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Autore: Koa__    03/05/2015    4 recensioni
Tu sei Mycroft Holmes ed è tutta una vita che vivi in una gabbia di seta, sottile e impalpabile. Sei intrappolato in una viscida ragnatela fatta di speranza, una prigione dorata e bellissima composta di false illusioni e sciocche fantasie. Di continuo, da anni, fingi che non sia vero e nel contempo ti torturi perché sei un mostro e non potrai mai sfuggire a ciò che sei diventato.
Storia vincitrice del premio: Miglior Sceneggiatura non Originale agli Oscar di Efp 2016
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing | Personaggi: Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Prigione di seta'
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Note introduttive. Questo è il primo capitolo di una storia in due parti che tratta di una tematica incestuosa. Non sfocerà mai nel rating rosso, dato che su Efp è vietato, tuttavia conterrà dei riferimenti a rapporti intimi di genere sessuale tra fratelli, avvenuti nel passato.
Inoltre, ho aggiunto gli avvertimenti AU e OOC. Tengo a specificare che tutto quello che viene raccontato sia in 'Prigione di seta' che nelle storie successive, non trova riscontri nella serie ed è di mia pura invenzione. L'avvertimento AU si riferisce anche al fatto che la storia passata di Mycroft e Sherlock è diversa da quella che viene fatta intuire dalla serie. In questo verse, infatti, i due fratelli hanno vissuto per anni separatamente, allacciando dei veri rapporti soltanto dopo che Sherlock si è trasferito a Londra per fare il consulente investigativo. Questo aspetto verrà però approfondito nelle storie successive e non in questa, che racconta di altro. Questa annotazione è puramente informativa, il fatto che certi aspetti verranno approfonditi in futuro, non preclude la comprensione di questa storia.
 




 
Prigione di Seta
 





Prima parte
 

Talune abitudini sono incredibilmente complesse da estirpare, specialmente se si tratta di un uomo come te. Per esempio: non potresti mai rinunciare a quella tazza di raffinato tè che bevi ogni pomeriggio, appena passate le quattro. E non riusciresti neanche a fare a meno di controllare il rapporto giornaliero dei servizi segreti riguardo l’attività notturna di tuo fratello. In quest'ultimo caso, tra l'altro, è molto più di una necessità. Sherlock va protetto e tu ti sei caricato sulle spalle l'enorme peso che il tenerlo al sicuro comporta, ormai sono trascorsi decenni da che ti sei assunto il ruolo di angelo custode. Purtroppo, a tutt'oggi, una necessità non lo è più. Col tempo, questo tuo continuo guardarlo da lontano, spiarlo e tenerlo d'occhio è diventato una piacevole sofferenza. Ormai non ti resta che tentare di dedurre come trascorre la vita da qualche scatto rubato. Non ti è rimasto nulla, se non la possibilità di osservarlo da una fotografia in bianco e nero, piuttosto che scorgere di lui quei pochi secondi dalle tante telecamere del traffico a cui hai accesso. Forse non sei nemmeno in grado di carpire ogni più piccolo pensiero, ma se è felice, quello riesci sempre a saperlo. La tortura alla quale ti sottoponi ogni dannato giorno è dolorosa, e al tempo stesso infinitamente piacevole. Perché ci sono dei giorni in cui non vorresti neanche sentirne nominare il nome, eppure staccarti è talmente difficile... La verità è che sei troppo pigro per cambiare tanto radicalmente un qualcosa, e mettersi d’impegno e uscire dall’indolenza è assolutamente fuori discussione. Sì, sradicare le abitudini è difficile, soprattutto se ti chiami Mycroft Holmes. Nel caso che coinvolge tuo fratello, poi, la faccenda è ovviamente più intricata e complessa di quanto non possa sembrare in apparenza. Non si tratta solamente di preparare il tè secondo un determinato rituale, è ben altro ed ha a che fare con la morbosità, con quel lato oscuro e malato di te che perseguita a sperare nell’impossibile. È un’ossessione che ha il potere di consumarti e che, nonostante ciò, continui ad alimentare. Tu che sei così troppo imperterrito e testardo. Implacabile e duramente severo, specialmente con te stesso.

