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Autore: Water_wolf    18/05/2015    9 recensioni
{ Calipso/Leo | DystopianWorld!AU | Happy Birthday AxXx! }
Leo e Calipso vivono in un mondo dove hai tredici cifre tatuate sull'avambraccio sinistro, e quei numeri sono il tempo che ti rimane da vivere. Se sei povero, hai la chiave di un'esistenza breve e con poche gioie. Se sei ricco, hai la chiave dell'eternità. E chi detiene le chiavi dell'amore?
♣♣♣
Pensò: sembro un completo idiota? Pensò: cosa diavolo ci faccio qui?
(Pensò: mi sono drogato e ora sono così fatto da non ricordarmelo più?)
♣♣♣
«Ti ricordi parecchi dettagli di venerdì scorso, per aver bevuto tanto.»
«Mi ricordo anche che tu non dovresti essere qui, Leo Valdez.»
«
Touché.»
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Calipso, Efesto, Frank/Hazel, Leo Valdez
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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NdA: tutto ciò che scriverò qui sarà molto più breve di questa kilometrica fic. Primo: è il compleanno del mio compare AxXx, yuuu-uuuh! (Stai diventando vecchio, amico mio!) Questa fic è per lui, è il mio regalo per lui. Spero piaccia a lui quanto piaccia a voi. Secondo: il banner meraviglioso l'ha fatto Graeca, partecipando a questo idea regalo. Terzo: sì, ho rielaborato il mondo del film In Time e l'ho usata per la Caleo plasmando tutto come più mi andava. Sarebbe troppo lungo spiegare le ragioni di ogni mia scelta, per cui, se vi interessa, recensite/contattatemi su uno qualsiasi dei miei profili. Come ho già detto prima, la fic è davvero lunga, ma potete leggerla come se fossero capitoli, dal momento che ci sono vari intermezzi. Causa tempo Ax non potevi nascere domani no eh non sono riuscita a fare una rilettura completa, quindi spero che sia tutto coeso in ogni caso hahah Non vi tedio oltre, enjoy!

 




GLI BRUCIAVANO GLI OCCHI PER LA STANCHEZZA, MA LEO NON POTEVA STROPICCIARSELI.
Con una mano reggeva un vecchio librone e con l’altra la torcia che gli permetteva di leggere; era sommerso dalla coperta e stava soffocando, là sotto, eppure non poteva togliersela, perché la luce avrebbe dato fastidio a suo padre. Se avesse anche solamente accennato il più piccolo dei movimenti, l’equilibrio che era riuscito a mantenere faticosamente fino a quel momento si sarebbe spezzato.
Cavoli, pensò Leo. Avrebbe dovuto procurarsi uno di quegli elmetti da minatore con torcia incorporata sulla fronte. O avrebbe dovuto costruirlo. Uno di quegli aggeggi gli sarebbe tornato utile, quando decideva di stare alzato tutta la notte a leggere.
Leo sbadigliò.
Non era colpa del libro, di quello non si sarebbe stancato mai. Era una sorta di “manuale del meccanico”, una specie di guida che suo padre aveva iniziato a scrivere di suo pugno quando era più giovane e non aveva finito di completare. Racchiudeva tutti i segreti del mestiere, ma non solo: conteneva le sue osservazioni sul lavoro, la sua devozione, il suo amore per esso. Non era raro che comparissero progetti, bozze, idee scarabocchiate a fine pagina.
A margine, poi, c’erano le note e le aggiunte di sua madre. Era stata la prima a leggere quei fogli e a decidere di raccoglierli in quel librone, per tenerli tutti insieme e per poterli conservare, in modo che si tramandassero di generazione in generazione. La sua calligrafia spuntava soprattutto nelle parti complicate, o nelle spiegazioni, e correggeva o chiariva alcuni passaggi. A volte, invece, erano solo domande, quesiti rimasti irrisolti.
L’unica pagina completamente scritta da lei era l’abbozzo di un progetto, qualcosa che riguardava conteggi in grande scala e conteneva così tanti numeri che a Leo andava insieme la vista, se provava a studiarli per più di un minuto.
Leo aveva iniziato a ripercorrere i passi dei suoi genitori da quando era stato in grado di leggere e comprendere ciò che era riportato in quella sorta di Bibbia che ogni buon meccanico avrebbe dovuto consultare. Oh, e da quando aveva afferrato il senso delle tredici cifre tatuate all’interno del suo braccio sinistro, ovviamente. Come dimenticare quel piccolo dettaglio?
Leo fu costretto a coricarsi nel momento in cui rilesse per tre volte lo stesso paragrafo senza avere la minima idea di quello che le lettere impresse sulla carta volessero dire.
Richiuse il libro, spense la torcia e li poggiò sul pavimento. Fece scivolare entrambi sotto il letto, lì dove erano al sicuro. Si sdraiò sul materasso e si sistemò meglio il lenzuolo. Abbassò le palpebre e non le risollevò fino allo squillo della sveglia.
 
 
Viveva in uno dei quartieri più poveri di Los Angeles. Si svegliava alle 6.15 ogni mattina. Andava a scuola. Aiutava il padre all’officina. La notte, leggeva il manuale. Nel tempo libero, costruiva piccoli macchinari con gli scarti che trovava in giro.
Era un’espressione divertente, nel tempo libero. Come se una persona normale avesse davvero del tempo da sprecare, da dedicare a se stesso o per fare altro che non fosse garantire la sopravvivenza dei suoi cari.
Be’, già, c’erano persone ricche che potevano permettersi questo e altro. Tipo vivere una centinaia d’anni. Ma comunque.
Quando la sveglia trillò, Leo cercò di spegnerla facendo scivolare un braccio da sotto le coperte, però le sue dita erano troppo corte e non riuscirono a raggiungerla. Nello sforzo di allungarsi, si sporse troppo fuori dal letto e finì per cadere a terra. Probabilmente, la caduta lo svegliò più del martellio incessante.
Strisciò sul pavimento, le gambe ancora mezze avviluppate nel lenzuolo, e raggiunse con fatica la sveglia. La spense.
Steso a terra, si concesse un paio di minuti per schiarirsi le idee. L’aura di tranquillità che si era creata intorno a lui si ruppe quando suo padre grugnì e scostò le coperte con un movimento secco. Leo sospirò e si alzò.
Tirò su le tapparelle sgangherate, sbattendo le palpebre per abituarsi al cambio di luce. Lasciò che suo padre utilizzare per primo il bagno, quindi accese il tostapane e ci ficcò dentro due pezzi di pane da far dorare. Recuperò dalla credenza un barattolo con un dito di marmellata sul fondo, una scatola di cereali integrali già aperta e il pacchetto del caffè. Mise sul fuoco la caffettiera e si andò a vestire.
Tutte le sue azioni erano calcolate, frutto di una routine rimasta invariata da anni. Non ci impiegava poi molto, non doveva neanche muoversi in diverse stanze. Viveva in un monolocale in cui c’era spazio solamente per lui e suo padre; Leo ci scherzava su, diceva che, se fosse stato più alto, il loro appartamento sarebbe risultato drasticamente più piccolo.
Il tostapane suonò, e Leo si affrettò a sistemare le due fette su un piatto, attento a non scottarsi. Suo padre uscì in quel momento dal bagno, così si diedero il cambio.
Leo non cercò nemmeno di domare la massa di riccioli scuri che gli ricadevano da tutte le parti, mentre si spazzolava i denti con lo spazzolino che possedeva da quando aveva tredici anni. Si risciacquò la bocca, chiuse l’acqua e tornò in sala.
Suo padre gli aveva lasciato una fetta di pane tostato, ma aveva finito la marmellata, così ne intinse un angolino nel caffè. Masticò lentamente, osservando i movimenti del genitore. Come ogni giorno, controllò che le cifre sul braccio sinistro non si fossero abbassate in modo anomalo, ma quelle non presentavano nessun cambiamento sospetto. Non per questo, però, Leo non avvertì l’abituale ondata di sollievo.
Suo padre non sarebbe scomparso all’improvviso. Non se ne sarebbe andato senza lasciare traccia. Non l’avrebbe abbandonato prima di sei anni.
Non era molto, ma andava bene così. Rispetto a molti altri suoi amici e compagni di classe, poteva ritenersi fortunato.
Suo padre si schiarì la voce. «Dovrai fermarti a fare la spesa, dopo scuola. Stiamo finendo tutto, a quanto vedo» disse Efesto.
«Già» confermò Leo. «Okay. Va bene.»
«Non so se le banconote che abbiamo ti basteranno per l’intero conto» continuò il padre, dopo una breve pausa.
Leo bevve un sorso di caffè per celargli l’espressione del suo viso. «Okay» ripeté.
Efesto annuì.
Terminarono insieme di fare colazione, dopodiché presero con sé l’occorrente per il lavoro e la scuola. Suo padre gli porse dodici banconote senza guardarlo negli occhi. Leo accettò senza dire nulla e le ripiegò nella taschino della camicia bianca, parte dell’uniforme scolastica. Era un colore che rendeva la sua carnagione ancora più scura, ancora più sporca, come non mancavano di ricordargli le insegnanti.
Leo si mise lo zaino in spalla e iniziò a scendere le scale mentre suo padre chiudeva a due mandate la porta. Per fortuna, nessuno aveva rubato nessuna delle loro due biciclette, legate al palo della luce davanti al palazzo.
Efesto montò in sella e salutò il figlio, prendendo la strada che portava all’officina. Leo lo salutò con la mano e pedalò via, buttandosi alle spalle l’inizio grigio di quella giornata.
 
 
«Sono ventuno banconote e sessantanove centesimi.»
Leo deglutì. Porse alla cassiera le sue dodici banconote, facendole strusciare contro il bancone e nascondendole sotto il palmo fino all’ultimo momento. Sperò che nessun cliente facesse caso alla serie di battute che sarebbero seguite.
«Le rimangono ancora nove banconote e sessantanove centesimi da pagare.»
Leo si domandò come la voce di quella donna potesse essere così inespressiva. Tamburellò con le dita sul bancone. «Ho solo queste» disse.
La cassiera rimase impassibile. «Vuole saldare il conto usufruendo del tempo accumulato sul timer?»
A quella parola, un uomo intento ad esaminare dei broccoli surgelati si voltò nella sua direzione.
Leo imprecò.
Stupido tizio dei broccoli.
«Sì» tagliò corto, passandosi nervosamente una mano tra i riccioli. Errore: le dita rimasero impigliate tra i nodi, e Leo dovette strattonarsi i capelli per liberarle, agitandosi e attirando ancora di più l’attenzione.
Maledizione.
«Mi porga l’avambraccio sinistro, prego.»
Leo obbedì. La cassiera gli premette un piccolo cubo nero sul polso, e lui sentì due aghi pungergli la pelle. Osservò i numeri sul suo braccio iniziare a muoversi, prima piano, poi a una velocità impossibile da rilevare. Quando si fermarono di nuovo, la commessa staccò il cubo dal suo polso e Leo poté riavere il suo braccio.
«Le abbiamo prelevato un’ora quarantasette minuti e cinquantanove secondi dal timer. La somma degli anni che possiede rimane invariata. Questa è la sua spesa. Buona giornata.»
Leo quasi non fece caso al flusso di parole della cassiera, prese i due sacchetti di plastica contenenti i suoi futuri pasti e uscì il più in fretta possibile dal negozio di alimentari.
Mentre sistemava la spesa nel cesto della bici, si domandò distrattamente se selezionassero appositamente persone senza sentimenti per fare un lavoro che prevedeva la prelevazione occasionale di vita degli altri.
Poi il suo stomaco brontolò, e Leo decise che era più importante tornare a casa e preparare la cena.

