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Autore: Inathia Len    16/05/2015    4 recensioni
Me lo chiedo ancora, se ho fatto bene ad abbandonare la sua città galleggiante. E non lo dico solo per il lavoro… Il fatto è che un amico come quello, un amico vero, non lo incontri più. Se solo hai deciso di scendere a terra, se solo vuoi sentire qualcosa di solido sotto i piedi, e se poi intorno a te non senti più la musica degli dei… ma, come diceva lui, “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”. Il guaio è che nessuno crederebbe a una sola parola, della mia storia…
SherlockBBC incontra Novecento di Baricco... ai posteri l'ardua sentenza...
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Irene Adler, Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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E tutto quel tempo non tornerà mai

 

 

 

 

 

 

 

John riuscì a mettere meglio a fuoco una porzione non illuminata della sala macchine e il suo cuore perse un battito. Ma sapeva che doveva continuare a suonare… doveva riguadagnarsi la sua fiducia…

Quando finalmente la luce lo illuminò, John abbassò la tromba. Sherlock non era cambiato tanto. Certo, aveva qualche filo grigio in più tra i capelli, ma la chioma era rimasta ribelle e corvina. Indossava un vecchio frac e teneva il cravattino bianco slacciato, quasi fosse finita la serata, e scrutava John con quello sguardo mutevole e improbabile. Sembrava uno indeciso se credere o meno ai fantasmi.

-Ehi, Conn, qual è il problema, non sai andare sull’acqua?- chiese, facendo scoppiare John in una risata che significava tutto e niente. –Seriamente, ancora ti ricordi quella canzoncina?- fece, un raggio di sole che gli illuminava solo gli occhi.

-Ma che hai fatto in tutti questi anni?- domandò John, trattenendosi dal saltargli al collo. E ancora non sapeva se per abbracciarlo o per strozzarlo. Prese una cassa e la trascinò davanti a quella dove si era seduto Sherlock. Ancora gli sembrava impossibile che gli stesse davvero davanti…

-Ho suonato- rispose con sincerità quello.

-Sempre? Anche durante la guerra?-

Sembrava diverso dallo Sherlock che aveva conosciuto lui. Questo non era più il giovane genio che si fumava Moriarty o che mandava a fanculo il capitano Anderson. Non era più nemmeno il bambino che rubava le torte alla signora Hudson e imparava a leggere con Greg Lestrade. E non c’era nemmeno più traccia dell’uomo che fu quando guardò la giovane migrante, componendo. C’era una strana calma nei suoi occhi, nei suoi movimenti… era come se fosse morto e il suo fantasma, che aveva perso tutta l’irruenza della vita, fosse tornato da John per fare due chiacchiere.

-Sempre. Anche quando ormai nessuno ballava più. Anche sotto i bombardamenti. La musica li aiutata a guarire. I feriti dico- aggiunse, come se fosse necessario. Il Virginian era stata una nave ospedaliera…

– Oppure li distraeva… mentre se ne andavano all’altro mondo. Non se ne accorgevano, non se ne rendevano conto, se ascoltavano la musica. La mia era l’ultima faccia che vedevano- disse, senza nascondere una traccia dell’antico orgoglio. –Ho suonato sempre. Fino a quando la nave è arrivata qui.-

-La chiami ancora nave? A me sembra solo una montagna di dinamite pronta a saltare in aria. Un po’ pericoloso, no?- disse, cercando di indirizzare il discorso. Ma a Sherlock sembrava non importare. Lo guardava intensamente come un tempo, un leggero sorriso sul volto inclinato e l’aria seriamente interessata.

-E tu, John? Che ci fai qui con la tua Conn?-

-Io… avevo smesso per un po’. Problemi miei, ma… ma mi è tornata la voglia. Di ricominciare intendo. Ho un sacco di idee nuove, mettiamo su un duo, io e te. O addirittura una band- tentò, cercando di apparire più entusiasta di quanto fosse. In realtà, gli avrebbe anche costruito una sala di registrazioni a mani nude e murando i mattoni col sputo, se solo fosse riuscito a farlo andare via da quella cazzo di nave infarcita di dinamite. –Dai, coraggio Sherlock, vieni giù con me. Ce lo vediamo dal molo il grande botto- lo incoraggiò, ma già leggeva negli occhi il rifiuto. Non sarebbe sceso. Così come non lo aveva fatto quando era morto Lestrade, così come non lo aveva fatto per andare a trovare la ragazza, così come non lo aveva fatto quella mattina di primavera del ’31. Così come non lo aveva fatto quando era sceso lui.