I riti serali hanno, naturalmente dato che si tratta di te, una loro qual certa complessità. C’è un’atmosfera ben precisa da costruire e delle azioni da compiere con attenzione e metodica dovizia. Dovresti già esserne annoiato, tuo fratello lo sarebbe, ma tu sei sempre così convinto di quel che stai facendo che non t'interessa di dover spendere quei minuti in più per, ad esempio, accendere il caminetto. Sei talmente assuefatto da ciò che fai e tanto sicuro di doverlo fare, che non ti importa delle tue preziose scorte di cognac francese che finiscono prosciugate dopo un tempo troppo breve perché si possa considerare normale. Un focolare, un bicchiere e null'altro. Talune volte ti dedichi anche ad un buon libro (hai una predilezione per i racconti Poe), è un passatempo che ispira tranquillità e pace dei sensi. Sarebbe bello se fosse reale, vero? Se ti impegnassi a tal punto, soltanto per costruire un qualcosa atto esclusivamente a farti star meglio. Ma no, la verità è tutt'altra, lo sai bene e da fin troppo tempo per mentirti spudoratamente in questo modo. Perché tu, ogni sera, vivi la tua speranza fingendo che non sia vana e non ti penti un istante della scenografia che ti erigi attorno. Perché ogni notte, ripeti a te stesso che potrebbe essere quella in cui avrai fortuna. I gesti, quindi e dato che sei tu, li compi in modo lento e mai affrettato. Rientri al termine di un’intensa, quanto noiosa, giornata lavorativa e dopo aver riposto ombrello e soprabito, ti rendi conto che tutt’attorno a te c’è il consueto vuoto. E se per ore sei stato immerso in faccende di stato, piuttosto che circondato da persone che sembravano pendere dalle tue labbra, una volta varcata la soglia ti ritrovi nel deserto di una casa troppo grande per un singolo uomo. La realtà ti assale nella penombra di un corridoio e ti fa incurvare appena su te stesso, come se ti sentissi schiacciato dal peso di quella vita scomoda che ti sei cucito addosso fingendo che ti andasse bene. I movimenti sono meccanici e vuoti. Mangi, fai una doccia e solo dopo che sono passate le dieci ecco che la tua tragica pièce ha inizio. [1] Perché è a quell’ora che la messinscena deve cominciare e delle volte, il motivo neanche lo ricordi. Indossi pigiama e vestaglia con gesti lenti, cadenzati dallo scricchiolio del legno del parquet che si lamenta al tuo passaggio, prima di deciderti a raggiungere la poltrona. Stendersi ed allungare le membra di fronte ad un fuochetto crepitante e sorseggiando uno dei tuoi preziosi liquori francesi, uno di quelli dal sapore forte e ricco. Sarebbe un piacere sincero, se non fosse che la tua mente è occupata a tormentare sé stessa e non coglie la delicatezza dell’attimo. Possiedi un’idea ben precisa di come ti dovresti comportare perché hai prestabilito un copione, ciononostante spesso trasgredisci alle tue stesse imposizioni. Di tanto in tanto, infatti, il tuo sguardo si ritrova ad allungarsi per poi indugiare all’altro calice, quello sistemato dalla parte opposta del tavolino e proprio accanto ad una poltrona che non aspetta altro che di venir occupata. Quel bicchiere lo riempi tutte le sere esattamente come fai col tuo, la sola differenza è che non ne bevi nemmeno una goccia, e quando a notte inoltrata capisci che un altro giorno è passato senza che lui sia tornato, svuoti il contenuto nel lavandino e lo sciacqui riponendolo nella credenza. Perché se non è suo, allora non sarà di nessun altro. Tanto meno tuo. Non sai di preciso che cosa ti spinga a comportarti sempre in questa assurda maniera, ad essere tanto devoto nei confronti di qualcuno che già da tempo ha scelto di starti lontano. Certo, non puoi affermare di essere un esperto di emozioni visto che a stento riconosci quelle che provi tu per primo, ma probabilmente in questo caso si tratta di speranza. Tu credi in così poche cose, che la sola in cui hai fede l’hai resa forte e potente al punto da renderla un’ossessione. Ogni fibra del tuo essere si augura che un giorno lui possa ritornare da te ed è ciò che ti ripeti ogni sera, mentre lavi il suo bicchiere e resti in parte nauseato dal forte odore di alcol che si sprigiona nel lavello. Domani potrebbe essere la volta buona e non puoi rinunciare, non ora che ne sei vicino. D’altronde, non deve mancare poi molto e se i primi anni eri conscio che le probabilità che ti volesse fossero pressoché nulle, negli ultimi mesi qualcosa è mutato. Anzi, tutto è diverso e lo è da quando si è gettato dal tetto del Saint Barts. Da quel momento la sua vita non è più stata la stessa: qualcosa