 
CALIPSO SI PASSÒ LE DITA TRA I CAPELLI PER SENTIRE SE CI FOSSERO ALTRI NODI DA DISTRICARE – oltre a quelli nella sua vita, naturalmente.
Non ne trovò nessuno, ma continuò a spazzolarsi davanti allo specchio ancora per qualche minuto. Non aveva fretta di andare a letto; non aveva fretta di fare nulla, in verità. Conosceva a memoria le cifre tatuate all’interno del suo avambraccio sinistro. A volte, le sembrava che dicessero: «Ricorda, Calipso! Hai ancora mille anni in cui annoiarti a morte!»
Per cui, Calipso preferiva occupare quel tempo inutile pettinandosi i capelli prima di mettersi a letto. Se solo suo padre le avesse permesso di uscire di casa più spesso, di non frequentare una scuola privata, di fare beneficienza nei quartieri poveri. Si sarebbe liberata volentieri di una centinaia d’anni, in quel modo.
Certo, non voleva vivere solo trentacinque anni come la gente normale, ma neanche trascorrere un’eternità nella noia più totale. O nella sofferenza più totale.
Calipso sospirò.
Li odiava tutti, i ragazzi che l’avevano corteggiata. Andavano e venivano a loro piacimento e, quando levavano le tende, sembravano scomparire dalla faccia della Terra. E visto che lei non aveva niente da fare, li pensava sempre.
Posò la spazzola sulla toilette, gettò una rapida occhiata al suo riflesso – sempre la solita bocca, il solito naso, i soliti occhi, la solita malinconia – e si alzò. Andò alla finestra, la aprì e uscì sul piccolo balcone.
Era estate e anche l’aria notturna era calda e umida, nessun alito di vento. Calipso appoggiò i gomiti sul bordo di marmo e osservò la pallida forma della Luna, quasi soffocata dalle tenebre. Avrebbe voluto calarsi giù e scappare via, invece evase dalla villa chiedendosi se il 18 Agosto, il giorno del Trattato, ci fosse stato un clima così.
Sapeva che negli anni il tempo si era modificato parecchio a causa del surriscaldamento globale e delle guerre combattute con armi biologiche e nucleari. Ormai, infatti, New York e molte altre città della costa est erano sommerse a causa delle alluvioni. Calipso si immaginò il seicentesimo piano dell’Empire State Building – inizialmente non erano così tanti, ma l’architettura aveva fatto enormi progressi dagli albori –, il luogo dove era stato deciso il destino dell’America, spuntare dal mare. A quel tempo, si chiamavano ancora Stati Uniti.
Calipso assaporò quelle lettere sulla sua lingua, sentendo come ogni sillaba poggiava sulla sua bocca. Un giorno, uno dei suoi primi anni di scuola, aveva commesso l’errore di rivelare alla sua tutrice il desiderio di vivere in un Paese come quello. Se la ricordava benissimo, la sgridata che aveva ricevuto.
«Ma che cosa ti salta in mente? Quelle persone erano folli. Il mondo era sovrappopolato, così tanto che non si riusciva a nutrirle tutte, e gli Stati non si decidevano a prendere una risoluzione. Gli Stati Uniti rifiutarono i timer, l’unica possibilità di sopravvivenza per la popolazione. L’ONU dichiarò quella nuova legge disumana. Tsk, semplicemente pazzia. Lo capisci?»
Calipso aveva detto che sì, lo capiva. La lezione di storia era continuata senza altri scossoni.
Inconsciamente, la ragazza si accarezzò il timer. Sapeva, lo comprendeva, che era la soluzione migliore per la salvaguardia dell’umanità. Troppe bocche da sfamare, troppe poco cibo per farlo. Ma sapeva anche non era completamente giusto.
Con l’istituzione della nuova legge, le persone ricevevano un dato numero di anni e, al termine di essi, morivano. Si iniziò distribuendo una durata uguale per tutti, ma poi si procedette per meritocrazia – o, almeno, era quello che si disse di fare.
Ai vecchi, che avevano già vissuto a lungo, restarono all’improvviso un paio d’anni da vivere. Il 70% della popolazione tra i 70 e i 90 anni diminuì mostruosamente. Ai genitori rimasero una decina d’anni da trascorrere con i propri figli, per assicurare loro una carriera e un futuro migliore. Ai nuovi nati furono dati trentacinque anni da vivere appieno, prima di lasciare il loro posto ad altri.
Non era così terribile, all’inizio. Una legge crudele, certo, ma funzionava. Poi, però, le persone scoprirono che si poteva rubare la vita degli altri semplicemente stringendosi forti le mani o afferrando le braccia, succhiando letteralmente via gli anni altrui.
Ai negozi fu permesso di istituire due vie di pagamento: in banconote americane o prelevando vita dal timer. E così via per ogni altra spesa, che si trattasse di pagare il parcheggio o di un biglietto dell’autobus. Se eri troppo povero, o non lavoravi, non avevi modo di guadagnare denaro e l’unico modo rimanente per saldare i conti era dare in cambio parte della tua vita.
Senatori e politici che avevano sostenuto il progetto e la nuova legge, coloro che avevano vinto contro la resistenza dell’ONU e una delle aziende ricercatrici più potenti al mondo, l’O.L.Y.M.P.U.S, scesero a patti con Crono, il rappresentante del laboratorio scientifico che aveva teorizzato i timer, e si impadronirono di quanto più tempo poterono. Le banche offrivano servizi di sicurezza per l’accumulo di anni di vita.
Così, mentre i poveri morivano vittime o dei timer o della criminalità, Crono e i suoi collaboratori ottenevano sempre più potere. Finché lui non raggiunse la carica di presidente, fece del Trattato il suo manifesto politico e riformò l’intero Paese, plasmandolo così come ora lo viveva Calipso.
La ragazza roteò gli occhi. Era venuta sul balcone per rilassarsi, non per riflettere sull’etica e sulla politica del suo Paese. Quasi avesse parola in capitolo.
Si staccò allontanò dal bordo, rientrò nella stanza e chiuse le porte finestre. Saltò sul letto, scostò i cuscini senza grazia e si infilò sotto il lenzuolo leggero. Batté le mani e le luci nella stanza si spensero. Con un sospiro, chiuse gli occhi e scivolò lentamente nel sonno.
 

