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Autore: Tigre Rossa    08/05/2015    2 recensioni
“Cosa farai da grande, Sherlock?”
“Il pirata.”
“Io non ti vedo come un pirata. Tu sei più simile ad un cavaliere, un eroe. Un ammazzadraghi, anzi."
. . . .
“Se io fossi un cavaliere, tu combatteresti davvero al mio fianco?”
“Non devi neanche chiederlo, Sherlock. Io sarei al tuo fianco ovunque, in qualsiasi situazione. Saremo solo io e te, contro il resto del mondo.”
. . . .
“La prossima volta che vuoi cacciarti in altri guai, inseguire criminali o smascherare serial killer, prima chiamami. Se fai di nuovo una cosa del genere da solo, ti prometto che ti ammazzo sul serio, e non me ne frega niente se c’è l’intera Inghilterra a guardarci, ok?”.
. . . .
" Ti giuro, John, che se ti azzardi a morire vengo a riprenderti all’Inferno e ti riporto a Londra a suon di calci.”
. . . .
“Mi stai chiedendo di condividere un appartamento con te?”
. . . .
“Grazie di aver mantenuto il tuo giuramento, John. Grazie di essere tornato da me. Grazie di non essere morto.”
. . . .
“Non permetterò mai più che tu sia in pericolo, John. Te lo giuro. Mai più.”
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Just the two of us against the rest of the world



 

E saremo ancora io e te, contro il resto del mondo . . .
 (Sherlock, BBC)
 



 
 
“Cosa farai da grande, Sherlock?”.
Il giorno in cui John gli fece quella domanda, erano solo due bambini.
Avevano rispettivamente sette e nove anni e, come facevano quasi tutti i pomeriggi, si erano rifugiati nella loro piccola roccaforte segreta, che avevano costruito in un angolo nascosto nel giardino degli Holmes. Era il loro covo, il loro nascondiglio. Passavano lì quasi tutte le loro giornate, quando non andavano in giro alla ricerca delle più incredibili avventure e dei guai più pericolosi.
Sherlock era seduto per terra ad accarezzare Barbarossa, il cane che l’amico gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno, e John era steso a pensare sull’amaca che i due erano riusciti a fare entrare a stento.
Sherlock lo guardò, sorpreso per un attimo da quella domanda improvvisa, per poi rispondere senza alcuna esitazione “Il pirata.”.
Il biondo si voltò verso il più piccolo, corrugando le sopracciglia. “Il pirata? Sul serio?” fece stupito.
“Certo.” annuì con sicurezza l’altro, gli occhi azzurri persi nel vuoto “Voglio andare continuamente in cerca di avventure, anche quando sarò grande. Navigherò per tutti i mari con il mio veliero e sconfiggerò tutti i più grandi corsari del mondo. Sarò Sherlock, il terrore dei sette mari.”.
John lo scrutò, un po’ confuso da quella affermazione così decisa. Sapeva che l’amico aveva una vera e propria ossessione per i pirati, ma non pensava fino a quel punto.
“Io non ti vedo come un pirata, una persona capace di torturare, rubare, ingannare ed uccidere.” obbiettò “Non veramente. Sei troppo buono.”.
Sherlock si girò a sua volta verso l’amico, fissandolo come se avesse appena detto la più grande delle idiozie “Io buono? John, mi stai confondendo con qualcun altro.”.
Il più grande scosse la testa, sicuro di ciò che aveva appena detto “No. Tu sei buono, Sherlock. Un po’ arrogante a volte, ed indelicato, e maleducato, ma buono, in fondo.”
Per un attimo, rimase a fissarlo con i suoi grandi occhi color del mare, come se volesse leggergli dentro l’anima e tirare fuori quella bontà che a lui sembrava così evidente, e poi  continuò con un filo di voce “Tu sei più simile ad un cavaliere, un eroe. Un ammazzadraghi, anzi.”.
Il sopraciglio di Sherlock si sollevò così tanto da finire nascosto dai suoi riccioli scuri “Non esistono più, John.” ribatté freddamente.
“Nemmeno i pirati.”
“Si, invece.”
John scosse la testa, divertito dalla testardaggine dell’amico.
“Ok, lasciamo stare. Comunque, se tu fossi un cavaliere, io sarei il tuo scudiero, il tuo compagno. Ti accompagnerei ovunque e sfiderei con te i peggiori pericoli. Ti aiuterei ad uccidere qualsiasi drago. Sarei al tuo fianco, sempre e comunque.” disse con aria sognante, tenendo gli occhi fissi nei suoi.
Sherlock, a quelle parole, sentì come un fuoco caldo avvolgergli il cuore e una strana sensazione stringergli l’anima, una sensazione mai provata prima.
John abbassò gli occhi sul pavimento, un po’ imbarazzato per quello che aveva detto, e i due rimase in silenzio per un po’, ognuno perso nei propri pensieri, fino a quando il più piccolo non chiamò l’altro per nome.
“John?”
Il biondo sollevò di nuovo lo sguardo per incontrare i suoi occhi, e fu sorpreso di vederli così luminosi, ma anche stranamente titubanti.
“Dimmi.”
Sherlock esitò per un attimo, mordendosi l’interno della guancia, e poi chiese “Se io fossi un cavaliere, tu combatteresti davvero al mio fianco?”.
John spalancò gli occhi, ma fu solo per un attimo. Subito dopo sorrise, uno di quei sorrisi che riservava solo all’amico, scese dall’amaca e si sedette accanto a lui, senza staccargli mai lo sguardo da dosso.
“Non devi neanche chiederlo, Sherlock. Io sarei al tuo fianco ovunque, in qualsiasi situazione.” Il sorriso di John, se è possibile, si fece ancora più grande. “Saremo solo io e te, contro il resto del mondo.” sussurrò dolcemente, prendendo al mano dell’amico e stringendogliela appena, in un gesto insolito per entrambi ma stranamente piacevole.
“Bau!” abbaiò  Barbarossa, fissando quasi con aria offesa i due bambini.
I ragazzini scoppiarono a ridere e, mentre il moro accarezzava il pelo rossiccio del cucciolo con la mano libera, John si affrettò ad aggiungere “Io, te e Barbarossa, ovviamente.”.
Sherlock sorrise e accarezzò l’amico con lo sguardo.
Avrebbe volentieri rinunciato al mare e agli arrembaggi, se questo significava avere una vita avventurosa al fianco di John. Ed anche a molto di più.
 