d’incredibilmente prezioso e al tempo assurdamente perfetto, si è rotto nel suo rapporto con John Watson. Il meccanismo che li legava non si è semplicemente inceppato, è andato distrutto lasciando dietro di sé solo cenere e copri bruciati. Per questo sei sicuro che un giorno, Sherlock verrà a cercarti ed è quanto ti dici in quei momenti che sanno di ritualità e che compi identici, un giorno dopo quell’altro. Gesti lenti e misurati. Non un movimento di troppo, non uno eccessivo. Ogni azione è atta a rassicurare. Ci sei soltanto tu e te ne stai rinchiuso nella tua bolla di sapone, in un meccanismo fatto di ritualità, menti a te stesso e lo fai sapendo di mentire. Ti illudi di continuo. E ti credi persino. Perché nella tua infinita saccenza, sai di avere ragione ogni volta. Sarà così, deve esserlo. Solo… Peccato che l’idillio non duri che pochi istanti e quando già sei chino sul fuoco, pronto a spegnerlo e tieni l’attizzatoio stretto in una mano mentre il calore del fuoco ti si sbatte in faccia con violenza, sei ormai completamente sveglio della tua illusione. Lì, comprendi che nonostante la speranza, Sherlock non verrà mai. Sarete sempre soli, tu e il tuo bicchiere di cognac prezioso mentre l’altro, quello che servi per il tuo fantasma, avrà la maledizione in sé di rimanere intatto. E allora succede che la realtà inizia ad invaderti piano, ti entra dentro lentamente sino a che non ti investe nell’attimo in cui varchi la soglia della camera da letto e la trovi buia e vuota. Lui non c’è. A dire la verità non è mai entrato, né si è addormentato tra i tuoi cucini o si è preso la premura di cadere nel sonno prima di te per donarti il puro piacere di lasciarsi ammirare. Tu, da solo con la tua follia, ti ci disperi persino. Nella stanza asettica che utilizzi per dormire, te ne stai chiuso con te stesso mentre ad invaderti la mente, c’è il pensiero di uno Sherlock sperduto per Londra, accompagnato all’idea (a quel punto fissa) che in camera tua non ci abbia fatto nemmeno il fratello, tanto meno ciò che segretamente desideri ovvero l’amante. Di solito, giunto a questo punto non fai nulla se non stenderti sopra il copriletto e poi chiudi gli occhi fino a che, sfinito, non crolli in un sonno profondo.
 
Per questo adesso sei lì, allungato pigramente su di una poltrona che non hai il coraggio di definire come odiosamente morbida. Perché sei uno che ama sprofondare, Mycroft e che sia tra le coltri o in un abisso, poco importa. Tutto ciò che per te conta è di apparire perfettamente distaccato agli occhi del mondo, ma se ti potessero vedere ora… mollemente lascivo, con un bicchiere ancora pieno stretto tra le dita e lo sguardo perso nel vuoto, forse riderebbero del tuo finto contegno. In apparenza fissi le fiamme di fuoco vivo senza interesse alcuno, in realtà la tua mente è ben lontana. Attorcigliata attorno a reminiscenze che, e sei costretto ad ammetterlo, ti assalgono di quando in quando. Pensieri che mai sei stato in grado di ricacciare indietro e che non hai intenzione di gettare nel dimenticatoio. Più precisamente, in quel ricordo lontano ci siete tu e Sherlock intenti a fare qualcosa di sbagliato, sporco e malato. Tu e lui impegnati a perdervi uno nel corpo dell’altro, a morire insieme. Voi, intrecciati e nudi, nel buio di una stanza, assediati dal calore estivo e dai profumi di quella campagna francese che avrebbe dovuto ispirare risate e chiacchiere in famiglia, piuttosto che sesso incestuoso. Due fratelli soli in quella vacanza dall’università, in un ultimo mese di agosto trascorso in compagnia uno dell’altro. C’era lui, splendido e vergine, da poco ventenne e poi c’eri tu: brutto, contorto, impregnato di un amore che non avrebbe dovuto avere ragione di esistere e che avrebbe dovuto rimanere recluso dentro il tuo corpo marcio. Prima che il fatto avvenisse ti eri anche imposto di allontanartene, di mettere distanza tra voi e c'eri riuscito. Per anni siete stati separati. Ma debole, Mycroft, tu lo sei sempre stato. E così quella notte hai ceduto e, inebriato dalla sua strafottente bellezza, da quella lascivia lussuriosa e dal caldo estivo che penetrava dalle finestre spalancate agitando appena le tende bianche, ti sei lasciato trasportare dalla passione più nera. Solleticato da un venticello fresco che portava con sé profumo di gelsomino e genziana, eri completamente accecato dalla sua indescrivibile purezza, e lo hai fatto tuo. Anche oggi, dopo più di quindici anni, quelle immagini sono nitide nella tua mente pazza; fresche al punto da farti sembrare che sia appena successo.