 
ARMEGGIÒ COL PAPILLON, TENTANDO DI RADDIZZARLO, MA FINENDO PER STROPICCIARLO MAGGIORMENTE.
Gesù.
Leo cercò di sistemarsi di nuovo il fiocco, fosse anche perché non riusciva a tenere le mani a posto. Gli sudavano i palmi, ma sospettava che anche ogni altro poro del suo corpo avesse deciso che era arrivato il tempo di farsi una bagno di sudore. Il papillon si disfece sotto il suo goffo tocco e gli ricadde tra le dita.
Leo imprecò a mezza voce.
Si guardò attorno in cerca di una pianta dove nascondere il suo disastro. Per fortuna, vasi enormi e di dubbia utilità costellavano i corridoi della villa, così fu facile avvicinarsi furtivamente a uno di essi e far scivolare quello che era stato un papillon tra le fronde di un bonsai.
Leo sorrise educatamente e salutò con un cenno del capo una cameriera che passava di lì. Pensò: sembro un completo idiota? Pensò: cosa diavolo ci faccio qui?
(Pensò: mi sono drogato e ora sono così fatto da non ricordarmelo più?)
Tutta colpa della magnanimità della Atlas Corporation. Atlante – da cui prendeva il nome la società – voleva celebrare in gran stile il rinnovo della carica a Presidente d’America del suo più grande amico, Crono. E perché non invitarlo a Los Angeles, mettere insieme una delle feste più memorabili dei tempi recenti e, giusto per non dimenticarsi nulla, unire al tutto dei propositi di beneficienza?
A Leo, che Crono e Atlante fossero pappa-e-ciccia, non gliene fregava un corno. Evidentemente, però, la questione lo riguardava da vicino. Le lezioni di quel venerdì mattino erano state interrotte appunto per dare l’annuncio: tre studenti estratti a sorte in ogni scuola pubblica della città avrebbero preso parte ai festeggiamenti a causa della grandezza d’animo del capo dello Stato.
Se gli avessero detto che la Luna era di formaggio, Leo ci avrebbe creduto di più.
Suo padre, al contrario, era stato felice per lui, perché avrebbe vissuto una bella esperienza. Ovvero, perché dei politici buffoni richiedevano la sua presenza pulciosa a una festa mondana solo per fare bella figura.
Vestito di tutto punto, con scarpe nuove e lucide, pantaloni eleganti, camicia bianca e addirittura un panciotto ricamato a mano sotto la giacca fresca di sartoria, si sentiva una scimmia ammaestrata spacciata per un uomo. Ridicolo. Goffo. Stupido. Inadeguato.
E, malgrado i subdoli scopi che avevano mosso le mani che l’avevano abbigliato tanto elegantemente, si sentiva anche incredibilmente e maledettamente sexy. Insomma, con una tenuta del genere, faceva la sua porca figura.
Sull’onda di quella ventata di ottimismo, si passò una mano sui capelli per assicurarsi che fossero al loro posto – le tonnellate di lacca e i kili di gel avevano funzionato, domandogli i ricci ribelli e acconciandoli in un unico ciuffo a onda che gli dava un’aria da piccolo lord. Si aggiustò il sorriso e fece il suo ingresso trionfale nella sala principale.
In un primo momento, Leo rimase accecato dalla luce dei lampadari di cristallo e dovette socchiudere gli occhi. Quando mise a fuoco, dovette trattenersi per non lasciarsi sfuggire un gridolino di sorpresa.
Okay, Leo sapeva che Villa Ogigia era un luogo ameno. Ma vederla con i propri occhi, essere testimone e fare parte di quello splendore era tutta un’altra storia.
I soffitti erano alti, la sala ariosa e grande almeno metà di un campo da football; se Leo avesse continuato a camminare, avrebbe raggiunto il percorso che costeggiava tutta la casa, le colonne corinzie che la separavano da giardino. E la stanza in sé: i lampadari di cristallo, il pavimento di marmo lucido, i tappetti raffinati, i vasi cinesi, i tavolini di legno massello… il buffet…
Inevitabile che l’occhio gli cadesse sul buffet. Un tavolo lungo, coperto da una semplice ma elegante tovaglia bianca, occupava tutto un lato della sala. Le pietanze spaziavano dagli antipasti ai dessert, senza dimenticarsi di una sola portata di mezzo. Macarons, cupcakes, piccola pasticceria erano riposti su alzatine di lucido acciaio; costine di maiale, anatra all’arancia, bistecche al sangue, salmone e merluzzo ancora fumanti erano stati disposti con cura certosina sui piatti; le tartine e ogni altra sorta di stuzzichino erano posti su piatti che i camerieri sollevavano senza sforzo e facevano girare per la sala.
I suoi compagni di sventura si erano già buttati su quel ben di dio, abbuffandosi di cibo e approfittando della cena a spese d’altri. Leo si leccò i baffi. Non c’era dubbio che li avrebbe raggiunti subito. Si avvicinò al tavolo cercando di non sembrare un morto di fame, fece scivolare la mano destra dalla tasca dei pantaloni e la allungò verso una tartina con uova di pesce. Le sue dita non la raggiunsero mai.
Un cameriere, ignorando completamente la sua presenza, sollevò il piatto da portata e si allontanò da lui verso gli altri ospiti. Leo lo osservò andare via con lo stesso stupore e la stessa meraviglia di un religioso di fronte all’apparizione della Vergine Maria.
«Avrei potuto amarti» mormorò tra sé rivolto alla tartina, scuotendo la testa.
Una risata cristallina gli fece rialzare il capo di scatto.
Le mani di Leo ebbero un guizzo nervoso. Combatté con la mascella per non farla cadere. Ordinò al suo cuore di recuperare il battito perduto, ma il muscolo non collaborava e, invece che riprendere il suo normale lavoro, accelerò le pulsazioni. Perché davanti a Leo c’era la ragazza più bella che avesse mai visto.
Indossava un abito color porpora con una sola spallina, stile greco, e una fascia di brillanti le cingeva la vita stretta. La gonna ricadeva a terra con un piccolo strascico, che celava quasi del tutto i sandali intrecciati che portava. I capelli erano raccolti in un elaborato chignon di trecce, contornato da una fascetta d’oro modellata a forma di foglie d’alloro. Oh, e il suo viso, il suo viso, colto nel momento della gioia, era qualcosa per cui i fiori sarebbero spuntati d’inverno tra il ghiaccio.
Questo stato di meraviglia durò per poco più di dieci secondi, il tempo che impiegò Leo a realizzare che la ragazza stava ridendo di lui.
Adesso, riusciva a notare l’aria snob che la circondava, l’opulenza dei suoi vestiti, la pelle abbronzata per le lampade, invece che per il duro lavoro. Era ancora stupenda, ma in modo inevitabilmente sbagliato.
«È un piacere notare di essere apprezzato da qualcuno, qui dentro» esordì Leo, lasciando che il nero umorismo trapelasse dalle sue parole senza misure.
Si voltò verso la tavolata, stizzito, e si servì una coscia di pollo su un piatto. Il profumino della carne non era abbastanza forte da impedirgli di sentire gli occhi della ragazza sulla sua schiena. Si portò il cibo alla bocca e ne strappò un grosso, succulento pezzo, masticando con la bocca mezza aperta con fare cavernicolo. Lo sguardo su di lui non vacillò.
Leo si girò di scatto verso la sua osservatrice. «Che c’è? Mai visto noi poveri abbuffarci?» sbottò.
Lei arricciò il naso. «Non ho mai visto degli uomini primitivi farlo» replicò, affatto colpita dalle sue parole.
Leo annuì più volte, ostentando ancora di più la masticazione. «Caspita! Hai un bel colpo d’occhio, sai? Senza la mia clava, di solito non mi riconosce nessuno.» Un altro morso. Si pulì la bocca con la mano, spargendosi l’unto su tutta la faccia. «Purtroppo, l’ho dovuta lasciare nella hall. Era piuttosto bizzarro vederla accanto agli ombrelli, già.»
Un cameriere comparve davanti a loro, fece una piccola riverenza, offrì dello champagne e la ragazza accettò. Si rigirò lo stelo del calice tra le lunga dita, prima di prendere un piccolo sorso.
«Potrei decidere di andarmene» disse, calma. «Lo sai, vero?»
«Nessuno ti trattiene, raggio di sole» ribatté Leo, ugualmente tranquillo.
Ma la ragazza rimase. Bevve dal suo calice.
Leo cercò di non osservare la grazia con cui lo faceva, la pienezza delle sue labbra. Con cautela, si girò di nuovo verso il buffet e si riempì il piatto, osservando il profilo della sua compagna. Notò come il lucidalabbra risplendesse sotto la luce del lampadario, come le facesse sembrare la bocca uno dei suoi diamanti. Quelle labbra dovevano essere per forza di una morbidezza incomparabile.
«Mi stai fissando.»
«Uh?» Leo quasi fece cadere il piatto tra le sue mani. «Affatto!»
«Bugiardo» lo stuzzicò la ragazza, scoccandogli un’occhiata divertita.
«Guarda che non scherzavo riguardo alla clava, raggio di sole» replicò lui, mettendosi in bocca una patata al forno intera. «Posso ancora tornare nella hall e—»
Spalancò gli occhi e iniziò a produrre strani versi dalla bocca. Mollò il piatto sul tavolo, si portò le mani davanti alla bocca e le sventolò in modo convulso. 
La ragazza sgranò gli occhi. «Cosa—?» esclamò. «Stai soffocando?»
Leo le rivolse uno sguardo supplicante, continuando quello strano balletto. «Cotta» sputò fuori, ma non  venne sentito.
La giovane stava agitandosi sempre di più, incapace di fare alcunché. «Non puoi soffocare! Non qui, non questa sera.» Si guardò attorno, in allarme.
Leo mugugnò per attirare la sua attenzione. La patata era bollente, gli stava bruciando la lingua. Che si sbrigasse!
«Agua» gli uscì, in spagnolo. «Agua.»
La ragazza quasi sobbalzò. «Acqua?» domandò. Poi capì. «Oh, Dio, era troppo calda! Tieni!»
Gli afferrò il polso e gli schiaffò il bicchiere di champagne nella mano. La giudò fino alla bocca, lo capovolse e lo obbligò a ingurgitare il contenuto tutto di fila. A Leo vennero le lacrime agli occhi, ma si sforzò di mandare giù tutto. La patata bollente gli scivolò lungo l’esofago, bruciando la strada mentre passava, e raggiunse lo stomaco. Leo emise un “ah” di dolore e sollievo insieme.
La ragazza sospirò. Si portò le mani al viso, come se volesse sistemarsi i capelli, ma questi erano già al loro posto e lei distese le braccia lungo il corpo con lieve disappunto. «Stai bene?» boccheggiò, quasi fosse stata lei in punto di morte.
«Sì.» Leo tossicchiò, massaggiandosi la gola. «Okay, sono un tipo focoso, però facevo volentieri a meno di questa prova di sopravvivenza.»
La sua salvatrice ridacchiò, nervosa.
Leo si sentì in dovere di ringraziarla. «Grazie, ehm… Com’è che ti chiami?»
La ragazza recuperò d’un colpo il suo contegno. Raddrizzò la schiena e lo squadrò dall’alto del suo metro e settantacinque. «Calipso» rispose.
«Calipso» ripeté Leo, assaporando quel nome sulla lingua. «Io sono Leo, Leo Valdez.»
«Molto piacere» concesse la ragazza, seguendo le regole di buona educazione.
«Il piacere è tutto mio» replicò lui. «Uhm, forse dovremmo stringerci la mano?»
Calipso fece una smorfia e si tirò indietro. «Io quelle manacce sudicie non le tocco.»
Oh, già. Dimenticava. La sua salvatrice era una snob di prima categoria che si scandalizzava per un po’ di unto.
«Come vuoi» fece Leo. Gettò un’occhiata malinconica al buffet. «Cavolo, mi è passata la fame.»
«Tsk.» Calipso arricciò il naso. «Ci mancherebbe altro.»
«Però, se fai così assomigli un porcellino, e più in là c’è proprio un succulento maialino da latte…»
Lei si girò di scatto e Leo fu certo che l’avrebbe schiaffeggiato. Di sicuro, lì, in quella reggia, nessuno si sarebbe mai sognato di rivolgerle il benché minimo insulto, seppur velato. Invece di portare a termine la minaccia, invece, schioccò le dita e una cameriera arrivò in un lampo al suo fianco.
«Un bicchiere di vino» comandò. «Rosso.»
«Faccia due» soggiunse lui, sorridendo apertamente.
La cameriera annuì e partì verso le cucine. Non attesero che pochi minuti i loro calici. Leo non se ne intendeva per nulla di vini – aveva bevuto al massimo qualche birretta scadente con suo padre –, ma era certo che quello che stava sorseggiando fosse di una qualità troppo elevata per essere bevuto da uno come lui.
«Dai» disse Calipso.
Gli fece cenno di muoversi verso il centro della sala e, riluttante,  la seguì. La gente altolocata si voltava a guardarli: la Bella e la Bestia, Lilli e il Vagabondo, Biancaneve e uno dei Sette Nani. Se gli sguardi riservati alla sua accompagnatrice erano di pura ammirazione, quelli rivolti a lui sfioravano il disgusto. Leo si costrinse ad ignorarle, ad andare avanti senza curarsi di quei giudizi, ma non era facile. I bisbigli gli pesavano sul collo, i commenti gli facevano prudere la pelle.
«Ti è sempre mancato il papillon?» chiese Calipso, ignorando il suo disagio.
Leo ingoiò il nervosismo. «Non stava dritto» borbottò.
La ragazza stava per commentare, ma non fece in tempo. Un uomo le mise un braccio sulle spalle e le stampò un bacio sulla fronte.
«Tutto bene, tesoro?» domandò.
«Sì. Perfettamente» rispose lei, sorridendogli. «Crono è felice della festa, papà?»
Leo strinse la presa sul bicchiere per non farselo sfuggire dalle mani. Osservò l’uomo più attentamente:
indossava un completo che doveva essergli costato una fortuna, o giusto i soldi per fare del suo condominio un hotel a cinque stelle; dimostrava poco più di quarant’anni, eppure aveva i capelli brizzolati; era ben piantato, come se fosse un militare, anche se ovviamente quello non era il suo lavoro. Non sembrava il tipo di persona che aveva bisogno di lavorare per mantenersi.
Ma era il so viso ad essere inconfondibile, poiché compariva spesso sulla prima pagina dei giornali.
Era Atlante. Colui che era il più stretto collaboratore del Presidente d’America. Colui che era implicato nella motivazione che aveva portato Leo a trovarsi nello sfarzo della sua casa.
E Calipso
Calipso era sua figlia.
Leo sentì le ginocchia tremare e temette di svenire.
«E questo giovanotto chi è, mia cara?» s’informò il secondo uomo più potente della Nazione. «Un tuo amico?»
Calipso scosse la testa, piano. «Oh, no. È qui grazie al progetto di beneficienza» spiegò.
«Ah. Capisco.» Atlante scoccò un’occhiata carica di significato alla figlia. «Qual è il tuo nome, ragazzo?»
Leo cercò di non fissarlo in modo equivoco. «L-Leo Valdez» balbettò. «È un onore essere qui, signore.»
Atlante, inaspettatamente, sorrise. Un sorriso che non addolciva affatto i suoi tratti, anzi, lo rendeva simile a uno squalo bianco. «Ne sono certo, Valdez, ne sono certo.»
Il ragazzo annuì. Bevve il suo vino, sperando che lo aiutasse a dimenticare con chi stava parlando. L’altra mano stava stringendo forte la manica della giacca, le sue dita torturavano il tessuto raffinato, i gemelli rischiavano di staccarsi.
Calipso intervenne in suo salvataggio. «Papà, stavo facendo vedere a Leo la casa. Possiamo continuare?»
«Ovviamente.» Atlante carezzò i capelli della figlia. «Più tardi, però, non perdetevi i fuochi.»
La ragazza annuì vigorosamente e gli schioccò un bacio sulla guancia. Dopodiché, prese il polso di Leo e lo tirò via. Sorrise a tutti coloro che la guardavano mentre passavano, finché non raggiunse uno dei corridoi che conduceva all’esterno e si nascose alla vista degli altri invitati.
«È stato nauseante» sospirò, appoggiando la schiena nuda a una colonna.
Leo non rispose. Vuotò il calice di vino e con mano tremante lo poggiò a terra. Si sentiva come se qualcuno gli avesse appena tirato un pugno nello stomaco.
Esalò un lungo respiro. «Non mi hai detto che eri figlia di Atlante» esordì, serio.
Calipso inarcò un sopracciglio. «Dovevo?» Il suo tono era indifferente.
«Sarebbe stato gentile, da parte tua.»
Lei rise. «Vorrà dire che non sono gentile, allora.»
Leo decise che era inutile continuare a discutere con lei. Forse era l’alcol, ma non gli importava più di tanto. Lo sapeva già dall’inizio, che quella serata sarebbe stata penosa. Si sistemò la giaccia, ma ormai una delle maniche era stropicciata irrimediabilmente. Almeno, nascondeva ancora la durata della sua vita. Se Atlante avesse visto il conteggio del suo timer, probabilmente Leo l’avrebbe piantato in asso per sfuggire al suo giudizio e al suo disprezzo.
Si avvicinò a Calipso. Pensò che si sarebbe scostata, ma lei non lo fece. Leo poggiò la schiena contro il marmo della colonna che, in quel momento, era più stabile di lui. Respirò l’aria fresca della sera, sperando che lo aiutasse a calmare i nervi.
Rimasero in silenzio a quel modo per un po’, come se entrambi avessero un’eternità davanti da sprecare, come se potessero pensare al tempo come infinito.
Calipso guardava ancora fisso davanti a sé, quando disse: «A volte non ti senti da schifo senza un motivo preciso?»
Leo si prese un minuto per riflettere. «No» rispose. «No, di solito il motivo lo conosco fin troppo bene.»
 