 
Prima di vedere arrivare il pugno, Sherlock lo sentì.
Dritto, violento, doloroso, tirato con ferocia proprio al centro dello stomaco.
Il tredicenne non poté fare a meno di piegarsi su sé stesso come un ramoscello spezzato, mentre dalle labbra pallide gli sfuggiva un impercettibile gemito.
I ragazzi minacciosi che stavano attorno a lui sorrisero, con quello spregevole piacere che solo gli esseri più malvagi provano nel ferire gli altri, ed iniziarono a tempestarlo con altri mille pungi e calci, ed alcuni a colpirlo con dei corti ma robusti bastoni.
Sherlock non restò inerme, anzi. Strinse i denti con aria feroce e cercò di difendersi, tirando più colpi che poteva e tentando allo stesso tempo di sottrarsi alla loro violenza.
Ma era solo, circondato da ragazzi grossi il doppio di lui, e il taglio appena sopra l’occhio che gli avevano inferto sbattendolo contro il muro poco prima e che continuava a bruciare e a sanguinare come il suo orgoglio non era certo d’aiuto.
I colpi si fecero sempre più violenti, fino a quando il moro non finì a terra, steso sul marciapiede di quel vicolo buio.
Gli aggressori scoppiarono a ridere di gusto e si strinsero attorno a quel corpo coperto di lividi che si ostinava a non cedere. Sherlock chiuse d’istinto gli occhi, come un cane randagio ferito a morte e spinto all’estremo.
Il capo del gruppo alzò di nuovo il bastone, pronto a terminare quella lezione di crudeltà, ma una voce rabbiosa lo bloccò a mezz’aria.
“Lasciatelo stare!”
I ragazzi si voltarono verso il proprietario della voce, irritati da quella interruzione improvvisa, mentre Sherlock spalancò di scatto di occhi e si sollevò malamente sui gomiti, stupito ed allarmato.
“John!” sussurrò senza fiato.
Un ragazzino biondo, minuto, dai profondi occhi blu colmi di rabbia, stringeva i pugni con forza e fissava con aria feroce gli aggressori.
“Lasciatelo stare!” ordinò di nuovo il biondo, trapassandoli con lo sguardo uno per uno. Negli occhi gli brillava una luce crudele, feroce, coraggiosa, una luce che per un attimo fece indietreggiare il gruppetto. Ma fu solo un attimo.
Subito dopo, infatti, il capo dei bulli sorrise malignamente.
“Ne vuoi anche tu, Watson?” sibilò divertito, lanciando dietro di sé il bastone ed avvicinandosi di un paio di passi a lui come uno sciacallo pronto a mietere una nuova vittima.
Con un movimento fulmineo, estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un coltellino a serramanico dall’aria terribilmente affilata e se lo rigirò tra le dita, senza che il sorriso divertito gli abbandonasse il volto. “Accomodati pure. Dubito però che il tuo viso avrà lo stesso aspetto, dopo.”
Il volto di Sherlock perse il poco colore che aveva, e il ragazzo tentò di alzarsi per intervenire, ma il resto del gruppo subito lo afferrò, lo immobilizzò e per buona misura uno di loro gli tirò un altro pungo in volto.
“Fermo, Holmes, dopo ce ne sarà anche per te.” gli sussurrò all’orecchio, senza trattenere una risatina di scherno “Adesso tocca al tuo amichetto.”.
John lanciò all’amico un occhiata fulminea, così veloce che solo lui poté coglierla, ma bastò ed avanzò per comprendere ciò che voleva dire.
Tieniti pronto.
Il moro annuì appena.
Watson riportò la sua attenzione al bullo che aveva davanti e lo guardò con aria da sfida, facendo scrocchiare rumorosamente le nocche delle dita.
“Dubito che il tuo viso avrà lo stesso aspetto, Alex [1].”
Alex, così si chiamava il ragazzo, ringhiò sommessamente e si lanciò contro il biondo, pronto a fargli pagare cara quell’insinuazione.
Quello aspettò fino all’ultimo momento e poi si spostò con una velocità impressionante di lato.
Prima che l’altro potesse reagire, gli afferrò il braccio armato dal polso con una sola mano e glielo piegò dietro la schiena, costringendolo a lasciare il coltello dal dolore, che afferrò con la mano libera per poi puntarglielo al collo.
Contemporaneamente Sherlock, sfruttando la distrazione dei suoi aggressori, che stavano fissando la scena inorriditi, si liberò di quello che lo immobilizzava pestandogli il piede e poi tirandogli una serie di pugni e gomitate in pieno viso, e subito dopo riservò un trattamento simile ai altri.