«Sherlock» mormori, mentre le immagini di voi ti si dipanano davanti agli occhi e i sensi si riaccendono come durante quella prima (e unica) volta. Senti i suoi gemiti, percepisci il lieve solletico dei capelli ricci sulla tua pelle sensibile, così come i vostri profumi mischiati assieme. No. Dici a te stesso con veemenza, ritornando bruscamente alla realtà, l’odore dei vostri corpi uniti hai dimenticato quali note avesse e pur sforzandoti non sei in grado di ricordare nulla. Te ne rammarichi sinceramente, ma dopo subito ti rabbui e cadi in una malinconia di cui non sei in grado di scorgere la fine. Non ti restano che i ricordi di quella notte, seppur freschi, sono soltanto immagini che vanno, vengono e riemergono nei momenti meno opportuni. Spesso anche quando sei a Baker Street, intento a cercare di convincerlo a prendere un caso. Di tanto in tanto, quando l’hai così troppo vicino, fatichi persino a respirare. È allora che la maschera di ghiaccio si crepa. Ed è il modo in cui lui ha di guardarti, a confonderti, a stranirti e a mozzarti il fiato sino a farti smettere di vivere. Perché ogni volta che lui prende a fissarti con quei due grandi occhi azzurri, tu cessi di esistere. E per un breve momento, sei perduto. Vivi per il sogno di poter vibrare per quelle sensazioni nuovamente e sei ben conscio che forse aspetterai per sempre, ma è certo che ne valga la pena. E nel mentre, per ingannare l’attesa, incolpi te stesso. Perché se John Watson è entrato nelle vostre vite, sconvolgendole al pari di un tornado, la colpa è soltanto tua. E tu lo odi. Detesti te stesso per aver permesso a quel cazzo di reduce di avvicinarsi tanto. Avresti potuto spedirlo da qualche parte e con una qualsiasi scusa, non ti manca certo il potere di impedire ad anima viva di vedere tuo fratello, eppure hai ugualmente assecondato la loro amicizia limitandoti a spiarli da lontano. Lo hai fatto perché all’epoca, quando hai incontrato il dottor Watson per la prima volta, ti sei ritrovato intrappolato da quella viscida ragnatela sottile che è la speranza. Una gabbia di seta, sottile e impalpabile fatta di fantasie e falsi sentimenti. La notte in cui hai incontrato John per prima volta hai creduto che sarebbe potuto diventare il tuo paravento, che si potesse mettere fra voi una volta per tutte e vi allontanasse in una maniera che fosse definitiva. Ti eri illuso che, sapendolo con qualcun altro e finalmente felice, tu avresti avuto pace e ti saresti levato quel ricordo morboso dalla testa. Non è stato così. E, oltretutto, adesso Sherlock è solo di nuovo. Perché qualcosa sta cambiando e lo senti nell'aria. Lo leggi dal volto di tuo fratello e sai che è oramai al limite. Quando John si è sposato, Sherlock non si è mosso e non lo ha fatto nemmeno dopo che la faccenda di Magnussen e del ritorno di Moriarty si è conclusa. E ora che la pendola batte la mezzanotte, capisci che non è tornato nemmeno oggi che è nata la bambina. Un evento potenzialmente traumatico per un sociopatico ad alta funzionalità, ti dici prima di renderti conto che forse non lo è abbastanza. Se non è qui adesso, lo hai perduto per sempre. Dovrai far recapitare un mazzo di fiori e dei palloncini colorati a Mrs Watson, è il solo pensiero coerente che riesci a comporre e che ti traversa la mente come un lampo. Dopo, semplicemente, ricadi nell'abisso.
 


 
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Tu sei Mycroft Holmes e non credi in niente. Non di certo nel destino. Tuttavia, per un brevissimo e fugace istante, sei quasi sicuro che qualcuno di divinamente superiore ti stia giocando un brutto scherzo. Sussultare è la prima umana reazione che provi, il che sarebbe già ridicolo di per sé visto che con la categoria degli umani hai ben poco a che fare. Quando la porta d’ingresso si apre e poi sbatte con violenza, un fremito ti percuote le membra, lo stomaco prende a sfarfallare e la schiena si irrigidisce facendoti mutare postura. Non sei più mollemente sdraiato, ma attento e vigile. Anche un idiota si accorgerebbe che sei teso come una corda di violino. In effetti, chiunque farebbe caso alla mano stretta sino allo spasmo attorno a quel bicchiere di cognac, dal quale non hai ancora bevuto una goccia. Sei certo di sapere di chi si tratta ed ancor prima che questi si palesi. Quando finalmente Sherlock compare sulla soglia del soggiorno, a te sembra un’apparizione frutto delle tue più fervide fantasie. Però lui c’è davvero, ti grida la parte razionale del cervello ovvero la stessa che crede a vista e udito e che è sicura che il profumo che si spande lievemente nell’aria, non sia un’invenzione. Sherlock è tornato. Da te. Il cappotto è slacciato e la sciarpa che puzza di sigaretta è annodata al collo, le guance sono arrossate e il fiato è corto come se fosse reduce da una maratona. A colpirti, però, non è l’idea che lui sia corso fin qui e che lo abbia probabilmente fatto senza fermarsi, è il suo sguardo a trafiggerti e a farlo con una violenza tale da farti sussultare. I suoi occhi sono come impregnati di una sofferenza violenta e che gli straborda da ogni poro della pelle, un male che non riesce più a tener dentro e che rischia di esplodere. E a quel punto, la tua rabbia inizia a crescere.