 
Il fuoco era vivo.
Leo si sentiva attratto da esso. Era come se le fiamme lo chiamassero, come se lo invitassero a danzare con loro a ritmo di una danza senza musica e senza passi.
I fuochi d’artificio avevano animato il cielo di Los Angeles con il loro verde, il loro blu, il loro rosa. Ma non erano niente in confronto al rosso delle lingue infuocate dei falò che erano stati accesi in giardino.
Le persone si muovevano tutte attorno a lui, e Leo era fermo immobile. Avvertiva il peso dei suoi piedi sull’erba, ma non era cosciente del resto del suo corpo. Le fiamme si riflettevano nei suoi occhi scuri.
Era lì – eppure –
distante anni luce.
Una mano cadde sulla sua spalla. Leo si risvegliò dalla sua trance. Si trattava di Calipso. Erano stati insieme fino a che i fuochi d’artificio non erano cominciati, quando era scomparsa, assorbita dallo spazio.
«Balla con me» gli gridò.
Non le disse: sei brilla. Non le disse: non nello stato in cui ti ritrovi. Non le disse: no.
Accettò la sua mano e si lasciò trascinare.
La musica bucò le sue orecchie di colpo. Ma dov’era finita? C’era sempre stata?
Non importava.
Balla e basta.
Ballò e basta.
I piedi che pestavano la terra, le gambe che si muovevano da sole, i cerchi col bacino, le braccia in aria.
Le mani sul corpo di Calipso. Le strinse la vita, le toccò i fianchi, le sfiorò costole. Era lì, era sua, adesso.
Rovesciò il capo all’indietro e rise, rise di cuore.
Era vivo, vivo, vivo! Una fiamma che si innalzava il cielo e bruciava le stelle.
Calipso gli appoggiò le labbra sull’orecchio e respirò: «Non andartene.»
Leo rabbrividì. «No» disse.
«Per favore» continuò Calipso.
«No» ripeté.
Poi – ballarono e basta.
Il mondo sfocò, le persone sparirono e le fiamme – le fiamme – si alzarono dai loro bracieri e danzarono al posto loro.
 

 
STAVA FACENDO COLAZIONE, QUANDO REALIZZÒ. Le scivolò il biscotto dalle dita, che si tuffò nel latte sottostante. Quel mare bianco lo inghiottì intero, poi, però, lo risputò fuori integro. Calipso lo fissò senza vederlo per davvero.
Gliel’aveva detto per davvero.
Non andartene. Per favore.
E lui aveva risposto.
No. No.
Il biscotto cominciò ad affondare nella tazza.
Non avrebbe dovuto uscirle di bocca nulla. Mai. Lei, il canarino in gabbia, che cantava per essere liberata. Ma lui non avrebbe trovato le chiavi, nessuno lo avrebbe fatto.
Così stupida, così inutile.
L’esistenza.
 

 
6.15. SVEGLIA.
Aspettare il turno per il bagno. Colazione veloce. Conversazione assente. Vestirsi in fretta. Prendere la bicicletta. Andare a scuola.
Sempre la stessa routine, compiuta da una persona diversa.
Leo cercava di non pensare a Calipso, alle sue parole, ma era impossibile. Ciò che gli aveva detto era un chiodo fisso nella sua mente.
Doveva tornare. Semplicemente doveva.
 
 
Lo fece una sera tardi, sgattaiolando via da casa come un ladro. Suo padre si era addormentato sul tavolo della cucina, con la faccia seppellita tra la carta millimetrata e una pena incastrata tra indice e medio. Il lavoro lo consumava più del tempo stesso.
Leo liberò la bicicletta dalla catena e saltò in sella. Pedalò tra le strade dissestate del suo quartiere con una foga che aveva avuto poche volte nella vita. Sobbalzò sul sellino quando la ruota incappò in una buca. Continuò ad andare avanti.
Non usciva spesso di notte. Suo padre l’aveva sempre messo in guardia dai pericoli in cui poteva incappare a quell’ora: gli ubriachi rissosi, i senzatetto affamati, i delinquenti armati, le vie che si assomigliavano tutte, l’illuminazione pubblica che non funzionava e ti lasciava al buio all’improvviso. Ma non gli aveva raccontato nulla della magia della notte: le luci intermittenti dei locali, le lanterne cinesi dei ristoranti ancora aperti, le risate piene, le compagnie d’amici usciti a ballare, i vestiti delle ragazze, gli occhi della gente intensi in modo straordinario.
Leo si sentiva riempito da tutte quelle presenze, estranee eppure tanto familiari. Si alzò in piedi sui pedali, chiuse gli occhi e inspirò a fondo la notte. Avrebbe portato quegli odori, quelle immagini, da Calipso.
La strada che portava alla villa era un po’ in salita, dal momento che si trovava alla base di una collina, dove le macerie bianche di un’antica indicazione svettavano tra il verde florido di quel luogo ameno. Molto spesso Leo si era domandato cosa riportasse quella scritta, ma non era mai riuscito a soddisfare quella sua curiosità. Attraversò i quartieri ricchi, dove le vie erano sgombre dai sacchi della spazzatura e ben livellate. Le villette, circondate da giardini curati e con un garage grande quanto un monolocale, apparivano irreali. In confronto con Villa Ogigia, però, erano delle case delle bambole.
Leo legò la bici a un palo della luce, distante un isolato dall’abitazione. Si tirò il cappuccio della felpa sul capo e si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, camminando in fretta ma non troppo. Si avvicinò con circospezione al cancello d’entrata. Le punte affilate delle sbarre luccicarono al chiaro di Luna. Leo deglutì.
Dopodiché, prese una piccola rincorsa e saltò, aggrappandosi più in alto che poté alle aste di metallo. Strisciò fino in cima, le mani che gli sudavano in modo odioso e decisamente poco collaborativo. Attento a non ferirsi, scavalcò gli spuntoni e passò oltre. Scivolò giù dalle sbarre e atterrò con un piccolo balzo, che sollevò uno sbuffo di polvere trattenuto dalla ghiaia del vialetto.
La prima parte era compiuta.
Ora, doveva introdursi nella reggia e scoprire quale fosse la camera di Calipso. Un gioco da ragazzi.
Ma non aveva pensato ai cani.
Un ringhio basso, incalzante, lo fece voltare verso destra. Un doberman dal muso affilato puntava il suo naso contro di lui.
«Buono» mormorò. «Buono.»
Il guardiano scoprì i denti ed emise un breve latrato, un richiamo. Poco dopo, altri due suoi simili spuntarono al suo fianco. I loro ringhi combinati producevano un suono simile a quello del motore di una mietitrebbia. Il primo, l’alpha, mosse un passo in avanti e azzannò l’aria. Era una minaccia.
Leo afferrò il concetto: vattene o saranno guai
«Credetemi, amici, lo vorrei tanto» tentò di spiegarsi, retrocedendo. «Ma non posso. Spiacente.»
Dai cespugli provenne un rumore di rami spezzati e fronde fruscianti. Leo pensò a nuovi cani da guardia, ma si sbagliava. Una giovane sbucò dalla ombre e lo fissò. I doberman girarono i musi di scatto, annusarono l’aria, e poi tornarono a puntare i loro occhietti scuri contro di lui.
«Chi sei?» domandò la ragazza.
Leo aveva la gola riarsa e la sua voce risuonò roca. «Un amico di Calipso.»
La sconosciuta fece un passo avanti. Aveva la pelle scura, in netto contrasto con la veste color crema che indossava. I suoi capelli erano un fungo di riccioli color cannella, i suoi occhi due pepite d’oro. Lo osservava senza espressione.
«La signorina Calipso non ha amici. Nessuno di loro ne ha.»
Leo si accigliò. «Loro?»
La giovane scosse il capo. «Non importa. Vuoi vederla?»
«Hazel!»
Un’altra figura spuntò fuori all’improvviso, incapace di trattenersi oltre. Il giovane posò una mano sulla spalla della ragazza con fare protettivo e scoccò un’occhiataccia a Leo.
«Ti metterai nei guai» la redarguì.
Lei scostò la sua mano. «Lo sono già» replicò.
«Anche io» pigolò Leo.
I cani non accennavo a spostarsi e perpetravano a mostrargli i denti.
Il ragazzo gli riservò l’ennesimo sguardo minaccioso. «Chi sei veramente?»
Leo si sentì aggredito intimamente. «Uno circondato da doberman incazzosi. Va bene?»
L’altro fece per ribattere, ma la ragazza intervenne a calmare le acque. «Ti aiuteremo» decise. «Entrambi. Frank?»
Il giovane sbuffò. «Sì?»
«Richiama i cani. Allontanati da qui.» Fece una pausa. «Per ‘sta sera abbiamo concluso.»
Lui annuì, grave. Fischiò e, al secondo tentativo, i cani ubbidirono e lo seguirono.
Leo si concesse finalmente di respirare. La ragazza gli si avvicinò e lo prese a braccetto. Era più alta di quello che gli era parso, più alta di lui.
«Grazie» le disse.
«Non ne parlerai con nessuno» ribatté lei. Lo guardò in pieno viso. «Non c’è spazio per certe cose, qui.»
«Cosa vuoi dire?»
Hazel sorrise, un sorriso malinconico. «Se sei venuto per la figlia di Atlante, lo scoprirai da te.»
Non entrarono per la porta principale. Girarono attorno alla villa, costeggiando il colonnato, finché non raggiunsero un ingresso più piccolo, forse destinato ai cuochi.
«Lavori per lui?» le chiese Leo.
«Sì» rispose. «Già da diversi anni.»
«E il ragazzo di prima? Che stavate facendo?»
Leo realizzò dopo che il suo comportamento sarebbe potuto apparire impiccione. Forse Hazel non aveva voglia di intrattenere una conversazione con lui, forse voleva solo sbarazzarsi dello scocciatore imprevisto che non era altro. Doveva essere una persona incredibilmente gentile, quella ragazza, perché, al contrario di quello che si sarebbe aspettato, soddisfò le sue curiosità.
«È il nipote del Ministro degli Esteri della Cina. È stato mandato qui in qualità di ambasciatore. Raccoglie informazioni per sua nonna, in modo che possa decidere se è opportuno o meno appoggiare economicamente l’America.» Sospirò. «Ha una mente aperta, e più influenza di quel che pensa. Non gli importa che io sia una serva, mi ama lo stesso. Puoi immaginare ciò che stavamo facendo…»
Leo diede un colpo di tosse. «Err, sì. Capisco. Terrò la bocca chiusa con Calipso.»
«Grazie.»
Gli sembrò di aver percorso i corridoi di metà Villa Ogigia, prima di arrivare alla camera giusta, quella di Calipso. Ringraziò ancora Hazel per il suo prezioso aiuto, dopodiché si salutarono. Non aveva osato sbirciare il suo timer, ma sperò che a lei e a quel Frank restasse abbastanza tempo.
Leo attese che Hazel si fosse allontanata un po’, prima di fronteggiare la porta.
Prese un bel respiro. Bussò. E
varcò la soglia.
 