I ragazzi, presi alla sprovvista dall’improvvisa reazione del moro e vedendo la pessima situazione in cui si trovava in loro capo, decisero di tagliare la corda e scapparono di corsa fuori dal vicolo.
John sorrise ironicamente e premette il coltello più vicino alla pelle di Alex, che stava iniziando a sudare freddo.
“Hai degli amici molto fedeli, vedo. Ti hanno lasciato totalmente solo, alla nostra mercè. Amicizie così non si trovano certo tutti i giorni.” gli sibilò all’orecchio, la voce ridotta ad un sussurro rauco “E adesso cosa ne facciamo di te, eh, Alex? Dovrei farti tutto ciò che hai fatto poco fa al mio amico, anzi, molto di peggio, direi. E potrei farlo. Dopotutto, ho io il coltello dalla parte del manico, nel vero senso del termine.”
Non c’era allegria, né voglio di scherzare, nella voce del biondo. Era furioso, veramente furioso. Fece scorrere il coltello lungo il collo del ragazzo, che deglutì. Stava decisamente iniziando a sudare freddo.
Con un movimento quasi impercettibile, John gli fece un taglio abbastanza profondo sullo zigomo e lasciò la presa del braccio, indietreggiando e continuando a puntargli il coltello contro.
Alex emise un piccolo gemito e si portò la mano alla ferita, voltandosi verso il biondo che lo scrutava con aria seria.
“Peccato che io non sia come te.” ringhiò John, mentre i suoi occhi blu bruciavano come fiamme “Vattene, prima che cambi idea. E non azzardarti mai più a toccare Sherlock. Ci siamo capiti?”.
Il ragazzo indietreggiò di un paio di passi, mentre lo sguardo andava ripetutamente dal coltello al viso mortalmente freddo di John, annuì una volta, scosso dai tremiti, si voltò e seguì di corsa i suoi compagni, con la mano ancora premuta sul taglio.
Il biondo tenne lo sguardo fisso su di lui fino a quando non scomparve alla sua vista, poi abbassò l’arma e si voltò, con il viso che finalmente poteva manifestare tutta la sua ansia, verso Sherlock, che si era accasciato a terra e cercava di riprendere fiato.
“Sherlock, stai bene? Stai bene?” domandò preoccupato John, inginocchiandosi di fronte a lui e scrutando le sue ferite con aria allarmata.
Il moro annuì, mentre cercava di prendere abbastanza fiato per rispondere “Si, sto bene. Sto bene John, davvero.” rispose, poiché vedeva che l’altro non ne era del tutto convinto “Piuttosto, tu stai bene?”.
“Io? Certo, sto bene.” tagliò corto Watson, mentre il suo viso si faceva scuro alla visto del taglio e del sangue sul volto dell’amico. Gli sollevò il volto con fare autoritario ed osservò attentamente la ferita sanguinante, imprecando tra sé e sé.
Sherlock alzò gli occhi al cielo “John, te l’ho già detto, sto bene. Non è niente, davvero. Piuttosto, come sapevi che . . .?”
“Eri in ritardo, così mi sono allarmato e sono venuto a cercarti.” il biondo strinse le labbra, senza distogliere lo sguardo dal suo volto malconcio  “Per cos’era, stavolta?” domandò, trattenendo a stento altre imprecazioni tra i denti.
Non era la prima volta che i ragazzi della loro scuola prendevano di mira Sherlock, né era la prima che lo picchiavano. Ormai i due ci avevano quasi fatto l’abitudine.
Quasi, però.
Il moro si strinse nelle spalle simulando noncuranza, per quanto l’ingiustizia appena subita gli bruciasse ancora dentro come un incendio senza fine.
 “Il solito, lo sai. Avrò fatto qualche deduzione di troppo stamattina a scuola, o semplicemente si annoiavano e hanno deciso di divertirsi un po’ con me.” sollevò gli occhi al cielo “I soliti cretini. Mi picchiano perché sono più intelligente di loro.”
“Ti picchiano perché sei diverso [2], Sherlock.” ribatté l’altro, sollevandosi da terra senza staccare gli occhi dalla ferita dell’amico “Ma, dopotutto, è questo che ti rende straordinario. Dai, andiamo a casa, quel taglio va medicato.”.
Il giovane Holmes si alzò a sua volta, sbruffando.
“Ti ho già detto che non è niente, John.”
“E io ti ho già detto di alzare il culo e muoverti, Sherlock.”
 
