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Autore: polutropaul    08/05/2015    0 recensioni
John non si accorge nemmeno dell’uomo – alto, una massa informe al posto dei capelli – che si è seduto davanti a lui e lo fissa, l’aria concentrata e leggermente divertita, come se volesse dedurre la sua vita con qualche sguardo. È il brivido che gli provoca la sua voce calda e baritonale che lo costringe ad aprire gli occhi.
“Afghanistan o Iraq?”
AU; John è un ex fotoreporter di guerra, Sherlock un modello per un'insulsa rivista locale.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Note: rieccomi, con mesi e mesi di ritardo... ma non è colpa mia, giuro: se ne avete ancora la possibilità, non scegliete il liceo classico. Non cedete alle sue lusinghe, alle sue promesse... dietro a quel lato da scuola interessante e appassionante si celano perfetti e aoristi greci. Anyway, spero mi perdonerete, miei carissimi quattro lettori: questo capitolo è leeeeggermente più lungo del precedente; speriamo sia anche gradito... Ah, e tanto per mettere le cose in chiaro: di secondo nome mi chiamo Disorganizzazione; non so quando riuscirò a scrivere e pubblicare il terzo capitolo.
Ultimissima nota, prima di lasciarvi (logggggiuro) alla lettura: i fotoreporter, è vero, non sono soldati. Piccola licenza...

“Afghanistan o Iraq?”

John apre gli occhi, piano. Il destro, poi il sinistro, con tutta la calma di cui riesce a disporre. Fissa l’uomo davanti a sé per qualche secondo – molto alto, una massa informe di capelli a coprirgli mezzo viso, incredibilmente irritante e sexy – poi distoglie lo sguardo, imbarazzato. Con l’aria confusa, come se avessero appena tentato di spiegargli la teoria della relatività usando delle carote e dei carciofi, balbetta la prima cosa che gli viene in mente: “Scusi, come?” E, ovviamente, è stupida. Tremendamente stupida, e banale quanto basta. L’altro si accorge di tutto – della sua confusione, curiosità e voglia di sapere di più, forse anche di quel misto di irritazione e riverenza che pare provare per lui – e ridacchia, vincitore.

“Dico, è evidente che sia stato in guerra, quindi: Afghanistan o Iraq?” Spiccica quelle parole ad una velocità che John non esita a pensare sovrumana, neanche stesse ripassando mentalmente la lista della spesa, mentre ha appena dedotto – dedotto? – l’unica cosa che gli sia successa di appassionante in trent’anni di vita; John non non è uno di quei congedati che amano semplicemente mostrare le proprie ferite al primo pirla di turno come coccarde, magari accompagnate da un sussurro e da una ben pensata lacrimuccia, il fatto che sia evidentemente zoppo non è altro che un problema quindi no, decisamente non ne va fiero e quella è una chiarissima uscita da stronzo, stronzo e arrogante ed è maledettamente geniale.

“Posso sapere che… come lo sa?”

Di nuovo stupido. Dio, così stupido. John Watson, fotoreporter di professione e decerebrato nel resto del tempo.

Un’altra risata sulla faccia strafottente, poi un nuovo fiume di parole: “La sua stampella è appoggiata alla sedia. Mi sono permesso di osservarla: spero sappia che è psicosomatico, perché la sua psicologa lo sa quindi la smetta di farsi spillare soldi che potrebbe usare per comprarsi un maglione per conto proprio invece che usare quell’obrobrio che le ha per forza regalato la sua ragazza; oggi la sua ferita le fa particolarmente male, immagino per il tempo. Le sue mani e i suoi polsi sono più scuri del resto del braccio; lo stesso vale per l’abbronzatura sul suo collo, che non supera la linea della maglietta. Il suo taglio di capelli e il suo comportamento sono un’ulteriore conferma: taglio militare, comportamento militare, abbronzatura militare, ferita militare. Data la sua professione, dubito fosse un soldato: forse un fotoreporter, al massimo un giornalista. Potrei controllare subito. Quindi, la domanda che segue è a dir poco elementare” e qui si ferma un attimo, riprendendo fiato e assottigliando gli occhi in uno sguardo di finta sfida “Afghanistan o Iraq?”