 
Calispo era sveglia e, quando vide la porta della stanza aprirsi, balzò in piedi. Quando si accorse di chi era l’ospite inatteso, il suo primo istinto fu quello di armarsi del primo oggetto che le capitasse sotto mano, ovvero, la spazzola poggiata sulla toeletta. Leo non seppe se ridere o ritenersi offeso da quell’accoglienza.
«Com—»
«Sei pazzo? Chiudi quella porta!» lo interruppe la ragazza, brandendo la spazzola contro di lui.
Leo indietreggiò e richiuse la porta con la schiena. Calipso gli si avvicinò, senza abbandonare né l’arma improvvisata né l’aria minacciosa. Sospettò che, in quel momento, fosse più pericolosa lei di qualsiasi cane da guardia.
Malgrado ciò, sfoggiò un gran sorriso e si comportò come se non fosse affatto nervoso. Gli riusciva bene fingere, e quell’abilità gli stava tornando parecchio utile negli ultimi tempi.
«Momento sbagliato?» domandò.
Calipso non si scompose. «Vita sbagliata, piuttosto» lo corresse. «Cosa diamine ci fai tu qui? E perché
Leo non aveva mai contemplato l’idea che Calipso fosse talmente brilla da non ricordarsi nulla. Insomma, nonostante avesse bevuto, suonava così sincera. E così triste. Sfiorò adesso il pensiero, e un brivido gli percorse la spina dorsale. Oh, merda.
«Hai presente quando abbiamo ballato insieme, alla festa, la settimana passata?» chiese. «Mi hai detto “non andartene” e, be’, credo che il non andarsene comporti prima l’esserci.»
Calipso si colpì la fronte con la spazzola e si voltò, sbuffando sonoramente. «No. Ti prego, no. Non può essere.» Si diede un’altra botta in testa. «Non può. No. Assolutamente no.»
Okay, ora sì che Leo si sentiva ferito dal suo comportamento.
«Va bene, raggio di sole, ho capito. Levo le tende.»
Calipso lo afferrò per un braccio, trattenendolo. La sua presa era inaspettatamente forte. «Come sei riuscito a entrare?»
Leo ignorò lo sguardo che gli stava rivolgendo, la follia e la disperazione nei recessi delle sue iridi. «Qualche trucchetto lì, qualche trucchetto là… Non è stato poi così difficile.»
«I doberman non ti hanno sbranato. Io non credevo che fosse nemmeno umanamente possibile.»
Suo malgrado, Leo non riuscì a trattenersi dal sorridere come un’idiota. «Questo è perché io non sono un semplice umano, splendore» raccontò, dando una sfumatura di cospiratorio alla sua voce. «Ho un’identità segreta. Sono un supereroe. Salvo damigelle in pericolo, ah-ah.» Ammiccò.
Calipso lo lasciò andare e si scostò. «Sì, come no» ribatté con aria scettica. «Scommetto che hai la super-forza e combatti con una clava da cavernicolo che nascondi nei portaombrelli altrui.»
«Ti ricordi parecchi dettagli di venerdì scorso, per aver bevuto tanto.»
«Mi ricordo anche che tu non dovresti essere qui, Leo Valdez.»
«Touché.»
«Aaaah!» Calipso si portò le mani ai capelli. «Mi stai facendo diventare pazza.»
«Di me, spero.»
Lo colpì sulle dita con la spazzola. «Zitto e vattene.»
Leo si soffiò sulle nocche malconce e le lanciò un’occhiata risentita.
Calipso scosse la testa. «Scusami.» Ripose l’arma e si sedette alla toeletta. Gli parlò guardando lo specchio. «Tu non capisci. La mia famiglia è un casino e, a volte, mi lascio andare. Questo non vuol dire che non mi piaccia, o che voglia altro. In realtà, è tutto perfetto. È sempre tutto perfetto.»
Leo osservò la sua figura di spalle. Aveva i capelli sciolti e ricci, ribelli e un po’ arruffati; le davano un’aria selvaggia, in contrasto con ciò che era in realtà. Con indosso una camicia da notte lunga fin quasi ai piedi manteneva la stessa grazia che con un vestito alla moda. Il viso che si rifletteva nello specchio non aveva bocca, orecchie o naso, solo grandi occhi malinconici, che risucchiavano tutto il resto. Gli venne voglia di toccarla, di ritrovare ogni sua parte perduta.
«Forse “perfetto” non è la misura in cui vivere» disse.
Calipso abbassò le palpebre. Non replicò. «Per favore, va’ via. Ci sono cose che non possono esistere.»
Leo annuì, rigido. Girò i tacchi, aprì la porta e uscì senza più proferire parola. Tanto, non sarebbe servito a nulla. Camminò non sapendo precisamente dove andare, non ricordava i corridoi che aveva imboccato con Hazel, però, alla fine, dopo un vagare della durata imprecisata tra un minuto e un millennio, trovò l’uscita. Scavalcò per la seconda volta il cancello; non gli sudavano più le mani, perché non aveva più nulla per cui sentirsi in ansia.
Tornò in strada, un luogo più familiare, più accogliente, di quella villa.
Perché era stato sciocco, frivolo. Avrebbe dovuto aspettarselo. Lo sapeva, dopotutto. L’aveva sempre saputo. Aveva permesso a chissà quali speranze di prendere il sopravvento, di fargli pensare che il mondo andasse per un altro verso, almeno per lui. Invece.
Odiò quella via pulita e vuota. Avrebbe preso a calci qualsiasi cosa avrebbe potuto frantumarsi, se solo avesse potuto.
Raggiunse la bicicletta. Fu tentato di smontarla pezzo per pezzo, di occupare la mente a quel modo, di rimettere a posto qualcosa in quella notte di merda. Ma non poteva. Non aveva voglia di raggiungere subito casa, non aveva fretta, così, camminò sostenendo la bici per il manubrio.
Se solo fosse stato in grado di non pensare a Calipso, al suo sguardo. Quegli occhi l’avevano fregato. Come poteva abbandonarla, quando aveva riconosciuto sentimenti a lui comuni? Come poteva, quando sapeva che stava soffrendo e nessuno sarebbe stato lì per lei? Perché anche questo era evidente. La solitudine ti macchia la pelle, è impossibile non notarla.
Ma Calipso non era quella che credeva lui. Era dura, era irraggiungibile, era di ghiaccio. Poteva pur vivere in una prigione, ma era pur sempre una gabbia dorata quella in cui si trovava e c’è sempre una differenza, tra coloro che soffrono in ricchezza e coloro che lo fanno in povertà. La sua era un’altra realtà, una realtà che lui non conosceva e di cui non faceva e non avrebbe mai fatto parte.
Gli aveva detto quelle parole perché poteva permetterselo, non perché fossero vere. Lei aveva il lusso di amare chi le pareva, perché aveva secoli interi da occupare con tutte le persone che voleva. Non era come gli altri, che se amavano lo facevano una volta sola, completamente, dandosi tutto, tranne i “per sempre” che non avrebbero mai posseduto.
Era così ingiusto.
Almeno, il suo quartiere pulcioso offriva lattine di birra abbandonate sui marciapiedi e Leo ne poté calciare una. Il suono rimbombò nella notte. Seguì uno scalpiccio, il rumore di passi. Leo non ci badò; a nessuno importava di nessuno, da quelle parti. Avanzò ancora di qualche metro, superò un incrocio, quando sentì una mano stringersi sulla sua spalla.
«Ehi» sbottò. Iniziò a voltarsi, ma non completò il movimento.
Un pugno si abbatté sulla sua faccia.
Urtò l’asfalto con il coccige, la bicicletta gli cadde sulle gambe. Non riuscì a districarle per il male che gli provocava muoversi. Il dolore brandiva un’accetta e si accaniva sulle sue caviglie, le sue ginocchia, la sua schiena. Sentì che si liquefaceva sulla terra dura.
Sghignazzi.
Qualcuno gli sferrò un calcio nelle costole, facendolo gemere.
Uno scroscio di risate.
«Bello, mammina non te l’ha detto che non bisogna andare in giro da soli a quest’ora?»
Leo non riusciva a sentirsi le gambe, figuriamoci il cervello. «Fottiti, bastardo.»
Dalla folla di avvoltoi intorno si produsse un “ooooh” di scherno.
Pugni, calci, gomitate si schiantarono su di lui.
Leo si rannicchiò su se stesso. Pregò che smettessero, che il dolore finisse presto, in qualunque modo.
Poi gli afferrarono il braccio sinistro.
Sentì una scossa risvegliarlo dal torpore in cui era piombato. Scalciò via la bicicletta, strisciò da sotto di essa, tentò di scappare con tutte le sue forze.
«No no no no no.»
La morsa si strinse attorno al suo polso.
«No!»
E poi
gli occhi si rovesciarono
il fiato venne strappato
si aprirono le vene
uscì sangue
fluì la vita
fuggì via
il tempo.
Il suo.
 