Poco dopo, i due erano nel minuscolo salotto dell’ancora più minuscolo appartamento di John. Sherlock continuava a lamentarsi ed a muoversi, mentre l’altro tentava con scarsi risultati di medicarlo.
“Vuoi stare fermo?” sbruffò John, dopo aver tentato per la nona volta di fila di iniziare a suturare la ferita “Altrimenti ti ricucio il taglio senza usare alcun antidolorifico, e farò in modo di inserire l’ago il più dolorosamente possibile.”
Holmes alzò gli occhi al cielo, ma finalmente si decise a stare fermo il minimo indispensabile per permettere al biondo di inserire l’ago e cominciare a suturare.
I due rimase così in silenzio per un po’, John tutto concentrato sul suo lavoro, mentre ricuciva la pelle velocemente ma con mano delicata, come suo padre gli aveva insegnato da bambino, e Sherlock che lo fissava con i suoi spettacolari occhi di quel colore indefinito ma incredibilmente mozzafiato.
Scene simili non erano insolite, per i due adolescenti.
Lui si infilava nei guai più incredibili o veniva attaccato e picchiato nei momenti più insospettabili, e John, puntualmente, interveniva in suo aiuto, pronto sempre a difenderlo con i denti e con gli artigli, quasi si trattasse della sua stessa vita.
Era una cosa che ancora stupiva il giovane Holmes.
Quella sua continua fedeltà. Quel suo coraggio incrollabile. Quel suo intervenire sempre, senza la minima esitazione. Quell’amicizia così gratuita, così genuina, così . . . così pura. Non gli era mia capitato di vivere una cosa simile. Non a lui.
Lui era sempre stato isolato, fin da quando era piccolo. Era stato ed era ancora quello ‘strano’, quello diverso, quello da cui tutti si tenevano alla larga. Non aveva mai avuto amici, ed in un certo senso nemmeno li aveva cercati. A che pro cercare un legame destinato a non durare, un legame a cui, a quanto pareva, non era destinato?
Eppure, con John era diverso.
Con John era sempre stato diverso, fin dal giorno in cui si erano incontrati per la prima volta.
Lui non credeva che fosse strano, pazzo o da tenere alla larga. Lui si fidava di lui, correva rischi incredibili per lui, si batteva per lui, lo proteggeva, gli voleva . . . gli voleva bene.
Era una cosa nuova, per Sherlock, completamente nuova. Per quanto ormai si conoscessero da anni, non riusciva ancora a farci l’abitudine. Né poteva credere che una persona come John Watson avesse scelto come amico uno . . . beh, uno come lui.
“John?”
“Mmh.”
“Credi davvero che io sia straordinario?” domandò Sherlock, non senza un po’ di esitazione nella voce.
John alzò di colpo lo sguardo e guardò stupito il moro, certo di aver sentito male “Come, scusa?”.
L’altro sbruffò, infastidito “Mi hai sentito.”
Il biondo rimase in silenzio per qualche secondo, scrutandolo con i suoi occhi blu, e poi sorrise “Io non lo credo, Sherlock. Tu sei straordinario. Anzi, sei la persona più straordinaria, saggia e migliore che io abbia mai conosciuto.”
Holmes si trovò costretto a distogliere lo sguardo ed a chiedersi cosa fosse quella specie di dolore piacevole che provava all’altezza del petto.
John gli lanciò un ultimo sguardo e poi tornò a lavorare, ma fu di nuovo interrotto dall’amico, che disse con voce seria “Oggi, quando ha affrontato Alex . . . non sembravi te stesso. Per un attimo, ho creduto di trovarmi davanti una persona completamente diversa. Sembravi me. E questo non è mai una cosa positiva.”
Il giovane Watson si bloccò e guardò di nuovo il compagno, che stavolta resse il suo sguardo.
“Gli avrei volentieri spaccato la faccia, in quel momento, lo ammetto. E se lo sarebbe meritato. In fondo, non è una buona persona.” rispose freddo.
“Ho visto i tuoi occhi, John.” ribatté l’altro “Erano occhi di una persona disposta ad uccidere.”.
John non sembrò scomporsi per quella affermazione.
“Probabilmente ne sarei capace. Si, per salvarti la vita dall’ennesimo coglione di turno, potrei uccidere. Per te lo farei.” il ragazzo riprese a suturare come se avesse appena detto una cosa di poco conto. Sherlock rimase a fissarlo, senza dire niente.
Lo sapeva. Lo sapeva fin troppo bene. Conosceva il suo John Watson, dopotutto.
“Anche io.” disse semplicemente, scostandosi qualche ricciolo ribelle dagli occhi e lanciando all’amico un’occhiata fugace.
John sorrise ed annuì a sua volta.
Lo sapeva anche lui, fin troppo bene.
 