“Straordinario” e non si rende neanche conto di averlo detto “voglio dire, questa cosa che fa. È… grandiosa, davvero, impressionante. Un po’ arrogante, forse, decisamente poco fine - le avrei spaccato la faccia più volte. Ma impressionante” cerca di darsi un tono, inspira e tossicchia, distogliendo lo sguardo da quella bocca e quegli occhi che, immancabilmente, era tornato a fissare.

“Lo pensa davvero?” Non è sicuro. Gli ha appena spiattellato in faccia la sua condizione e non è sicuro. John non sa se ridere o darsela a gambe.

“Cosa? Cioè, sì, Dio, non – ha appena descritto la mia vita attraverso un solo sguardo quindi sì” tossisce, di nuovo “lo penso davvero. Ma glielo diranno spesso, suppongo”

“No, decisamente” e ora è lui ad abbassare lo sguardo con imbarazzo – no, con vergogna.

“E cosa le dicono, allora?”

“Fuori dai piedi.”

 E ora sì che John ride. Si piega in due dalle risate, si ferma ansimando e poi riprende a ridere.

Non ricorda di essersi fatto di qualche sostanza ma diavolo, questo ha tutta l’aria di essere un signor viaggio mentale con la V maiuscola e non è più sicuro che la sua invasione aliena sia ancora così lontana.

Perché quello non è umano, nossignore, tutto in lui non è umano: la voce, gli occhi, i capelli, il collo, le labbra…

Il modello sembra confuso, in un primo momento, poi capisce e ride anche lui fino ad avere le lacrime agli occhi.

John continua a guardarlo, senza smettere di ridacchiare.

Non c’è niente di strano, comunque: nessuno dei due si è accorto del silenzio che è calato nella stanza, segno che le riprese stanno per iniziare. Mike si avvicina, stranito da quella così poco usuale situazione: di solito la prima impressione non è quella: di solito la gente scappa, alla meno peggio…

 

“Va bene, Johnny, non vorrei interrompervi ma qui dovremmo iniziare. Non una parola, non un gesto, un movimento” li guarda, serio e professionale “quattro minuti, pensate di potercela fare?


 

Quattro minuti, anche se non sembra, sono un’eternità. Sono una canzone, sono la durata media di un intermezzo pubblicitario in televisione e di un servizio al telegiornale.

 

In quattro minuti, anche se non sembra, si notano un sacco di cose. Si possono memorizzare i dettagli fondamentali di un’immagine in un tempo dieci volte inferiore, si fa forse in tempo persino a notarne altri.

 

Ma per analizzare lui a John non ne basterebbero diecimila, di minuti. Nella sua testa il ticchettio dell’orologio, una corsa contro il tempo per imprimersi nella mente quei lineamenti così arroganti e così maledettamente geniali.

 

 

 

Venti.

 

Gli zigomi pronunciatissimi, così come le sue labbra, rendono il suo viso per niente convenzionale, di una bellezza che non può essere oggettivamente definita tale, ma che, di certo, fa restare senza parole.

 

Tanto, John non ne può dire.

 

 

 

Quaranta.

 

Gli occhi, ora li può osservare meglio, contengono ogni colore conosciuto, forse anche qualcuno tra quelli sconosciuti; sono azzurri, no, verdi, forse un po’ gialli, decisamente blu. Che, si ritrova a pensare, se fosse stato un pittore avrebbe potuto usare quelli come tavolozza e probabilmente avrebbe creato dei capolavori. Ma non è capace di disegnare, purtroppo, non lo è mai stato e, per quanto ne sa, non lo sarà mai; l’unica cosa che gli viene in mente è che sì, dovrebbe chiedergli di fotografarli, quei due pozzi, perché ogni volta che uno dei due sbatte le ciglia e per quel millesimo di secondo non sono più in contatto, si sente improvvisamente male.

 

 

 

Ottanta.

 

Si riscuote – ha dichiarato poco fa di non essere gay e questo è decisamente il modo peggiore per dimostrarlo – ma i suoi occhi rimangono incatenati ai due del modello, che ricambia il favore e penetra nel suo cervello. Probabilmente starà deducendo cosa abbia mangiato la sera della sua maturità, dove, con chi e di che colore fossero i tovaglioli.

 

John non riesce a pensare a niente.

 

 

 

Centoventi.

