ladri e predoni. Anche se rischiava costantemente la vita, aveva preferito questa scelta ad un’esistenza vuota e solitaria, nascosto in qualche buia caverna oltre le Foreste di Darkling, fra gli eterni ghiacci delle Piane di Ismere.

 

Per gran parte del giorno, egli aveva raccontato le proprie vicissitudini e aveva difeso strenuamente le creature magiche. A suo dire, i draghi erano esseri meravigliosi, dalla saggezza ancestrale, e non malevoli di natura. Se venivano cacciati, dovevano difendersi come chiunque e uccidevano l’indispensabile per vivere. Era stata la cattiveria umana a renderli vendicativi, ma non era nella loro natura esserlo.

 

Anche se tutto ciò – di primo acchito – sembrava solo il folle delirio di uno squilibrato, riaccese in Arthur antiche memorie sopite.

Il principe rammentava dei racconti uditi da ragazzo, sussurrati al mercato; oppure frammenti di libri che aveva letto di nascosto con Morgana, mentre Geoffrey – il bibliotecario reale – credeva che stessero studiando per arricchire le rispettive culture.

In quei vecchi tomi polverosi e nelle storie raccontate a mezza voce, si parlava dei Dragonlord come di persone nobili d’animo, il loro lignaggio era puro come quello di qualsiasi aristocratico, al pari di un principe, di un conte, di un duca.

 

“Dove vivevi, prima di…” lasciò la frase in sospeso, ma il significato era chiaro.

 

“La mia famiglia possedeva un castello. Oltre le terre di re Cenred, molto più a est di Anglia”, spiegò, con un’espressione nostalgica, venata di rimpianto. “Ma tutto è andato perduto. Distrutto fin nelle fondamenta da quella stessa maledizione che mi ha reso ciò che sono… E tutti sono morti. Tutti”, ripeté, con disperazione.

 

“Mi dispiace…”

 

Ma non è colpa tua…”

 

“Mi dispiace ugualmente, per ciò che hai dovuto patire”, precisò il cavaliere. “E ora cosa intendi fare?”

 

“Questo devi dirmelo tu”, replicò Merlin, tradendosi un po’ per l’ansia che provava.

 

“E perché mai, di grazia?” insistette l’erede al trono, stranito.

 

“Hai salvato la mia vita e ora essa ti appartiene”, motivò con sguardo d’acciaio. “È la Legge dei Draghi”.

 

Vu-vuoi dire che sono diventato il tuo padrone?!” ansò il giovane Pendragon, oltremodo stupito.

 

“Puoi sempre ripudiarmi, se lo vuoi”, offrì l’altro, seppur controvoglia. “Vedi? Non avresti dovuto salvarmi…”

 

“Non dire sciocchezze!”

 

“Ci sarà sempre qualcuno dopo di te… Un cavaliere in cerca di gloria,  un gruppo di contadini che mi credono una minaccia per il solo fatto che esisto… Ci sarà sempre qualcuno pronto a uccidermi. È solamente questione di tempo”, filosofò rassegnato.

 

“Merlin… Io non lo permetterò!” s’infervorò il principe, ergendosi fiero.

 

“Hai per caso intenzione di adottarmi? Non ci sono molti draghi da compagnia, che io sappia…” tentò di ironizzare l’altro, senza concedersi di sperare troppo.

 

“Beh…” tentennò il cavaliere, immaginando ciò che avrebbe detto suo padre, se un drago fosse apparso nel bel mezzo del cortile di Camelot. “Le cose non sono propriamente semplici…”

 

“Arthur…” lo richiamò la creatura, sforzandosi di essere comprensivo. “Liberami da ciò che ci lega, e ognuno potrà andare per la sua strada…

 

“Io direi che dovremmo aspettare almeno fino a domani”, obiettò, cocciuto. “Forse la notte porterà consiglio”.

 

La notte non aveva portato consigli, ma un corpo caldo da stringere e la certezza che separarsi sarebbe stato impossibile.