-Io non scenderò da questa nave- disse con quel suo tono tranquillo che avrebbe fatto saltare i nervi a un santo, senza staccare gli occhi da John. -Tutta quella città... non se ne vedeva la fine. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? Su quella maledettissima scaletta era tutto molto bello e io ero grande con quel cappello, facevo il mio figurone e non avevo dubbi, sarei sceso, non c'era problema. Non è quello che vidi che mi fermò, fu quello che non vidi. C'era tutto, ma non c'era una fine. Quello che non vidi era dove finiva tutto quello. La fine del mondo... Ora, tu pensa: in un violino. Le corde iniziano, le corde finiscono. Tu sai che sono quattro, su questo nessuno può fregarti. Non sono infinite loro. Tu, sei infinito, e su quelle corde, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono quattro. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me ci trovo un violino con milioni e milioni di corde, milioni e milioni di corde che non finiscono mai e quelle corde sono infinite... su quelle corde non c'è musica che puoi suonare. Hai tra le mani l'archetto sbagliato: quello è il violino che suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade, ce n'era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una, a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire... tutto quel mondo, che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n'è... non avete paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormità? Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n'erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la felicità su quelle corde che non erano infinite. Io ho imparato così. La terra... quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonami, ma io non scenderò dalla nave. Al massimo... posso scendere dalla mia vita- concluse, stringendosi nelle spalle senza interrompere il contatto visivo con John. Aveva tenuto gli occhi incollati ai suoi per tutto quel discorso. E John lo aveva ascoltato. In parte lo aveva capito, in parte compreso, in parte l'aveva giudicato un mucchio di stronzate degne del miglior paraculo. Sherlock era meglio di tutto quello, migliore di quella paura che l'aveva attanagliato per anni. Bastava che scendesse con lui, che chiudesse gli occhi su quella dannatissima scaletta per non vedere l'immensità che gli stava davanti... poi ci avrebbe pensato John a lui. A insegnargli a vivere sulla terra. Sherlock gli aveva insegnato a vivere sull'Oceano, forse era venuto il momento di ricambiare il favore. Di insegnargli a vivere sulla terra.

Ma lui non sarebbe sceso.

Nonostante fossero passati quindici anni dall'ultima volta che si erano visti, sapeva ancora leggere Sherlock. Perché forse quel pazzo era anche in grado di leggere le persone, ma John era riuscito nell'unica cosa che non era mai riuscita a nessuno: leggere Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock. E quindi lo sapeva che non sarebbe sceso, che non avrebbe alzato il culo da quella cassetta di dinamite e non avrebbe ridisceso la scaletta con lui. Non gli avrebbe insegnato a vivere, non l'avrebbe portato in Gran Bretagna, non gli avrebbe fatto conoscere sua madre e non sarebbero stati, quella sera, nel suo piccolo appartamento sopra il ristorante italiano a ridere e a scherzare. Perché la vita non ti da il lieto fine se ti innamori di un caprone con la testa più dura del marmo.

E allora John pianse. Pianse perché un amico, un amore così, non lo ritrovi. Pianse perché ci aveva messo quindici anni a capirlo, ma non voleva una vita senza Sherlock. E pianse perché Sherlock non gli avrebbe mai permesso di rimanere lì con lui, di morire lì con lui. Perché anche se non lo avrebbe mai ammesso e forse nemmeno lo sapeva, era la persona più bella e più altruista che avesse mai vissuto. E il mondo non avrebbe mai saputo nulla di lui, non più. La guerra si era portata via il suo ricordo, la gente non parlava più del violinista che non suonava le note normali sul Virginian e aveva battuto l'inventore del jazz... ora c'era solo John a conservare la sua memoria e quando non ci sarebbe stato più lui...