«Sei qui» sussurri, mostrando un contegno che non hai idea di dove tu riesca a trovare. Eppure la tua voce è ferma e il tono è saccente e superiore, come se per te fosse stato ovvio che un giorno sarebbe venuto a cercarti. Non lo era. Non è mai stato un concetto scontato, ma adesso non hai bisogno di pensarci. Non è il momento giusto. Perché più lo vedi camminare in tua direzione, più fremi d’aspettativa e sei eccitato nonostante i suoi movimenti siano ben lontani dall’essere seducenti. Sherlock è sbrigativo, quasi violento, viene da te perché è ciò di cui ha necessità e non si bea di ogni istante come invece faresti tu. Ed è proprio per quel fare quasi disperato, che capisci che è un fratello ciò che gli serve. Il pensiero, in effetti, ti rattrista e non perché non riuscirai a soddisfare le tue perversioni più malate, ma perché non sei mai stato in grado di interpretare quel ruolo. Ritieni che sia relativamente semplice prendersi cura di qualcuno utilizzando le risorse del governo, invece di fare affidamento sulla propria sensibilità. Anche adesso non hai idea di cosa dirgli, né di come comportarti per far sì che si possa sentire meglio. Tutto ciò che sei in grado di fare, dopo che lui ti si china tra le gambe, è tremare. E poi fremere, una volta che solleva il viso e inizia a guardarti, fissandoti con quel paio di occhi zuppi di male di vivere. Non hai parole da donargli. Puoi concedergli soltanto gesti d’affetto, quelli che sai essere naturali tra consanguinei e che al tempo stesso ti sono sconosciuti. Tentare è tutto ciò che ti rimane e quindi allunghi le dita, tremano e sono gelide, ma Sherlock ugualmente non si scosta e si lascia accarezzare la guancia arrossata. Il tocco è rapido, fugace, quasi impaurito e subito ti ritrai, nascondendoti. Ti vergogni di ciò che hai fatto, nonostante non ci sia stato nulla di osceno. Il fatto è che sono sufficienti i pensieri; vero? E nel tuo subconscio, una stilla di desiderio erotico c’era eccome. Si tratta di niente, forse una goccia appena di possessione data da quei ricordi ancora freschi che fino a poco fa ti invadevano la mente. Era un nulla, un pensiero inesistente e che è tanto potente da farti sentire un verme. Che diavolo c’è di sbagliato in te, Mycroft? Cosa? Non sei mai riuscito a comprendere te stesso e stasera non ci riesci neanche con lui. Lui che ti accetta e non ti scaccia, che non ti grida contro, ma semplicemente fissa in rimando. Da buon vigliacco quale sei, non riesci un solo istante a sostenere il suo sguardo e quindi presto distogli il tuo, fingendo interesse verso un focolare che per te non esiste. A tradirti è uno strano miscuglio di fattori, il cui comune conduttore è l’imprevedibilità. C’è innanzitutto il tuo corpo e poi le abilità deduttiva di Sherlock, il quale comprende tutto grazie ad una fugace occhiata. A dire il vero (e ci tieni a ribadirlo perché sì, riesci ad essere odioso persino in questa situazione) non è difficile sapere quale emozione stai provando, visto che le tue barriere non funzionano. La deduzione è pertanto a prova di idiota. Le gote ti si sono tinte appena rosso, e la fronte si è increspata a causa dei tormentati e contorti pensieri che fai. E lui ancora ti guarda e, anzi, ora pare aver accentuato la presa e ti stringe le ginocchia con vigore. Non chiede niente. Non pretende di conoscere le radici dei tuoi tormenti e ammetti che in parte ciò ti solleva. Già, peccato che in altrettanta buona parte l’atteggiamento che tiene ti provochi irritazione perché, al solito, Sherlock ha un comportamento enigmatico. Capire lui, stasera, è molto più difficile che capire te stesso. Sta soffrendo e ciò è palese, ma perché non si scosta ai tuoi occhi? Perché non ti aggredisce smorzando sul nascere i tuoi lascivi pensieri? Sei certo d’aver già visto quell’espressione languida sul suo viso ed è stata proprio in quell’unica notte, ma di sicuro ti sbagli e noti soltanto ciò che vuoi vedere. È un’altra illusione e tu sei sempre più intrappolato in una gabbia di seta. La verità? Sherlock ha odiato quella notte e ha odiato te, e ti odia ancora. E quindi perché? È