 
ERANO POCHE LE VOLTE IN CUI ATLANTE FACEVA COLAZIONE CON LEI. Di solito bussava alla porta la sua cameriera e la informava che suo padre avrebbe gradito la sua presenza nella Piccola Sala da Pranzo, quella che lui considerava più intima, rispetto alla Grande Sala da Pranzo.
Entrambe erano comunque di dimensioni riguardevoli, ma quella adibita alle colazioni di famiglia si distingueva per il rosa pastello della carta da parati, le pesanti tende color oro, il tavolo circolare in legno scuro e le sedie imbottite dalle gambe scricchiolanti. Calipso l’aveva sempre trovata perfetta come ricostruzione storica del Settecento. Non a caso vi si recava spesso, se doveva immergersi in qualche classico o studiare Storia.
Quella mattina, la cameriera le aveva anche consegnato un pacco con all’interno un abito nuovo. Calipso l’aveva indossato per l’occasione, la quale non si verificava più da tre mesi, ormai. Suo padre era stato ben felice di vederla così vestita e aveva osservato con piacere la gonna a fiori che slanciava le gambe della sua splendida figlia, oltre alla scollatura discreta.
I due avevano seguito il loro rituale, fatto di piccoli scambi di complimenti per l’aspetto reciproco, le solite domande sul lavoro e sull’andamento scolastico, i commenti sull’eccezionalità dei croissant del giorno e qualche mozzicone di conversazione sparso. Sapevano già entrambi che argomenti toccare e quali, invece, erano tabù. Calcolavano le risposte con estrema precisione, ma mantenevano sempre un tono leggero e spensierato. Sorridevano spesso e con falsa sincerità. Potevano assomigliare sia a dei ballerini sia a dei politici.
Atlante ripiegò il giornale con un sospiro irritato. «I cittadini di Los Angeles diventano sempre più violenti, e senza motivo.» Sollevò con due spesse dita la tazza di caffè e ne trasse un lungo sorso. «Prendi questo ragazzino, poveretto.»
Calipso smise di imburrare il suo toast. «Cosa gli è accaduto? Spero nulla di grave.»
Suo padre batté due dita sulla pagina che stava leggendo, indicando l’immagine di un corpo contorto vicino a una bicicletta scassata. La ragazza non la degnò che di un breve sguardo, come se avesse pudore, o fosse spaventata dalla scena.
«Perbacco!» esclamò. «Orribile. La polizia ha trovato i colpevoli di un atto tanto spregevole?»
Atlante scosse la testa. «Non ancora, purtroppo, ma intendo informarmi il prima possibile. Se è necessario, fornirò anche dei miei uomini.»
«Ti sta a cuore la faccenda, papà?»
«Mh. Ne sono più preoccupato.» Sgranocchiò un bacio di dama. «Il ragazzo è ispanico. Non vorrei che si trattasse di un crimine d’odio.»
A quelle parole, qualcosa scattò dentro Calipso. Si irrigidì sulla sedia. Sentì il sangue pulsarle più forte nelle orecchie.
Atlante notò il cambiamento del suo comportamento e decise di troncare la conversazione. «È meglio se non ne riparliamo più per adesso, tesoro. Non vorrei turbarti a colazione.»
«Certamente» disse lei, più forte che le riuscì. «Sono d’accordo.»
Terminarono la colazione nel silenzio. Atlante continuò ad assaporare piccoli capolavori di pasticceria come se niente fosse, mentre Calipso dovette sforzarsi di mandare giù quello che si era precedentemente servita. Masticava il cibo senza energia; era conscia di quanto fosse delizioso, eppure le appariva ugualmente insipido.
La salvò un bussare alla porta. Un cameriere fece una breve riverenza, dopodiché annunciò: «Signore, è richiesto al telefono. Il Presidente desidera discutere alcuni affari con Lei.»
Atlante annuì. Si pulì la bocca con un tovagliolo, lo poggiò sulla tovaglia e si alzò. «Buona giornata, tesoro mio» salutò, prima di seguire fuori dalla stanza il maggiordomo.
Calipso contò un minuto a mente, poi si alzò di scatto, facendo rovesciare la sedia su cui era seduta, e afferrò la copia del giornale che suo padre aveva abbandonato sul tavolo. Lo sfogliò con foga, stropicciando le pagine, finché non trovò l’articolo che stava cercando. I suoi occhi percorsero smaniosi il testo di cronaca.
Un nome. Le serviva solo un nome.
Invece, fu sommersa da una sfilza di note inutili: analisi dell’accaduto, dettagli sull’aggressione, le solite promesse. Possibile che in tutte quelle parole non comparisse il nome del ragazzo?
Alla fine, nelle ultime righe, lo scorse.
 
Leo Valdez
 
Calipso si sentì fisicamente male. Si aggrappò al bordo del tavolo per non cadere, tanto forte che le sue nocche sbiancarono. Boccheggiò per qualche momento, incapace di respirare correttamente. Deglutì bile e si sforzò di finire di leggere.
“Leo Valdez, la vittima della brutale aggressione”, era riportato, “al momento è ricoverato al Children’s Hospital. Le sue condizioni di salute non sono accertate.”
Calipso sbatté una mano aperta sul tavolo. «Cazzo vuol dire “le sue condizioni di salute non sono accertate”?» scattò. «Ho bisogno di risposte!»
Il giornale rimase silente.
Calipso decise che, se la montagna non andava da Maometto, Maometto sarebbe andato alla montagna.
 
 
Arrivò al Children’s Hospital in tarda mattinata. A quanto pareva, essere la figlia di Atlante era un lasciapassare assicurato, perché nessuno le pose alcuna domanda sul perché volesse far visita a Leo Valdez. A Calipso andava bene così. Essere uscita di casa senza permesso ed aver raggiunto l’ospedale erano successi di cui andava fiera. Forse, li avrebbe rimpianti al suo ritorno, ma per il momento non le importava.
Leo condivideva la stanza con altri tre pazienti, di cui due erano addormentati. Il suo letto era sistemato in fondo, vicino alla finestra.
Calipso si portò indietro i capelli ed entrò con passo deciso.
Poi rallentò.
Si fermò al secondo letto.
Le sue sicurezze vacillarono. Perché si trovava lì? Lei, la ragazza che l’aveva cacciato via da casa sua dopo che aveva fatto i salti mortali per vederla? Non avrebbe dovuto trovarsi in quel luogo. Non era in intimità con lui. Aveva rifiutato di possederla. Aveva deciso di sua spontanea volontà di non avere niente a che fare con lui, di eclissarlo dalla sua vita. Non c’era un motivo valido per stare con lui in quel momento.
Si voltò e tornò indietro.
Ma si fermò quasi subito.
Sii egoista, Calipso.
Sollevò il mento e percorse gli ultimi metri che la separavano da Leo Valdez. Il ragazzo non si accorse di lei finché non gli fu davanti, troppo impegnato a giocherellare con una graffetta e un elastico. Alzò gli occhi su di lei, prima senza riconoscerla, poi sorridendo.
«Buongiorno, raggio di sole.»
Sii normale, Calipso. Puoi farcela. Lo sai.
«Ciao» disse, riuscendo a malapena a sorridergli di rimando.
Che bugiarda. Salutare così, come se niente fosse, come se fosse una situazione normale. Come se non notasse il modo in cui l’avevano rattoppato.
I punti bianchi sopra il sopracciglio sinistro. Il labbro spaccato. I lividi sul viso e le braccia. L’anulare e il mignolo della mano destra steccati. La rigidezza imposta dalle costole incrinate.
Calipso aveva l’intestino annodato così stretto da non riuscire a reggersi in piedi. Le girava un po’ la testa e si sarebbe volentieri assentata per vomitare in bagno, se avesse potuto. Invece, mantenne con la forza il suo contegno.
«Come va?» chiese.
Leo fece per scrollare le spalle, poi ci ripensò. «Un po’ come se fossi sopravvissuto alla fine del mondo. Direi piuttosto bene, quindi.»
Calipso non fece commenti. Leo riprese a parlare e lei lo lasciò fare, visto che non era una conversazione a due. Intanto, si sedette ai piedi del letto; i fiori caddero dalla sua gonna e scivolarono sul copriletto.
«E poi ti aspetteresti che le lenzuola siano bianche, in un ospedale, no? Invece sono azzurrine. Azzurrine. È una cosa che mi destabilizza e irrita insieme. Insomma, mi sono sempre immaginato le lenzuola bianche, non di questo colore a metà, non azzurro né blu. La mia vita è stata sensibilmente sconvolta da questa scoperta. E…»
Calipso lo interruppe. «Leo.»
«Sì, raggio di sole?»
«Queste lenzuola sono bianche. Lo sai, vero?»
Vide il dolore sul suo viso, subito dissimulato con l’ennesimo sorriso. «Oh, sì, certo. Lo sapevo. Volevo vedere se eri attenta. Beccato!» esclamò.
Calipso non rise. Abbassò il capo e si fissò le mani, tenute raccolte in grembo.
L’entusiasmo di Leo scemò pian piano.
Rimasero in silenzio.
«Non dovrei stare qui» capitolò Calipso alla fine.
Lui si accigliò. «Perché?»
Lei roteò gli occhi e sbuffò. «Me lo stai davvero chiedendo?»
Leo raddrizzò la schiena e le toccò la spalla. «Non è colpa tua, Calipso.» Lo disse infervorandosi, come se fosse la cosa più importante al mondo e lei dovesse capirla per forza, con una passione e un furore di cui non si reputava degna.
«Non è colpa mia» ammise Calipso, senza rivolgerglisi direttamente, incapace di reggere l’intensità del suo sguardo, «però sento come se lo fosse. Non dovrei essere qui perché sto facendo soffrire entrambi.»
«Ma io ti voglio qui.»
Calipso guardò in alto e sbatté le palpebre. Si ordinò di restare normale, di non provare nulla.
«Ti ho fatto piangere, raggio di sole?»
La sua voce era bassa, calda, avvolgente e preoccupata. Struggente.
La ragazza riabbassò lo sguardo e lo trafisse con gli occhi. Era arrabbiata e colpevole e vulnerabile, e odiò tutte le emozioni che era in grado di sentire. Aveva sempre pensato all’innamorarsi come a qualcosa di dolce, come  baci lenti che sapevano di zucchero filato,  passeggiate in spiaggia mano nella mano e buffetti sul naso. Imbarazzo e prime volte. Batticuore e scatole di cioccolatini. Invece era tutto diverso: innamorarsi era una contorsionista che piegava il suo corpo in nodi, porte sbattute in faccia e caffè forte. Graffi e carezze. Finestre rotte e pugni nello stomaco.
«Mi stai facendo diventare pazza, Leo Valdez» rispose, dura. «Tutto quello che vedi è disperazione.»
«Io vedo un vestito incantevole e le tue gambe da sballo, e sì, mi fa disperare il fatto di non poterti nemmeno sfiorare senza che tu mi morda una mano» replicò lui in tono melodrammatico.
Suo malgrado, Calipso rise. «Sono contento che ti piaccia» disse, sorridendo mestamente.
Leo sorrise a sua volta. «Sono contento che tu sia venuta.»
Calipso si arrotolò una ciocca di capelli sull’indice e distolse lo sguardo. «Sì, be’, avevo tempo…»
Non notò il sorriso di Leo incrinarsi, iniziare a pendere verso il basso, cadere e infrangersi a terra. Non notò i nuovi numeri tatuati sul suo avambraccio sinistro.
«A me piace trascorrere quello che mi rimane con te, Calipso» mormorò, o forse lo pensò e basta.
 