-In fin dei conti, è come se non fossi mai nato- sussurrò Sherlock, forse per tirarlo su. Ma riuscì solo a fargli scendere più lacrime da quegli occhi che non erano vecchi, ma che erano stanchi come quelli di Matusalemme. -Sei tu l'eccezione, John, solo tu che sai che sono qui... E sei una minoranza, non ti resta che adeguarti. Perdonami amico mio, ma io non scenderò.-

John si accartocciò su se stesso, crollò come gli immani iceberg del nord fanno quando c'è troppo caldo, e si piegò. Incassò la testa sul collo, strinse i pungi, chiuse forte gli occhi... ma le lacrime continuavano, il suo sguardo tremava perché non c'era più nulla da fare. Perché non c'era mai stato nulla da fare e lui era solo un fesso che si illudeva. Ma faceva male lo stesso. Anzi, forse faceva ancora più male. E Sherlock se ne stava lì, di fronte a lui, immobile. La testa leggermente reclinata da un lato, lo sguardo sottile e allo stesso tempo aperto, gli occhi impossibili che osservavano John come a volerselo imprimere nella mente.

E rimasero lì in silenzio per i tutti i minuti che rimanevano a John, lui che cercava inutilmente di frenare le lacrime e Sherlock che lo guardava, tranquillo e composto come era sempre stato.

Poi capirono che era arrivata la fine. E non perché uno dei due gliela diede su e si alzò in piedi, o perché qualcuno venne a chiamare John... no... fu come se entrambi l'avessero sempre saputo. Come se da quel primo incontro, da quella prima volta che avevano davvero parlato, spalando carbone e stupendosi a vicenda, come se da quella volta entrambi avessero saputo che sarebbe finita così, nel ventre di una nave, tra chili e chili di dinamite. Che sarebbe finita in tragedia, quella storia che sarebbe potuta essere tutt'altro e nient'altro al tempo stesso.

Si alzarono in piedi e si misero uno di fronte all'altro, sicuri e impacciati come bambini e vecchi. Poi ci fu l'abbraccio, la stretta che nessuno dei due voleva che finisse e che allo stesso tempo cominciasse. Perché era l'inizio della fine, era una prima e un'ultima volta. Si guardarono intensamente, incatenarono gli occhi per un ultima volta e poi allacciarono le braccia, i corpi, in un incastro che, si scopriva solo allora, era perfetto.

John si aggrappò al frac di Sherlock, lo tenne stretto e affondò il viso nella sua spalla, ispirando quell'odore di mare e dopobarba che solo lui aveva. E Sherlock fece lo stesso, lasciando cadere per un attimo la maschera di serenità e accettazione che aveva indossato da quando avevano cominciato a imbottirgli la nave di dinamite. Con John era sempre potuto essere se stesso, era l'unico... ma questa era l'ultima volta e John doveva ridere, non piangere.

Così si staccò lentamente, forzandosi, lasciando andare la sua ancora. Non lo voleva, ma andava fatto. E John lo guardò con quel suo sguardo emozionato che voleva dire tante cose... Sherlock le sapeva tutte, le sapeva perché erano le stesse che avrebbe voluto dire lui. Ma c'è un tempo per parlare e uno per dirsi addio. Avevano avuto il tempo per parlare, ne avevano avuto tanto... e alla fine non avevano mai detto niente. Sempre a riempirsi la bocca con parole importanti e poi alla fine si perde il succo vero della conversazione. Quindi era il momento dell'addio.

E John, quelle cose non dette, le sentì tutte nella presa di Sherlock sulle sue braccia. Il cuore gli si fece ancora più pesante. Doveva andarsene, era la cosa da fare, Sherlock non lo avrebbe voluto lì nel cuore dell'esplosione... così prese a salire la scaletta, la sua Conn in mano e la gola secca. L'unico rumore nell'aria era quello prodotto dalla suola delle sue scarpe che cozzava contro il metallo, quasi un feroce promemoria di quello che stava facendo. Sapeva che Sherlock lo stava guardando, sentiva il suo sguardo sulla schiena e avrebbe voluto più di ogni altra cosa voltarsi e prendersi almeno quell'unico bacio che... ma non sarebbe cambiato nulla. Sherlock non sarebbe sceso. Non l'aveva seguito la prima volta quindici anni prima, non lo avrebbe fatto ora, non dopo quello che gli aveva detto. Nemmeno dopo le cose non dette.

E così si aggrappò al corrimano, fece presa con le dita e andò in su, passo dopo passo. Poi la voce di Sherlock, che lo fece fermare tra un gradino e l'altro.