 

 

***

 

 

Mancava poco all’alba, quando Arthur si ridestò, piacevolmente intorpidito dal tepore che la pelle morbida di Merlin trasmetteva alla sua.

Durante la notte, l’altro doveva essersi girato, cambiando posizione, perché adesso se lo ritrovava accoccolato addosso, il viso minuto incassato fra la spalla e il collo, il fiato a solleticargli la gola in piacevoli, piccoli sbuffi che gli facevano venire la pelle d’oca, ma a cui il principe, in tutta franchezza, non avrebbe saputo rinunciare.

Fu l’istinto a guidarlo, muovendo la sua mano in punta di dita, lungo la clavicola rimasta scoperta dallo scollo della casacca, verso il collo eburneo, esplorando ancora una volta le piccole scaglie argentate, la curva dell’orecchio, il lembo sensibile dietro la nuca, e poi su, su a memorizzare gli zigomi appuntiti, le tempie e i riccioli neri della frangia che nascondevano le sopracciglia aggraziate, fino a giungere ai capelli di seta, soffici e modellabili sotto al suo tocco. Fu lì che ritrovò, quasi per caso, le due corna cesellate.

Il principe indugiò un istante, incerto, e poi la curiosità vinse, costringendolo ad accarezzarle, delicato e lieve, giusto per scoprire che erano calde, palpitante. Magnetiche.

Ad un secondo tentativo, fu il coraggio a prevalere, inducendolo a circondarne uno con le dita, per saggiarne maggiormente la composizione, per studiare – pelle contro pelle – le piccole zigrinature superficiali e Arthur fece scorrere il palmo della mano per tutta la lunghezza, in un andirivieni sperimentale. Venne immediatamente ricompensato da un piccolo gemito sommesso, che lo fece trasalire impreparato ma, quando realizzò che il Dragonlord non si stava svegliando, ritentò nuovamente, guadagnando un altro lamento di piacere, seguito da un piagnucolio, quando la sua mano si bloccò.

Un feroce moto d’orgoglio lo travolse, inducendolo a riprendere con rinnovato entusiasmo, tanto che presto, si accorse, il respiro contro il suo collo era cambiato d’intensità e dal petto contro il suo era scaturito uno strano ronzio, che si espandeva fino a vibrare in gola con visibile soddisfazione. Bonta Divina!, esclamò mentalmente Arthur, realizzando d’improvviso quella stranezza. Merlin stava facendo le fusa!

Fermò la mano di colpo, e di colpo il rumore cessò.

La creatura si destò bruscamente e lo guardò, stordito, come chi era stato strappato da un momento quasi perfetto un istante prima del suo compimento. Solo poi, anche Merlin concretizzò che Arthur lo stava ancora tenendo per le corna e arrossì, nascondendo il viso contro la casacca del principe, arricciandosi sul suo torace. Arthur scoppiò a ridere, abbracciandolo di riflesso.

 

“Non vale sfruttare il mio punto debole...” borbottò il ragazzo-drago, come scarsa protesta.

 

Non mi sembrava ti dispiacesse”, gli annotò l’erede al trono, di rimando, con un sorriso compiaciuto.

 

“Asino che non sei altro!” lo insultò Merlin, colpendolo piano. Il cavaliere rise del solletico, sentendosi bene forse per la prima volta in vita sua. E fu allora che comprese.

 

Per lui non c’erano affatto scelte da fare, decisioni da vagliare. Opzioni da ponderare.

La risposta era sempre stata lì – dal momento esatto in cui aveva deciso di salvare la creatura magica anziché ucciderla –, o forse anche prima.

Arthur aveva già segnato il suo destino.

 

Con le dita tremanti, circondò il viso del giovane, risollevandolo con gentile fermezza, fintanto che i loro occhi non furono alla medesima altezza, i rispettivi fiati che quasi si mescolavano; quindi si allungò, lentamente, verso quella bocca da cui si sentiva attratto come per magia.