 

I capelli. Non riesce a definirli, si perde negli incastri e nei giochi di luce di quella massa corvina e spettinatissima che potrebbe essere degna di un Einstein o di un Beethoven, forse; poi pensa che sì, entrambi erano geni e che quindi, ed è assolutamente logico, lo dovrà essere anche lui.

 

 

 

Centosessanta.

 

Il suo collo – che sta fissando solo perché non ha di meglio da fare, per l’amor del cielo, non è gay – è slanciato e latteo, senza la più piccola imperfezione. La camicia viola attillata è leggermente aperta sul torace – ancora non gay -, pallido ma leggermente sudato.

 

 

 

Centottanta.

 

E infine le labbra. Sono grandi, quasi femminee, molto pronunciate. Non ha neanche un rimasuglio di barba sulle guance, non un accenno di baffi. Sono lì, una macchia di porpora sul bianco incontaminato del suo viso, a creare l’ultimo incastro di quello strano – e bellissimo – scherzo che è la sua figura, in perfetta sintonia con quel poco che ha potuto constatare del suo carattere, poco prima.

 

 

Duecentoquaranta.


 

Uno sbuffo da parte di Mike e il clack della videocamera che si spegne lo riportano improvvisamente alla realtà: con estrema velocità i rumori della sala – sedie che si spostano, risatine e ordini del regista – tornano a toccare le orecchie di John, prima isolate, chiuse in un mondo dove non serve proprio parlare per capirsi. Perché John l’ha capito che quello che ha davanti non sarà un uomo qualsiasi nella sua misera vita: due occhi così non si dimenticano con un battito di ciglia.

 

Ma quel mondo in cui sono stati violentemente rigettati non ha spazio per tutte quelle sfumature, per tutti quei colori, e ne deriva un imbarazzo immotivato ma decisamente palpabile.

 

John abbozza un sorriso.

 

“Allora, dedotto qualcosa di nuovo?”

 

Lui ricambia, un sorriso furbo e un lampo negli occhi.

 

“Non le darà fastidio il violino durante la notte, e neanche i miei orari. E cambiare casa le serve davvero”

 

Di nuovo, come all’inizio del loro dialogo, John è confuso. Se non la smetterà a breve di essere così enigmatico lo prenderà a pugni. Oh sì.

 

Questa volta, comunque, la spiegazione arriva da sé e John evita, con suo enorme sollievo, l’ennesima figura da idiota. “Mike mi ha detto che cerca un coinquilino. Sono nella sua stessa situazione, quindi se volesse…”

 

Cala il silenzio e con con esso cresce l’imbarazzo. Ha passato gli ultimi minuti a fissarlo e a fantasticare – ok, forse non proprio fantasticare ma insomma, è anche inutile negarlo, John è irrimediabilmente attratto da quel tipo – sulla sua faccia da stronzo e ora quello gli chiede di andare a vivere con lui? Non che la prospettiva sia così male, potrebbe essere decisamente meglio di quella topaia in cui abita adesso ma non è possibile, è troppo surreale e certe cose succedono solo nei film, lo sa.

 

“Signor… Signor? Io non so niente di lei…”

 

Mike e le sue idee folli.

 

“Se sapesse qualcosa di più, sarebbe un sì?” poi, vedendo che la sua risposta tarda ad arrivare “Io di lei so quanto basta. So che è stato in guerra, come ho già detto, so che le manca – anche questo sa la sua analista: si fidi, davvero, a minor prezzo potrei fare dieci volte meglio – e so che un po’ di avventura non le farebbe altro che bene. Inoltre, lei vive da solo e il suo appartamento è davvero troppo piccolo. Serve altro?” Detto questo si alza, come se niente fosse, annoda una sciarpa completamente blu al suo collo completamente bianco e alza il bavero della giacca.

 

“Il mio nome è Sherlock Holmes, l’indirizzo 221b, Baker Street. Si presenti domani alle cinque, se le interessa. Puntuale.”

 

John è esterrefatto, il massimo che può fare è balbettare un “sì” come risposta e assumere la sua espressione più becera.

 

Quando lo vede allontanarsi, però, prende tutto il coraggio che trova e urla “John Watson. Fotoreporter. Afghanistan”

 

Non riesce a scorgere il sorriso sul viso del più giovane, che apre la porta con l’aria trionfante di chi ha appena vinto la scommessa più grande della sua vita.


 

 


 
   
 
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