 
John strinse i pugni, mentre mentalmente contava fino a dieci per non esplodere.
Arrivò a tre.
“Cosa diavolo ti è saltato in mente?” gridò furioso, fulminando con lo sguardo il ragazzo seduto di fronte a lui ed avvolto in una coperta arancione fornitogli da un paramedico.
Sherlock sospirò. Si aspettava una reazione simile, anche se sperava che l’amico avrebbe conservato la sfuriata per quando sarebbero stati soli. Ma chiaramente rimproverarlo di fronte a mezza Scotland Yard doveva essere una sua concezione di ‘punizione’.
“Il serial killer stava scappando John, se avessi aspettato Gavin non sarei mai riuscito a prenderlo, e il lavoro di due settimane sarebbe andato perso.” spiegò con tono annoiato, come se fosse ovvio.
Una vena prese a pulsare sulla tempia del biondo “Primo, l’ispettore si chiama Greg, non Gavin. Secondo, hai quasi finito per farti ammazzare. Terzo, che cosa ci facevi tu in un’indagine della polizia?! Non sei un agente e hai solo sedici anni, per la miseria!”.
Il giovane Holmes alzò gli occhi al cielo, come se considerasse le obbiezioni dell’amico incredibilmente stupide.
“Sinceramente, John, il suo nome non mi sembra importante, al momento. E comunque sei il solito esagerato. Era solo una pallottola e mi ha appena sfiorato.” ribatté con leggerezza, e poi continuò prima che l’altro potesse ribattere “Per quanto riguarda l’indagine, lo sai che stavo seguendo il caso da quando è avvenuto il primo omicidio, te ne ho anche parlato. Credevo di aver individuato alcune tracce da seguire, così sono andato a Scotland Yard per mettere a corrente gli investigatori dei miei sospetti, proprio come ho fatto due mesi fa con il caso del piccolo Carl [3]. Ma questa volta, invece del solito vecchio tricheco ottuso e ripieno di ciambelle, ho trovato un giovane ispettore, Lestrade Come-si-chiama, un po’ meno ottuso degli altri, ma con la stessa passione per la ciambelle, purtroppo.”
Fulminò con lo sguardo l’agente Lestrade, che, a pochi passi da lui, lo fissava offeso ed indignato, la bocca già aperta per rispondergli a tono. “Mi ha dato ascolto e mi ha proposto di collaborare. Alla fine siamo riusciti ad individuare il suo nascondiglio, ma l’assassino doveva avere un informatore, perché quando siamo arrivati stava già scappando. L’ho inseguito, chiaramente, e alla fine sono riuscito ad acchiapparlo a costo di qualche insignificante graffietto. Lestrade però si è preoccupato, ha chiamato un’ambulanza ed ha insistito affinché gli dessi il numero di qualcuno dei miei parenti. Ovviamente non avrei mai potuto dargli il numero dei miei, visto che sono in vacanza in Danimarca, e non ci pensavo nemmeno a far chiamare Mycroft, avrei smesso di vivere. Così gli ho dato il tuo, dicendo che eri mio fratello. Il che non è nemmeno una bugia, in fondo.”
Squadrò l’amico, con un guizzo d’affetto nello sguardo e un sorrisetto divertito negli occhi chiari, stringendosi appena nella coperta arancione per lo shock che aveva addosso. “Ripensandoci, avrei dovuto chiamare lui. Di certo non avrebbe tentato di uccidermi qui di fronte a tutti come tu sembri avere intenzione di fare.”
John lo fissò, gli occhi stretti in una fessura. Si, probabilmente l’avrebbe ucciso. O gli avrebbe sequestrato microscopio e provette fino ai trent’anni, pena che sarebbe stata mooolto superiore alla morte, dal suo punto di vista.
Il moro sospirò, avendo intuito i pensieri dell’amico. “D’accordo, d’accordo, ho capito. Non mi infilerò mai più in casini di questo genere. D’ora in poi, solo casi di cagnolini scomparsi o simili, ok?”.
Watson strinse i denti e poi sollevò gli occhi al cielo “Sei un idiota, Sherlock Holmes. Un dannato idiota.”.
Sherlock fece per ribattere, ma l’ansia che lesse negli occhi del biondo lo bloccò.
Si era davvero spaventato a morte, quando Lestrade l’aveva chiamato dicendo che ‘suo fratello’ Sherlock era stato colpito di striscio da una pallottola durante l’inseguimento di quel serial killer. Era arrivato di corsa, infilandosi il capotto sopra il pigiama, per poi vederlo lì, tutto soddisfatto, seduto ad aspettarlo su un muretto, circondato da due dozzine di agenti che lo guardavano stupiti e impressionati e pronto a raccontargli la sua avventura senza nemmeno preoccuparsi di quanto ciò potesse averlo preoccupato.
Era davvero un idiota, certe volte.
“Scusami, John.”
John sobbalzò, colpito da quelle parole.
“ ‘Scusami’?” ripeté lentamente, stupito “ Tu che ti scusi? Chi sei, e che ne hai fatto del vero Sherlock Holmes?”.
Il moro sorrise appena, vedendo che la preoccupazione dell’amico stava finalmente scomparendo.
“Dai, mi hai capito. Andiamo ora. Domani abbiamo scuola.” disse, alzandosi e lanciando la coperta a Lestrade, che li fissava con un sopraciglio alzato, per poi incamminarsi tranquillamente verso la strada.
John lo seguì, scuotendo appena la testa “Non pensare di cavartela così. Riferirò tutto a tuo fratello, stanne certo.”
Il ragazzo si strinse nelle spalle “Fa come credi.”.
“Sherlock.”.
Sherlock si voltò verso di lui, colpito dall’improvviso cambio di voce del biondo.
John lo guardò fisso negli occhi, seriamente “La prossima volta che vuoi cacciarti in altri guai, inseguire criminali o smascherare serial killer, prima chiamami. Se fai di nuovo una cosa del genere da solo, ti prometto che ti ammazzo sul serio, e non me ne frega niente se c’è l’intera Inghilterra a guardarci, ok?”.
Detto questo, riprese a camminare, lasciando l’amico dietro di sé, che lo seguì con lo sguardo, stupito ma con una piacevole sensazione di calore nel petto.
 