solo affetto fraterno ciò di cui è in cerca? Come hai detto tu stesso, Mycroft, non sai cosa voglia dire fare il fratello: può essere che significhi anche questo ovvero abbracciare e toccare senza che ci siano altri fini. Ovvio che è così. Abbracciarsi innocentemente è la normalità, sei tu quello malato. È tentando di capire che pertanto inizi a spiarlo, voltando appena il viso verso di lui. Ha uno sguardo già incredibilmente differente da quello che aveva poco fa, ora si è fatto quasi severo, ancor più austero e carico di un contegno che non riesce più a tenere montato. E quegli occhi, oh cielo, in loro nome faresti ogni cosa! Uccidere o cambiare il mondo, innanzitutto. Potresti addirittura farti strada sino all’inferno e tutto per poterlo rivedere un’ultima volta, come una sorta di moderno Orfeo. Probabilmente la similitudine ti si addice, pensi. Orfeo: coraggioso, ma debole. Prode, ma allo stesso tempo dominato da una speranza irrazionale, da fantasie quasi fanciullesche ed oltremodo sciocche. A distoglierti da quegli assurdi pensieri, è proprio Sherlock che appoggia la testa riccioluta sulle ginocchia e sospira lievemente. Non ricordi nemmeno come si faccia a respirare fino a che non ti rendi conto che sta stringendo di molto la stoffa della tua vestaglia. Ora sta piangendo ed è come un silenzioso fiume in piena, che scorre inarrestabile. Se ne vergogna e detesta l'essere costretto a mostrartisi così debole, eppure non riesce a nascondersi. Non ne può fare a meno. In buona parte, la disperazione pare la stessa di quando è morto Redbeard. Il pianto è similare e proprio come in quel tempo lontano, a tratti lo senti cercare di trattenersi dal singhiozzare. A differenza di quando eravate bambini e tentavi di capire quale senso ci fosse dietro il piangere tanto per la morte di un cane, ora vieni assalito da una rabbia cieca. Un’ira che ti deconcentra e non te lo puoi permettere, non ora. Solo Sherlock conta in questo momento, solo quel fratello che ha messo da parte una buona fetta di orgoglio per essere lì da te e che in nome del dolore che prova, ha accantonato ogni cosa, persino la sua ritrosia all’esprimere un sentimento. Lui così troppo sensibile, ma chiuso allo stesso tempo, deve vergognarsi terribilmente di quel che ti sta facendo vedere. Tu però non lo noti nemmeno. Sei accecato dall’odio e hai quasi voglia di andare da John Watson e picchiarlo con tutta la furia di cui sei capace. Non lo fai. E non che te ne manchi il coraggio o che tu non possieda la brutalità necessaria, ma sei pietrificato. Tutti i tuoi sensi e le tue attenzioni, si sono focalizzate sul fiato caldo che percepisci distintamente attraverso seta dei pantaloni del pigiama, così come sulle lacrime silenziose che gli imbrattano le guance.

«Perché non sei lui…» La sua non è nemmeno una domanda, realizzi in un frangente. Non capisci se non abbia bisogno di chiedertelo oppure se stia semplicemente tentando di convincere sé stesso, in ogni caso non si premura di spiegarti ciò che intende. Forse sa che si tratta di una fatica inutile, dato che tu sai a prescindere. Ma anche se non fossi tanto intuitivo e svelto nei ragionamenti, lo sapresti lo stesso perché della vita di tuo fratello conosci ogni singolo anfratto. E dopo istanti di muto silenzio durante il quale lo senti riversare tutte le sue lacrime, tu ancora sei senza parole. Ancora frustrato dal non riuscire a parlargli nel modo corretto e dal non poter neanche vendicare il suo dolore. Sei quasi imbarazzato, tanto che gradiresti davvero che la questione si chiudesse qui e che tu non debba essere costretto a rispondergli. Ignorarsi sarebbe l’ideale. Tuttavia è il tuo stesso corpo a tradirti, e per la seconda volta in pochi minuti. La tua mano, quella che nemmeno lo sapevi, ma gli stava accarezzando la nuca con movimenti lenti e inutilmente rassicuranti, ha smesso di toccarlo. E le tue dita sono rimaste appena un poco impigliate tra i ricci scuri, nell’esatto istante in cui ha pronunciato quelle parole. Ciò che ti ha detto non ti piace e detesti persino il fatto che non possiate semplicemente sorvolare.