 
LEO SENTIVA IL DISPERATO BISOGNO DI DORMIRE, MA NON CI RIUSCIVA. Non era tanto per il dolore alle costole, che lo rendeva insofferente, bensì perché era rimasto inchiodato a quel letto dalla mattina e non aveva fatto nulla tutto il giorno. I suoi occhi stanchi chiedevano pietà, ma il suo cervello divagava in continuazione. Le idee ribollivano nella sua mente, lo tenevano sveglio, lo assillavano, lo pregavano di prendere vita sotto le sue mani. Se solo avesse avuto lì con sé il Manuale del Meccanico…
L’avrebbe letto volentieri, visto che aveva tanto tempo libero da occupare. Già, finché gliene fosse rimasto. La sua aspettativa di vita aveva subito qualche piccolo taglietto, ultimamente.
Da diciott’anni a due mesi. Davvero un bello sconto. Divertente.
Vecchio mio, si rimproverò Leo, se non vuoi cadere in depressione, dovrai inventarti battute migliori a riguardo. Sarà la mancanza di umorismo a ucciderti, non il tuo timer.
 
 
Suo padre gli fornì il librone il mattino seguente. Aveva ottenuto dei permessi speciali per il lavoro che gli davano la possibilità di fargli visita in quei primi giorni, visto che la faccenda aveva scatenato tanto scalpore. Non è che li sfruttassero molto, quei permessi speciali. Parlare, avevano parlato il primo giorno, anche se, probabilmente, era più corretto dire che si erano urlati addosso a vicenda. Adesso, tra i due c’era il silenzio più totale.
Bastava quello. Quello, e gli occhi di suo padre. Vi leggeva dentro tutto: l’auto-commiserazione, la rabbia, il perdono, lo sdegno, il dolore. Gli risultava insostenibile reggere lo sguardo di Efesto. Diceva troppo, troppo riguardo a due degli eventi più tristi della vita di Leo: il primo, quando aveva perso sua madre, Esperanza, e il secondo, quando suo padre gli era scivolato via dalle mani. Essere pestato a sangue e derubato della propria vita lo faceva soffrire di meno.
Dopo che Efesto se ne fu andato via dalla stanza, Leo si premette le mani sugli occhi per arrestare il flusso di immagini che si susseguivano dietro le sue palpebre.
Ricordò sua madre dietro i fornelli che cucinava la colazione a base di pancake. Era giovane, bella e felice. O forse felice e bella, perché era la felicità a influenzare la bellezza di una persona. Quando si è capaci di sorridere, ognuno di noi è, a modo suo, assolutamente e completamente meraviglioso.
Ricordò quanto fosse brava nell’aiutarlo con i compiti di matematica, o con i nodi delle scarpe, e come si trovasse in difficoltà a rammendargli i calzoni.
Ricordò le sgridate in spagnolo, che parlava sempre quando c’era di mezzo l’emozione.
Ricordò i giorni in cui lo accompagnava a scuola, la mano grande il doppio della sua, e l’ultimo bacio sulla punta del naso.
Ricordò i “¿Que es mi hermoso niño? Eres tu!” e i “¿Quién es tu hermosa mamá? Soy yo![1]” e le risate quando gli faceva il solletico.
Ricordò i progetti disegnati insieme su fogli di carta bianchi grandi quanto cartelli stradali.
Ricordò i colori, la gioia, la spensieratezza quando stava con lei.
Ricordò quanto l’amava.
E ricordò l’incidente.
Le fiamme che avvolgevano il suo corpo, che lo riducevano in cenere, che sbriciolavano le sue ossa. Il fumo, grigio; ma come poteva essere grigio, se usciva da lei, che era tutto fuorché grigia? E perché incidente? Una madre che muore non è un incidente, è una tragedia.
Leo la rivoleva indietro, adesso come allora, con la stessa dolorosa intensità, perché perderla era stata un’ingiustizia, una crudeltà del cielo.
La rivoleva anche suo padre, che non se n’era mai fatto una ragione, o forse sì, e aveva compreso sin da subito che vita di disperazione l’aspettava. Servivano a dimenticare tutto ciò, le notti passate a bere e i giorni a vomitare? Gliel’avevano fatta passare le sbronze o la cruda verità, la passione per il lavoro? E l’amore per l’unico figlio che aveva? Quello chi gliel’aveva tolto?
 
Calipso non venne, quel giorno, e Leo annegò nelle domande senza risposta.
 
 
L’avrebbero dimesso la sera del terzo giorno, e Leo stava occupando le ore che lo separavano dal suo rilascio leggendo il Manuale del Meccanico. Se avesse avuto il motore di un’utilitaria sotto mano, sarebbe riuscito a raccapezzarsi di più in quel passaggio, ma comunque.
Qualcuno tossicchiò. Leo ebbe un mini attacco di panico all’udire il rumore, però si controllò, notando chi era venuto a fargli visita. Non era il caso che facesse figuragge in presenza di Frank Ambasciatore della Cina Fidanzato di Hazel Cognomechenonconosceva.
«Chi si vede!» esclamò, sorridendo. «Meglio la luce artificiale dell’ospedale al chiaro di Luna, non trovi?»
Frank rimase impassibile, fatta eccezione per la mal contenuta espressione truce che, di tanto in tanto, si intravedeva dietro la sua maschera di indifferenza. «Non è una visita di piacere, Valdez. E gradirei che non accennassi a quella notte» brontolò, arrosendo lievemente.
Leo mise il broncio. «Il mio ego si ritiene offeso dalle tue parole.»
Frank non commentò. Tirò fuori dal taschino interno della giacca una busta bianca e gliela porse. «Questa» spiegò, «è da parte della Signorina Calipso. Si rammarica di non poter essere venuta, ma ha mandato me a fare le sue veci.»
Leo accettò la lettera, mentre osservava con occhio critico il giovane che si trovava davanti. «Okay, non sei male, a parte un po’ di pancetta... ma di certo non sei all’altezza del bel visino di Calipso.»
Frank si guardò immediatamente l’addome, controllando se avesse davvero la pancetta. Constatando che no, non l’aveva, sentì il viso andargli a fuoco. «Bugiardo» sputò, scoccandogli un’occhiata tagliente.
Leo scoppiò a ridere, con il risultato che le costole iniziarono a dolergli e gli vennero le lacrime agli occhi per entrambi il male e il divertimento.
Frank roteò gli occhi. «Va bene. Credo di potermene andare.»
Non fece in tempo a voltarsi, che la voce di Leo lo raggiunse. «Potresti dirmi come fai di cognome, Frank?»
L’ambasciatore si girò, un sopracciglio inarcato. «Zhang. Perché?»
Leo gesticolò con la mano. «Niente, solo curiosità. Puoi andare, Frank Zhang. E porta i miei saluti a Hazel.»
Frank se andò prima di cedere al desiderio di strangolarlo.
Leo richiuse il Manuale del Meccanico che stava leggendo. Si rigirò in mano la busta più volte prima di aprirla. Sfilò la lettera con cura e ne annusò la carta. Profumava di limoni, come i capelli di Calipso. Trattò quel foglietto con la stessa cura che avrebbe riservato a lei.
 
Leo.
Spero che questa lettera si trovi nelle tue mani, adesso, e non in quelle di mio padre. In caso contrario… PAPÀ, SO GIÀ DI ESSERE NEI GUAI, QUINDI NON ROMPERE.
Comunque, come stavo dicendo, spero che le mie parole siano arrivate fino a te. Ho consegnato la busta alla mia cameriera, Hazel, perché ciò avvenga. Mi ha detto che conosceva una persona di fiducia che poteva uscire senza problemi da Villa Ogigia, e che ci avrebbe pensato lei a portartela.
Il perché di tutti questi sotterfugi? Mio padre ha notato la mia “assenza ingiustificata” – maledetta sia la mia istitutrice – e mi ha chiesto spiegazioni. Non ha scoperto la mia destinazione, per fortuna, ma mi ha severamente proibito di uscire di nuovo senza il suo esplicito permesso. Questo significa che, finché non scaverò un tunnel che collega la mia casa alla tua, sarò costretta rimanere qui. Da sola. Di nuovo.
In ogni caso, come tu hai trovato un modo per non farti sbranare dai doberman, io capirò come fare a sgattaiolare via. Dopotutto, non sono una sprovveduta.
Hazel mi sta mettendo fretta, quindi sono costretta a salutarti.
Spero che tu ti senta meglio.
 
Calipso.
 
P.S. Mi manchi un po’.
 
Leo non poté impedirsi di sorridere. Gongolava come un idiota. Gli scappò una risatina. Le mancava un po’. Sì, okay, l’aveva cancellato, ma era lì, quindi per un momento doveva averlo pensato. Si stava sciogliendo in un brodo di giuggiole.
Oh, si amavano così tanto!
 