 
Quando Sherlock aprì gli occhi, per un attimo gli mancò il fiato.
John era lì, inginocchiato di fronte a lui con aria severa, e i suoi occhi blu gridavano ‘Sei morto’ in tutte le lingue conosciute e non.
Il moro fece per tirarsi su, ma lo stordimento e la nausea erano così forti che cadde di nuovo all’indietro e sbatté contro la dura parete che gli aveva fatto da giacinto per tutta la notte.
“Jawn ...” riuscì appena a mormorare, con voce lenta e roca “ Cosa . . .?”.
Il ragazzo lo fulminò con lo sguardo e lo afferrò malamente da un braccio, per poi tirarlo su.
“Non ti azzardare a parlare, Sherlock.” sibilò, facendogli mettere un braccio attorno alle sue spalle per farlo restare in piedi “Non una parola.”. La sua voce sapeva di rabbia, di dolore, e di delusione.
Il diciottenne avrebbe voluto ribattere, ma la testa gli faceva troppo male e il cervello era troppo sconnesso per riuscire a ragionare come avrebbe voluto, così ci rinunciò e si fece guidare da John verso l’uscita di quel vecchio manicomio abbandonato che era stato il suo rifugio per gli ultimi cinque giorni.
Il biondo strinse i denti e fece scorrere lo sguardo lungo i suoi capelli disordinati e sporchi, il viso pallido e senza espressione, gli occhi rossi e vuoti e la braccia scoperte, ricoperti da così tanti segni di aghi che non era possibile contarli.
“Perchè, Sherlock?” gli chiese con rabbia “Sul serio, perché? Stavi andando bene, erano mesi che non ti avvicinavi più a nessuna droga, e poi sei sparito all’improvviso. Per cinque giorni. Cinque maledetti giorni. I tuoi erano disperati, Mycroft e Lestrade hanno setacciato tutta Londra per trovarti, e io, Mike e Molly eravamo preoccupatissimi, non abbiamo fatto altro che cercarti giorno e notte ovunque. Ovunque. Credevamo che ti fosse accaduto qualcosa. Ed invece, per tutto questo tempo, tu eri qui, in questo scarto di mondo, a farti di solo Dio sa che cosa, senza nemmeno pensare a noi, a quello che ci stavi facendo passare, che mi stavi facendo passare.”.
I due uscirono all’aperto, e Sherlock dovette chiudere gli occhi per proteggersi dall’intensità della luce del sole,e forse anche per non vedere il volto deluso ed arrabbiato dell’amico.
“John . . .” sussurrò con voce flebile, senza osare aprire gli occhi.
“No, Sherlock.” lo zittì il più grande “Non azzardarti a dire che ti dispiace, che non è niente o che stai bene. Non azzardarti a dire che siamo degli enormi idioti a preoccuparci per te. Non ti azzardare, Sherlock. Ci hai fatto morire, davvero. E questa non è una cosa da prendere alla leggera. Tu non ti rendi conto che quello che stai facendo ti sta distruggendo. Non ti rendi conto che non stai facendo del male non solo a tutti coloro che ti vogliono bene e tengono a te con questo comportamento, ma anche e soprattutto a te stesso. Ti stai uccidendo con le tue stesse mani, e non possiamo permetterlo. Io non posso permetterlo.”.
Aprì lo sportello della piccola auto di famiglia e fece adagiare l’amico sul sedile del passeggero, per poi legargli la cintura e mettersi seduto al volante.
Sherlock aveva finalmente aperto gli occhi e si fissava con aria stanca le scarpe, e John rimase un po’ a guardarlo, per poi scuotere la testa e mandare un messaggio al maggiore degli Holmes per avvisarlo che l’aveva trovato.
Accese il motore, e prima di avviarsi verso la casa dell’amico si voltò verso di lui e gli disse con voce ferma “Sherlock, guardami.”.
Il moro, dopo un attimo di indecisione, sollevo lo sguardo verso di lui, e gli occhi dei due giovani si incontrarono. Il mare si fuse con il cristallo, in un’unione di sguardi e di anime, e John si trovò a sospirare.
Allungò la mano per prendere quella lunga e scheletrica dell’amico e la strinse delicatamente, come raramente faceva.
“William Sherlock Scott Holmes” mormorò, senza mai staccargli gli occhi di dosso “ tu sei la persona più intelligente e straordinaria che io abbia mai avuto la fortuna di conoscere, ma quando ti comporti così ho davvero la tentazione di prendere questa tua dannata testolina e di sbatterla contro il muro fino a quando non ci entrerà dentro un po’ di buonsenso. Non capisci davvero quanto ti stai facendo del male in questo modo? Se continui così, rischi davvero di perdere quello che fa di te te stesso, e tutti coloro che ti vogliono bene. E non dire che non ce ne sono, perché non è vero. Ci sono i tuoi genitori, che non ti hanno ancora buttato fuori di casa nonostante tute le volte che hai tentato di distruggerla, c’è tuo fratello, che pagherebbe l’intera Londra per saperti al sicuro, c’è Lestrade, che sopporta da anni le tue intromissioni nei suoi casi e ti permette di divertirti quando e quanto ti pare, c’è Molly, che farebbe davvero di tutto per te, c’è Mike, che ti sopporta dalla mattina alla sera, e poi ci sono io, che sono tuo amico da anni.” I suoi occhi brillavano, e il moro per un attimo credette di vedere le labbra dell’altro tremare “Se davvero non vuoi smettere per te, almeno smetti per le persone che a te ci tengono, per queste persone. Smettila per noi, Sherlock. Smettila per me. Ti prego.”.
Sherlock sentì un fremito all’altezza del petto, ed improvvisamente sostenere lo sguardo dell’amico era diventato veramente impossibile.
Abbassò gli occhi e rimase in silenzio per qualche minuto, mentre nella sua anima si scatenava una lotta senza precedenti.
Alla fine, strinse con forza la mano del biondo e sussurrò piano, quasi lottando contro sé stesso “Portami a casa, John.”.
John lo guardò ed annuì, mentre una sensazione di calma lo avvolgeva.
Forse, quella sarebbe stata davvero la volta buona.
 