«Parla!» Seppur lo dica sussurrando, il suo è praticamente un ordine e così come fai di solito, ti ritrovi ad obbedirgli. Anche se a modo tuo. È a quel punto, infatti, che la tua rabbia muta e l’odio verso John Watson assume una forma lievemente differente e diventa ira verso tuo fratello. Ovviamente è tutto falso, non detesti il dottore e nemmeno Sherlock. Eppure sembra che tu non voglia vedere la verità e semplicemente esplodi, inveendo contro l’unico essere sulla faccia della terra a non meritare alcun male. Ti eri ripromesso che non avrebbe mai sofferto per mano tua, non dopo quell’unica volta in cui voi… però hai fallito di nuovo. Pare tu non riesca a centrare neanche un obiettivo.

«Non chiedermi di essere la sola cosa che non posso diventare» pronunci, con voce severa. «Pretendi tutto e lo otterrai, ma non domandarmi l’impossibile. Non dirmi di essere John Watson. Non lui.» Hai urlato, e tremato di rabbia perfino. E la mano che prima era ancorata al bicchiere, ora lo stringe fino allo spasmo tanto che le nocche sbiancano ed il liquido contenuto all’interno prende a traballare pericolosamente. In tutta risposta, tuo fratello si alza di scatto allontanandosi da te con velocità. Per un momento temi addirittura che se ne voglia già andare e di aver rovinato tutto, ma appena ti rendi conto che non ha oltrepassato la soglia del soggiorno e che si sta reggendo allo stipite della porta e lì si è fermato, tiri un sospiro di sollievo. Non vuole fuggire a Baker Street. Se è lì, è lì per te e vuole restare. E l’idea ti scalda il cuore.

«Io lo amo.» Lo stridio del bicchiere che ha sfregato appena sulla superficie del tavolo, è quasi assordante perché inonda un ambiente carico di un silenzio che a tratti è addirittura opprimente. Un graffiare lieve sul legno del tavolo e per voi è come un grido, tanto che Sherlock sussulta e il suo reggersi si fa ancora più saldo. Non ha detto nulla che già tu non sapessi, ma sentirtelo confessare in questo modo e con voce sussurrata, quasi si trattasse di un segreto ignobile, ti ha fatto male quanto una stilettata in petto. Lo sapevi, lo leggevi di continuo nel suo sguardo e in parte ne eri affascinato. Ammaliato da Sherlock e dal suo modo di amare infantile, innocente, puro e bellissimo. Deve aver dato così tanto a John Watson, che ora a stento riesce a reggersi in piedi per quanto si sente stupido e vuoto. Pare, in fondo, che Sherlock Holmes sia qui per i motivi che credevi o, per meglio dire, che non speravi. Avrà bisogno di un fratello maggiore e tu è esattamente ciò che sarai. Darai al tuo pirata, la sua Tortuga. [3] Per questo motivo lo raggiungi e lo fai con fare deciso e svelto, niente momenti che ne pregustano altri. No a cazzate poetiche, nessun ammirarlo come se si trattasse di una scultura di Michelangelo. Ci sei solo tu che ti occupi di lui come il fratello che, di certo, non ha mai avuto. Da oggi sarai ciò che non sei mai stato, lo hai deciso. Quindi, rapido, gli levi il cappotto e lo riponi sullo schienale della poltrona assieme alla sciarpa e alla giacca del completo. I bottoni di una camicia zuppa di sudore e bagnata di quello che ti pare alcol, saltano uno dopo l’altro fino a che finisce a terra, depositandosi con un lieve fruscio. Per quanto tempo hai sognato di compiere simili gesti un’ultima volta? Molto più che spesso nell’arco degli ultimi quindici anni. E ora che finalmente lo stai spogliando, non c’è una sola stilla di malizia nei tuoi pensieri. Incredibilmente stoico per un perverso, non c’è che dire. Ti piacerebbe accarezzargli le braccia, ma eviti il contatto fisico al meglio che puoi e quasi ti senti più sollevato, dopo che lo copri con la tua vestaglia. Poi sorridi, appena senti la sua mano intrecciarsi alla tua e farlo con una presa decisa, ma dolce. Come quando eravate bambini e ancora tu non eri il pazzo che sei diventato. È una stretta delicata e infantile, identica a quando lui era solo lo Sherlock un po’ vivace che giocava con Redbeard. Provi addirittura un senso di nostalgia, malinconia per ciò che avresti potuto essere e che invece non sei mai risuscito a diventare. A salvarti dall’abisso, stanotte, per