Lasciò a Merlin il tempo di tirarsi indietro, di rifiutare – se avesse voluto –, ma quando ciò non avvenne, annullò le distanze e accarezzò devotamente quelle labbra straniere con le sue.

E poi la devozione divenne ardore e il mondo cadde in mille pezzi e si ricompose. Bacio dopo bacio, tocco dopo tocco… ogni cosa trovò il suo posto.

 

Sei libero da ogni legame”, bisbigliò Arthur, nel silenzio del bosco, accarezzando il corpo nudo stretto al suo. “Puoi andartene, se lo desideri”.

 

Il Dragonlord fremette piano, come unica risposta.

 

Ma io ti vorrei con me”, riprese il cavaliere. “Resta con me. Vieni a Camelot, con me. Non perché devi, ma perché vuoi”.

 

“Sono un drago, Arthur…”

 

“Non mi importa”, decretò il nobile. “Le cose cambieranno, quando sarò re. So che non sarà facile, ma sento che tu sei ciò che mi mancava. Sei il mio destino”.

 

Merlin distese il palmo della mano sul cuore del principe. L’erede dei Pendragon lo raggiunse e intrecciò le proprie dita alle sue.

“Se provi quello che sento io… unisciti a me”.

 

Il Dragonlord liberò la magia affinché l’altro potesse udire ciò che custodiva: i loro cuori che battevano all’unisono.

“…Sì”.

 

 

- Fine -

 

 

 

Disclaimer: I personaggi di Merlin, citati in questo racconto, non sono miei; appartengono agli aventi diritto e, nel fruire di essi, non vi è alcuna forma di lucro, da parte mia.

Ugualmente, le immagini che ho scelto di inserire nei capitoli sono prese dal web e non mi appartengono.

Ho dovuto rimpicciolirle per motivi di spazio, ma hanno perso un po’ di nitidezza. Vi consiglio quindi di guardare i due link qui sotto, che mostrano le figure originali. Sono davvero bellissime!

 

https://41.media.tumblr.com/7a791852adab9fc9de88320fb8c1f616/tumblr_n8nnt97Byh1tub403o1_500.jpg

 

http://36.media.tumblr.com/db207bf92fa5ad42f939f548eac72365/tumblr_nbtqreCTVd1rx9ku9o1_r1_500.jpg

 

Ringraziamenti: Un abbraccio alla mia kohai che subisce le mie paranoie. X°D

E a Laura, che si sciroppa le anteprime con un entusiasmo che mi commuove.

Note: Qualcuno di voi potrebbe obiettare che io nutra una sorta di sadica soddisfazione nel far maledire Merlin da stregoni random. Beh, un po’ – lo confesso – c’avete ragione! XD

 

Ho voluto anche giocare sulla credenza secondo cui l’argento puro, secondo varie tradizioni, avesse il potere di ammazzare i mostri. (Uno su tutti: i proiettili d’argento dovrebbero uccidere i vampiri), e quindi anche i draghi.

Allo stesso modo, ho scherzato sul famoso “Nobile Bacio” che dovrebbe salvare da ogni male.

 

Darkling Woods, cioè le Pianure del Nord, e Ismere sono riferimenti presi dal telefilm.

 

Nell’intro ho accennato alla mia personale sfida. Finora ho postato:

 

ü     Doctor!Merlin (beh, veterinario, ma va beh…)

ü     CEO!Arthur

ü     Writer!Arthur

ü     Pianist!Merlin

ü     Coffee shop!AU

ü     Prof!Arthur e Student!Merlin (da postare)

ü     Cinema Hall!fic

ü     Mpreg!modernAU

ü     Beach!fic

ü     X-mas!fic

ü     Lunapark!fic

ü     Dragonlord!Merlin

ü     Dragon!Merlin

ü     Soulbond!Merthur

 

Mancano ancora una sacco di spunti e cliché, ma pian piano darò il mio contributo.

 

 


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