-Ehi, John.-

Fa che abbia cambiato idea, fa che abbia cambiato idea, fa che abbia cambiato idea...

-Già me la vedo la scena, arrivato lassù- disse Sherlock, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e l'aria nuovamente tranquilla. No, non aveva cambiato idea. -Quello che cerca il mio nome nella lista e non lo trova. “Come ha detto che si chiama?”- fece, imitando alla perfezione la voce del vecchio capitano Anderson, riuscendo a far spuntare a John un mezzo sorriso tra le lacrime. - “Novecento” “Nortarbartolo, Nosini, Novalis...” “E' che sono nato su una nave” “Come?” “Sono nato su una nave. E ci sono anche morto. Non so se risulta là sopra...” “Oh, naufragio?” “No. Sei quintali e mezzo di dinamite. BUM!”- disse, mimando il gesto dell'esplosione con le mani e gonfiando le guance. E John rise, come uno scemo. Perché era quello il vero addio, Sherlock che lo voleva allegro nonostante tutto. Riprese a salire con la voce di Sherlock che lo cullava, che gli dava il ritmo. Era più facile, ora che non c'era più un silenzio di morte ad accompagnare i suoi passi. - “Tutto bene ora?” “Oh, sì, benissimo. Ci sarebbe solo la faccenda del... sa, si è perso un braccio, nell'esplosione” “Si è perso un braccio?” “Eh, già...” “Beh, dovrebbero essercene un paio di là. Quel è che si è perso?” “Il sinistro” “Ahia” “Sarebbe?” “E' che c'abbiamo solo due destri. Nel caso lei avrebbe problemi a...” “A... cosa?” “No, dico, a prendere un destro...” “A prendere un destro piuttosto che un sinistro? Mah, in linea di massima direi di no. Meglio un destro che niente...” “E' quello che dico anche io. Aspetti che glielo vado a prendere. Ce ne abbiamo due, uno bianco e uno nero” “No, no, per carità, tinta unita, tinta unita. Nulla contro i neri, ma...” Sfiga- riprese, con il suo tono normale, finendo lo spettacolino. E si fermò anche John, arrivato all'ultimo pianerottolo che lo separava dall'ultima rampa di scale prima dell'uscita. -Tutta un'eternità a fare la figura dello scemo. Ti immagini a fare il segno di croce? Non si saprebbe mai quale usare!- commentò, riuscendo persino in una risata non nervosa che trascinò John con sé. -Però, sai che musica con quelle mani... due... destre... se solo trovo un violino...- finì in un sussurro, lo sguardo perso chissà dove. Poi riportò lo sguardo su John e agitò piano la mano, facendogli “ciao”. Voleva dire che era finita?

John riprese a salire. Mancavano pochi gradini ormai, poi sarebbe dovuto scendere, avrebbe dovuto dire a Mycroft Holmes che non era vero che c'era qualcuno a bordo, che si era sbagliato, che erano liberissimi di far saltare la nave. E quando avesse sentito il botto, quando il Virginian fosse saltato... allora avrebbe saputo che era la fine. Anche se, come diceva Sherlock, non si era mai fregati finché si aveva da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla. E John avrebbe fatto così, avrebbe scritto, avrebbe suonato, avrebbe parlato di Sherlock a chiunque lo fosse stato ad ascoltare. E anche a chi non voleva. Perché un uomo così, non andava dimenticato.

Era ormai arrivato in cima, due erano i gradini, se allungava la mano poteva già aprire la porta...

-Sai, John, c'è una cosa che non ti ho mai detto. Una cosa che avrei sempre voluto dire ma non ho mai detto e... e dato che è piuttosto improbabile che ci rivedremo, forse è meglio se te la dico ora.-

Di nuovo quella voce.

John si voltò piano. Sherlock aveva di nuovo lo sguardo fisso su di lui, probabilmente lo aveva guardato per tutta la salita. Aveva parlato piano, quasi borbottato, con quella sua voce profonda e che ti scavava dentro. E John aveva quasi paura di sentire cosa avesse da dire, perché... perché forse lo sapeva, perché era lo stesso che avrebbe voluto dire lui e...

-Sherlock, in realtà, è un nome da donna.-

Ma, ancora una volta, lui riuscì a spiazzarlo. E questa volta John rise così tanto che gli tornarono le lacrime, ma erano di gioia. Perché si sentiva fortunato ad aver conosciuto quell'uomo, quell'idiota.