 
“Allora hai deciso?”
Sherlock guardò John, ancora incredulo per ciò che l’amico aveva appena detto.
Il giovane uomo distolse lo sguardo, non riuscendo a sostenere quello illeggibile dell’altro, per poi annuire.
“Si. Ci ho pensato a lungo, ma ... si. Mi arruolo. Diventerò un medico militare, come mio padre. Partirò tra due settimane per l’addestramento, e alla fine dei tre anni verrò assegnato. Probabilmente ad un reggimento in Afghanistan o Iraq.”
Qualcosa, dentro Holmes, fece un lieve ma distinto crac.
Ecco, sapeva che sarebbe successo. Erano anni che l’idea tormentava John, e negli ultimi tempi era diventata così insistente che non c’era da stupirsi se alla fine aveva ceduto.
Dopotutto, avrebbe dovuto aspettarselo.
John, il suo John, sempre pronto ad intervenire in aiuto dei più deboli, a tuffarsi nelle risse più pericolose per aiutare chi era in difficoltà, a corrergli dietro durante i casi più pericolosi, a curare le sue innumerevoli ferite ogni qualvolta si faceva del male, cos’altro poteva fare nella vita, se non il medico militare?
Lui era fatto per la guerra. Bastava vederlo quando finivano in qualche rissa. Nonostante la sua figura minuta e il suo viso gentile, aveva un forza insospettabile, un sangue freddo invidiabile e una capacità di ragionare in fretta nelle situazioni di pericolo che metteva i brividi.
Ma non era solo questo.
Lui era quello che si fermava a curare le ferite degli altri, fregandosene delle sue, anche nel bel mezzo di una fuga. Era quello che rischiava la sua vita per proteggere gli altri. Era quello che poteva ucciderti e salvarti allo stesso tempo. Non l’aveva sperimentato già tante volte, in quei lunghi anni di amicizia, avventure e complicità? Quante volte era successo a lui?
John era già un soldato che salvava vite, oltre che a distruggerle. Era allo stesso tempo un demone che ricuciva ferite sanguinanti ed un angelo pronto a puntarti contro una pistola.
Era ovvio che sarebbe successo, prima o poi. Avrebbe dovuto saperlo. O per lo meno avrebbe dovuto dedurlo.
Ma allora perchè ne era così sorpreso? E, soprattutto, perché stava così male solo al pensiero?
“Tua madre e tua sorella sono d’accordo?” domandò, cercando di nascondere il fatto che lui non era affatto d’accordo.
John si passò una mano tra i capelli biondi, un gesto di imbarazzo che non ripeteva da quando era un ragazzino “Conosci Harry, basta che non le sto tra i piedi e non le faccio sparire le sue amate bottiglie e tutto quello che faccio le va bene. Mia madre all’inizio era contraria, sai, per quello che è successo a papà, ma alla fine l’ha accettato.”.
Quest’ultima affermazione suonava strana al moro. Conosceva la signora Watson, e dubitava fortemente che avesse accettato così presto di mandare suo figlio sul campo di battaglia, non dopo che suo marito era morto appena sei mesi prima proprio combattendo. Probabilmente avrebbe cercato di distogliere John dal suo intento per settimane, mesi forse.
“Quando glielo hai detto?” domandò serio, corrugando la fronte.
Il biondo si morse le labbra, preso alla sprovvista, e non rispose.
“Quando glielo hai detto, John?”.
John alzò lo sguardo verso di lui e, dopo un attimo di esitazione, rispose in un sussurro “Due mesi fa.”
“Due . . .?”
Sherlock si sentì tradito. Aveva preso quella decisione ben due mesi fa e glielo aveva tenuta nascosto, raccontandogli bugie su bugie, ingannandolo per tutto quel tempo?
“Due mesi e tu me lo dici solo ora?” la voce del moro era diventata improvvisamente roca, come succedeva ogni volta che si arrabbiava “Ora che stai per partire?”.