tua fortuna, c’è lui. Te ne devi occupare e non hai tempo per te. Stai per decidere cosa fare, magari Sherlock vuole riposare e potresti accompagnarlo nella stanza degli ospiti, ma inaspettatamente è proprio lui a trascinarti via. E quando lo vedi stendersi sopra al copriletto della tua camera asettica e spoglia, il fiato ti si spezza per davvero e a stento riesci a trattenerti. Sei pietrificato e tutto ciò che riesci a fare, è ammirarlo. Devi ammettere che è splendido come un tempo, illuminato appena dalle luci che provengono dall’altra stanza, possiede una sorta di bellezza pura ed eterea che ai tuoi occhi lo fanno sembrare come un angelo. Ha i capelli spersi sul cuscino, gli occhi chiusi ancora umidi e quella mano che non ha smesso un istante di essere intrecciata alla tua, ha una presa ben salda. Ti tiene stretto con determinata fermezza, imponendosi su di te quasi fosse il capriccio di un bambino. Sta soffrendo, è evidente e il dolore per rifiuto dev’essere lancinante quanto insopportabile, e non fa altro che farti sentire impotente e stupido. Vorresti avere i mezzi per curarlo, ma non esiste medicamento per il mal d’amore, non c’è maniera di rimettere assieme i pezzi di quel cuore di vetro finiti chissà dove, perduti in un’anima forse eccessivamente fragile. Il tempo cura ogni cosa, lo diceva tua nonna e tu non sei mai riuscito a cogliere il reale significato di quelle parole. Non sai il motivo, ma ti ritorna in mente proprio adesso e l’idea che fra qualche tempo, Sherlock si sarà disinnamorato di John ti pizzica appena il cuore. In realtà non gli passerà mai. Però starà meglio, questo è certo. Non sai di preciso da quale dettaglio tu sai riuscito a dedurne il cuore a pezzi piuttosto che l'anima svuotata, ma hai come il sentore che non ci sia rimasto poi molto in Sherlock. Che abbia esaurito ogni sentimento e ora è stanco e sfatto, sfinito. Chissà da quanto tempo sta soffrendo. Da quanto sta patendo. Sai che inizialmente, l’idea di Mary lo aveva turbato. Successivamente il matrimonio lo aveva reso nevoso e aveva fatto quanto in suo potere per non darlo a vedere (tranne che a te, ovviamente). Ma un figlio dev’essere stato impossibile da gestire. L’immagine di un John felice non per merito suo e che si occupa di una famiglia in cui lui è e sarà sempre di troppo, è stato eccessivo. L’ultimo anno e mezzo dev’essergli crollato addosso tutto in una volta e non deve aver retto il contraccolpo.
«Fa male l’amore, piccolo Sherly» sussurri, mentre prendi posto, sedendoti sul ciglio del materasso proprio accanto a lui. Laddove ti ha chiesto di sederti con un lieve cenno del mento. Non dovresti. Sarebbe meglio se lo lasciassi dormire e te ne allontanassi una volta per tutte. Eppure cedi. Perché sei debole e sciocco, infinitamente stupido e odiosamente innamorato. Rinunci al tuo stoico resistergli per via di quegli occhi e della maniera in cui ti guardano. Hai detto che faresti di tutto in loro nome, sì, ogni cosa. Tranne che resistergli. Quindi siedi al suo fianco mentre lui, ancora, non smette di tenerti stretto e, anzi, hai la sensazione che ti stia attirando a sé. E cedi, cedi di nuovo, cedi perché sei vile e debole e in un attimo le sue labbra sono sulle tue. Per quanto tu tenti di divincolarti, sei intrappolato in una prigione di seta.



Fine prima parte
 


[1] Pièce: è un sinonimo di opera (intesa come teatrale). Una Pièce teatrale non appartiene al genere della commedia, quanto piuttosto a quello del dramma.
[2] Il mito di Orfeo ed Euridice in due (?) parole: Euridice muore. E Orfeo per riaverla di nuovo con sé, decide di scendere all'inferno ritrovandosi ben presto alla presenza di Ade e Persefone. Il mito racconta che il canto di Orfeo è così commuovente, che le Erinni e persino i signori dell'inferno si sono commossi, decidendo quindi di accontentarlo. Ad Orfeo viene quindi concesso di portar via Euridice, a patto che durante il viaggio, lui non si volti mai a guardarla. Mito di Orfeo.
[3] L’isola di Tortuga è un’isola dei Caraibi, dalla ricca storia legata ai pirati. Qui, tutte le info.
   
 
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