-Non è vero- riuscì a replicare, asciugandosi gli occhi.

-Ci ho provato- si strinse nelle spalle, nascondendo un sorriso. -John, posso chiederti una cosa?-

Lui annuì.

-Quando scenderai da qui, lo so che vorrai andare il più lontano possibile e, in parte, lo capisco. Ma solo in parte, perché per il resto centra con dei sentimenti, quindi...-

-Vai al punto- lo spronò John. Ora che sapeva dell'inevitabilità della fine di quella storia, voleva che arrivasse il prima possibile. Perché lo torturava con quelle chiacchiere?

-Voglio che tieni gli occhi fissi su di me, sul Virginian. Ti prego, lo faresti per me?-

E John si sentì crollare il mondo addosso. Di nuovo. Ancora. Troppe volte nella stessa giornata. E pensare che dodici ore prima era solo uscito di casa per vendersi la tromba... Ma Sherlock non gli poteva chiedere una cosa del genere, non ora, non prima della...

Provò ad articolare cosa, ma fu solo un balbettio senza senso quello che gli uscì dalla bocca.

-Cosa? Io non... no...-

-Addio, John- disse Sherlock e John capì che era davvero finita.

 

 

 

 

 

 

Alla fine era tornato al negozio. Che altro avrebbe potuto fare? Frank non gli aveva detto nulla, non gli aveva chiesto nulla. Lo aveva visto arrivare, le lacrime che ancora scorrevano sul suo viso e aveva capito. Era vecchio, Frank, non scemo. Aveva sentito l'esplosione e aveva visto il volto di John. Non serviva una laurea per capire che nessunissimo Sherlock avrebbe girato l'angolo con lui.

E ora se ne stavano seduti in negozio. Era esattamente come la notte prima, eppure nulla era uguale.

John se ne stava accasciato su uno sgabello, il capello calato sul viso e gli occhi piantatati a terra. Sembrava invecchiato di almeno cent'anni.

-Tu cosa avresti fatto al mio posto?- chiese a un certo punto, la voce che sembrava venire diretta dall'Oltretomba.

Frank si strinse nelle spalle.

-Non lo so... francamente, mi sarei sentito inutile- ammise alla fine, la radio che dietro di loro ciarlava di cose inutili e faceva pubblicità a prodotti per la casa. Tutto sembrava normale, eppure non lo era.

-Prima o poi le storie finiscono. E non c'è altro da aggiungere- mormorò John, alzandosi e facendo per salutarlo. -Comunque, grazie nonno.-

In negozio c'erano un paio di clienti che curiosavano tra i pianoforti e... e ce n'era uno che, in un angolo, accordava un violino. Se ne stava di spalle, nell'unico posto non illuminato del negozio. Aveva un lungo cappotto nero che John avrebbe potuto giurare di aver già visto anni prima, gonfiato dal vento sulla scaletta di una nave. Era un tipo slanciato e sembrava saperci fare, con quel violino. Muoveva le mani con rapidità e precisione, la testa leggermente inclinata... e i suoi capelli erano ricci e neri, John era pronto a metterci la mano sul fuoco.

Sentì Frank dire qualcosa alle sue spalle, ma le sue parole vennero coperte dal rumore del suo cuore, che gli era balzato in gola. Sarebbe stato da Sherlock, no? Rispuntare fuori quando uno meno se lo aspettava... non era quello che era successo quel giorno? Non era quella la giornata delle cose impossibili?

Poi il violinista si girò, ma il suo sguardo non si posò su John, bensì su Frank che era dietro di lui. Ma il castello di carte di John era già crollato. Quello era un ragazzo, non un uomo che aveva superato i quaranta da un pezzo. E i suoi occhi erano neri, i capelli castani... no, non era Sherlock. Sherlock era morto. Aveva visto l'esplosione, aveva fatto come lui aveva voluto, se n'era stato ritto al porto fino a quando non avevano portato il Virginian al largo e quello non era colato a picco, spaccato in tanti piccoli pezzi. E Sherlock era a bordo. E nessuno si sarebbe potuto salvare da una cosa del genere. Non sarebbe tornato e, prima John se lo fosse messo in testa, meglio sarebbe stato. Non sarebbe sputato fuori da una torta dicendogli sorpresa.