Il giovane Watson sollevò la testa e i suoi occhi blu incontrarono quelli feriti e insondabili dell’amico “Volevo dirtelo prima, ma . . . ma non ne ho avuto il coraggio. Non ce l’ho fatta, Sherlock. Perché sapevo che dirlo a te sarebbe stato peggio, mille volte peggio, di dirlo a Harry, a Molly, a Mike, a Lestrade o anche a mia madre. Dirti che ho deciso di arruolarmi, di partire per prepararmi a combattere su un campo dal quale forse non tornerò mai più, era l’ultima cosa che volevo fare. Perchè sapevo che non saresti stato d’accordo. E no, non c’è bisogno che tu lo dica, perchè so che è così. Te lo leggo negli occhi. E sai, neanche io impazzisco dalla gioia all’idea di lasciare tutti voi qui e forse di non vedervi mai più, ma è una cosa che devo fare. Devo farlo. Si tratta di una cosa che sento dentro, nel sangue. E non posso tirarmi indietro. Non posso né voglio.”
Sherlock deglutì, mentre la parole dell’altro gli perforavano l’anima come pallottole avvelenate.
“John, non puoi sul serio pretendere che io sia d’accordo con te.” ribatté freddamente, allargando le braccia “Te ne andrai da Londra per anni, ti allenerai in qualche scuola militare lontana ed inaccessibile che poi ti spedirà chissà dove a ricucire cadaveri e a farti sparare addosso, col rischio di morire ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo. Credi davvero che io sia felice di sapere che il mio migliore amico ha deciso di vivere una vita simile?”.
Gli occhi di John si spalancarono dallo stupore.
“Che c’è?” fece Holmes, non comprendendo il perché di quell’espressione sconcertata.
“Non mi avevi mai detto che sono il tuo .. . ” la sua voce tremò appena “ . . . migliore amico.”.
Sherlock lo fissò, non riuscendo a cogliere il significato del suo stupore “Non pensavo che ci fosse bisogno di dirlo, John. Lo sei. Lo sei sempre stato.”.
John rimase in silenzio per qualche momento, poi distolse lo sguardo e un sorriso timido si formò sulle sue labbra  “Non è uno stratagemma per farmi cambiare idea, vero?”.
Il moro arricciò le labbra, divertito “Dubito che una cosa del genere ti impedirebbe di fare quello che ti pare. Quando ti ci metti sei più testardo di me.” si rabbuì di nuovo “Ma questo non vuol dire che mi piaccia.”.
Watson alzò di nuovo lo sguardo ed incontrò il suo “Lo so, Sherlock. E mi dispiace. Non posso fare altrimenti, e lo sai. Ma ti giuro che farò in modo di tornare indietro, da te.”.
Sherlock sospirò e rimase in silenzio per una manciata di minuti.
“D’accordo.” disse infine, mentre il suo cuore si arrendeva “Ma ti giuro, John, che se ti azzardi a morire vengo a riprenderti all’Inferno e ti riporto a Londra a suon di calci.”.
John scoppiò a ridere, e Sherlock si chiese quanto sarebbe sopravvissuto, senza di lui.
 

 
 
 
La tana dell’autrice
 
E rieccomi qua!
Due parole veloci veloci, perché devo proprio scappare . . . questa inizialmente doveva essere una long, tant’è che la seconda parte di questo capitolo era già stata pubblicata come prologo di una storia con los tesso titolo, ma poi ho deciso di svilupparla come una one short, divisa però in due-tre parti per non renderla troppo lunga.
Spero davvero che vi piaccia e, come al solito, qualsiasi consiglio sarà ben accetto!
Un abbraccio
 
T.r.
 
 
[1] Piccolo ‘tributo’ al bullo che mi ha tormentato per anni insieme alla sua banda. Credo che possa essere considerata una sorta di rivincita poetica.
[2] Citazione di ‘The Imitation Game’, film che mi ha fatto male al cuore.
[3] Carl Powers, ovviamente.
  
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