-Mi scusi- disse il ragazzo, urtando John nel raggiungere Frank. -Questo violino, mi potrebbe dire se...-.

-È un ottimo modello- John sentì dire dalla propria voce.

Il ragazzo e Frank si voltarono verso di lui interrogativi.

-Io... io suono la tromba, con i violini ho poco a che fare, ma... conosco... conoscevo un violinista niente male. E usava proprio quel modello lì, quindi... io glielo consiglio- concluse in fretta. -Beh, scusate l'intromissione, me ne vado. Non fate caso a me- borbottò, lasciando i due al violino.

Quasi gli faceva male andarsene, le mani nel cappotto e il cuore pieno. Sapeva che non sarebbe stato facile, ma la sera prima credeva che i suoi motivi sarebbero stati diversi. Perché non avrebbe più avuto la sua tromba, perché avrebbe venduto l'ultima cosa che lo ancorava al suo passato... e invece ora...

-Ehi, Conn.-

La voce del vecchio lo fermò che era già uscito, ma era ancora sulla soglia. Teneva in mano la sua tromba, con tanto di custodia.

-Tienila- disse, porgendola a John che la rifiutò imbarazzato.

-No, io...-

-Oh, in culo i soldi!- ghignò Frank. -Una bella storia vale più di qualche spicciolo.-

-Okay, nonno- fu l'unica cosa che riuscì a dire allora John e l'altro sapeva che in quelle due piccole parole era racchiuso un mondo. Frank avrebbe voluto poter fare di più per quel giovanotto che gli aveva dato molto di più che un racconto lungo una notte, ma sapeva che John non avrebbe accettato. Nemmeno una cosa misera come assumerlo nel suo negozio. Doveva andare per la sua strada, doveva trovare se stesso, crearsi un'identità indipendente. E ricordare Sherlock. Quello sì che andava fatto...

E allora rimase a guardarlo fino a quando la sua figura non divenne un puntino lontano, appena riflesso dalle pozzanghere superstiti di quella notte. Lo guardò e sperò con tutto se stesso che quella non fosse la fine anche per John Watson, ma che potesse essere un nuovo inizio. Perché aveva ancora tanto da dare al mondo, tanto da raccontare... e aveva tutte le carte in regola per farcela.

 

 

 

 

È dinamite quella che hai sotto il culo, fratello.

Alzati e vattene.

È finita.

Questa volta è finita davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inathias' nook:

E così siamo arrivate alla fine. Avrei davvero voluto concludere con le parole di Baricco, lasciarle così in sospeso... Ma ci sono dei grazie da dire e io non sono tipo che si tira indietro. Soprattutto una volta arrivati alla fine. 

Innanzitutto, un ringraziamento a Just Izzy, la beta da me più bistrattata nell'universo. Questa storia è nata anche per te, quindi grazie. Se l'università non mi uccide del tutto, prometto che sarò più presente. 

Poi c'è SherrySmith, alla quale va una mia personalissima standing ovation per aver recensito puntualmente ogni mio aggiornamento, per avermi detto di continuare quando questa storia era solo un prologhetto... Grazie davvero tanto. Sei una delle poche (perché dire "l'unica mi metteva tristezza) che ha commentato dall'inizio alla fine. E quindi questo prologo è anche per te.

Un salutone a Smaugslayer e Maya98. La prima perchè è una "vecchia fan" (spero leggerai affetto in queste parole), la seconda perché è davvero una gran persona. Spero che quando riuscirai, ti finirai di leggere la storia e vedrai questa dedica... sapendo che non ti ho dimenticata.

E infine, grazie a te, lettore o lettrice temerario, anche solo per aver letto o aperto per caso questa storia, finendo per appassionarti. Se vuoi commentare o lanciarmi dei pomodori (anche se preferirei fossero cucchiaiate di Nutella) ti aspetto nella sezione recensioni.

E così si conlude anche il nostro viaggio, come quello del Virginian (ma noi non saltiamo per aria, okay?). E' stato breve, ma a me è piaciuto. E spero sia stato le stesso per voi e sarà lo stesso per quanti (se mai ci saranno) che leggeranno questa storia tra un po'.

Grazie davvero a tutti per esserci stati,

alla prossima

I.L.

  
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