 
ERA ABBASTANZA FIGO INCONTRARSI SUL TETTO DI UN GRATTACIELO SEMIDISTRUTTO – e anche piuttosto pericoloso. Una location interessante e alternativa, insomma.
Leo appoggiò i gomiti sul parapetto e si rilassò. La brezza marina soffiò, frusciando sulla sua camicia e scompigliandogli i capelli. La salsedine li aveva resi ancora più ricci e annodati. Il ragazzo si godette il panorama e cercò di indovinare che ore fossero in base alla luce; un tempo, se avesse guardato sul suo polso sinistro, ci avrebbe trovato un orologio, mentre adesso, invece, avrebbe visto una delle cifre che componevano il resto del suo tempo sulla Terra.
Non mancava molto al tramonto, quando sentì Calipso arrivare. I suoi tacchi ticchettavano sul cemento della terrazza, annunciando la sua presenza. Leo si voltò lentamente, già sorridendo. Calipso alzò la testa e gli sorrise di rimando, ma poi la riabbassò, arrossita lievemente.
Indossava un abito che dal blu scuro sfumava al verde acqua che le scivolava addosso divinamente. Il vestito aveva una profonda scollatura a V e sembrava terminare in una gonna; in realtà, però, erano dei pantaloni a vita alta e a zampa così larga da assomigliare a uno strascico. Un cinturino di zaffiri e diamanti le cingeva la vita, mettendo in evidenza i suoi punti forti. Orecchini e collana erano molto più semplici, ma ugualmente abbaglianti.
Leo si sentì lo straccione che era. Si era buttato addosso i suoi vestiti migliori, ovvero dei jeans scuri che non gli facevano sembrare le gambe né troppo corte né troppo magre, e una camicia a quadri che gli copriva le braccia, e così anche il timer. Aveva cercato per tutta casa i suoi occhiali da sole, ma, non trovandoli, aveva preso quelli da saldatore di suo padre – ugualmente fighi, a parer suo – e se li era messi in testa.
Calipso lo raggiunse al parapetto e gli rivolse uno sguardo più attento, meno timido, e Leo si perse nel calore delle sue iridi.
«Ciao» disse, quasi trasognato, strascicando tutte le lettere.
«Ciao» salutò lei.
Una fossetta comparve sulla sua guancia, il risultato di un mezzo sorriso. Leo decise che amava le fossette, perché erano ciò che di più carino esisteva al mondo.
«Ti trovo meglio» continuò la ragazza. Gli sfiorò la mascella con i polpastrelli. «I lividi sono quasi del tutto scomparsi.» Ritirò la mano.
«Già. Ora sono molto più carino, non è così?» replicò lui, ammiccando.
Calipso rise. «Soprattutto con questi… cosi sugli occhi.» Gli prese gli occhiali da saldatore e glieli mise, continuando a ridacchiare.
Leo si sentì morire dalla vergogna, ma tentò di non darlo a vedere.
Calipso se ne accorse lo stesso e glieli risistemò sulla testa, dov’erano posizionati prima. Chinandosi su di lui, sussurrò: «Davvero, mi piacciono.»
In quel momento, Leo le avrebbe baciato tutto il collo fino ad arrivare alle labbra. Ma si trattenne. Quella vicinanza, quel toccarsi reciproco, era una novità, e gli piaceva parecchio. Oh sì, se gli piaceva.
Si sporse verso di lei e giocherellò con i ciuffi che sfuggivano dalla treccia che le ricadeva sulla spalla, mantenendo il contatto.
«Ti sei messa i tacchi apposta per essere ancora più alta di me?» domandò. «Potrei offendermi, raggio di sole.»
«Oh, per questo vestito devi ringraziare Frank Zhang. Mi ha gentilmente invitato fuori per un aperitivo in città e mio padre non poteva certo rifiutare qualcosa al nipote del Ministro degli Esteri della Cina» rispose, mantenendo un tono leggero da conversazione. «Mi ha accompagnato fin qui in macchina. È un ragazzo così gentile, non trovi? È stato davvero carino con me.»
Leo smise di giocherellare con la sua treccia e alzò gli occhi sul suo viso. «Guarda che divento geloso» ammonì.
Calipso sogghignò. «Dovresti.»
Leo rimase a bocca aperta, ma poi scoppiò a ridere, subito seguito dalla ragazza.
«Il posto l’ho scelto io, comunque» continuò. «La West Coast è stata danneggiata molto meno della East Coast dalle alluvioni, ma è un po’ così che mi immagino il panorama dall’Empire State Building.»
Leo osservò l’acqua salina che dalla spiaggia risaliva fin sulla strada, i veicoli affondati completamente o che spuntavano a metà dalla superficie, i primi piani delle case invasi dal mare. Anche il grattacielo da loro scelto non era stato del tutto immune alla furia degli elementi.
«In effetti, sembra di essere di fronte alla fine del mondo» constatò.
La luce illuminava Calipso da dietro, inondava i suoi capelli di riflessi dorati e rendeva il suo sguardo più intenso. «Già, proprio così.»
La mano di Leo non resistette alla tentazione di toccare la sua. Vedendo che non si sottraeva al contatto, incominciò a disegnare piccoli cerchi col pollice sul suo dorso. Leo e Calipso si sorrisero, condividendo un sentimento che non riuscivano a nominare, e tornarono a concentrarsi sulla discesa del Sole nel mare. Non si dissero più niente e andava bene così. C’era una pace, tra loro, che non avrebbero mai voluto rompere.
Calipso carezzò il dorso della mano di Leo, la rivoltò delicatamente, ricalcò le linee sul suo palmo. Seguì i percorsi delle vene, guizzanti sotto la pelle, e sentì il battito del cuore. Risalì il polso e gli carezzò l’avambraccio, la mano che frusciava sotto il tessuto della camicia. Finché un bottone si staccò e Calipso poté vedere il timer di Leo.
Raggelò.
«Leo.»
«Cosa c’è, raggio di sole?»
«Leo
«Sì?»
«Perché non mi hai detto che stavi morendo?»
Leo inciampò all’indietro. «Tu—? Come—?» E notò il timer scoperto, le cifre tatuate sulla pelle in bella mostra.
Si aggrappò al parapetto. Respirò in modo affannoso. Doveva dirle qualcosa, qualsiasi cosa ma
non
riusciva
a
pensare.
«Perché non me ne hai parlato?» Nella voce di Calipso c’era pianto, adesso, c’era un dolore così intenso da non essere quantificabile a parole. «Leo» mormorò, visto che il ragazzo continuava a non rispondere. «Ti prego.»
Nel nulla, si accese una scintilla. Quella scintilla era rabbia. «Perché?» ripeté, e si accorse di stare gridando. «Perché di tempo ne avevo, prima che dei pezzi di merda sconosciuti me lo rubassero. Perché non volevo che affrontassimo questo discorso, come stiamo facendo proprio adesso. Perché volevo avere un pezzetto di felicità nella vita che mi ritrovo a vivere che fosse estraneo a ogni turbamento. Ecco perché. Soddisfatta?»
Le lacrime rigavano il viso di Calipso. «Non hai il diritto di rivolgerti a me in questo modo» replicò, la sua voce come acciaio.
Leo rise di una risata amara. Si passò una mano tra i capelli e si voltò verso la città, prima di guardare di nuovo Calipso. «Perché? Perché non ho tutti i soldi, tutto il valore, tutto il tempo, che hai tu?»
«No» sibilò Calipso, ed era così arrabbiata e ferita che il suo tono evocava una tempesta. «Perché sono innamorata di te, razza di imbecille, e di te mi importa.»
Leo sentì l’aria bloccarsi a metà strada verso i polmoni. Si riprese in fretta dallo shock. Balbettò parole senza senso. Tentò di prendere la mano di Calipso, di tenerla vicino a sé.
Lei si scostò, fuggì via dal suo tocco. «No» disse. «Basta così.»
Leo la osservò allontanarsi da lui impotente.
 

 
È sempre una persona che non può mai restare, che non può mai accettare la mia offerta di compagnia per più di poco tempo. È qualcuno che non posso aiutare… giusto quel tipo di persona di cui non posso fare a meno di innamorarmi.
 

 
LEO TORNÒ A CASA SENTENDOSI L’IDIOTA PIÙ SOLO AL MONDO. Suo padre non era ancora rientrato dal lavoro e l’appartamento gli appariva spoglio, vuoto, un riflesso di com’era dentro. Prese una bottiglia d’acqua dal frigo, ne bevve un sorso e la posò sul tavolo. Restò minuti interi ad osservare le impronte digitali che aveva lasciato sulla plastica a causa del calore. Fissò le goccioline di condensa con estrema intensità, rimanendo in piedi finché non gli fecero male le gambe.
Allora, recuperò il Manuale del Meccanico da sotto il letto, lo appoggiò sul tavolo della cucina e si sedette sulla sua sedia. Aprì il librone con estrema cura e ne sfogliò delicatamente le pagine, come se si trattassero delle ali di una farfalla, sfiorando con i polpastrelli la calligrafia di sua madre. Sentì prepotentemente il bisogno di averla lì al suo fianco ed essere cosciente che non sarebbe mai tornata, perché era morta, gli fece salire le lacrime agli occhi.
Sempre l’ultima ruota del carro, sempre quello che mandava tutto a puttane. Si premette i pollici sugli occhi per bloccare il pianto, che almeno non si permettesse di sbiadire l’unica memoria che aveva di lei.
Tirò su col naso e continuò a sfogliare le pagine, fino all’ultima, quella interamente dedicata al progetto di sua madre. I conteggi, le annotazioni e i disegni sulla carta millimetrata erano ancora lì. Leo si ritrovava in mano quel foglio da una vita, ma non era mai riuscito a capire dove tutto quel lavoro avrebbe portato. Adesso, forse non aveva nemmeno più il tempo necessario per scoprirlo…
Leo si raddrizzò sulla sedia di colpo.
Il tempo.
Freneticamente, Leo controllò ogni singolo numero scritto su quel pezzo di carta, studiò i modellini del progetto. Scoppiò a ridere, si prese la testa tra le mani e si tirò i capelli, si colpì la fronte col palmo aperto, preda di un’euforia che non aveva mai provato.
Il tempo!
Stava tutto lì, in quella singola parola. Sua madre era un fottuto genio. Per anni, all’insaputa di tutti, aveva elaborato una macchina in grado di arrestare l’azione dei timer e ridare la libertà di vivere una vita giusta a ognuno di loro.
 
 
Aspettò che suo padre ritornasse in trepidante attesa. Aveva sgomberato il tavolo della cucina e ci aveva ammassato sopra tutto l’occorrente per ricreare il progetto ideato da sua madre. Ora, camminava avanti e indietro, consumando il pavimento della casa. Si sarebbe già buttato a capofitto nel lavoro, ma si era reso conto della sua complicatezza e delle sue abilità insufficienti. Però conosceva qualcuno che era in grado di costruire quella macchina, e quel qualcuno era suo padre.
Che se la prende fin troppo comoda a rientrare, pensò Leo. Ma era troppo euforico per abbattersi per una sciocchezza del genere.
Quando udì il rumore della chiave infilata nella toppa, si arrestò all’istante e rivolse la sua completa attenzione alla porta. Efesto non fece in tempo a varcare la soglia e a notare il casino ammassato sul tavolo, che Leo gli si era parato in fronte e gli stava già riversando addosso tutte le sue scoperte.
Corrugò la fronte, si voltò a chiudere la porta e domandò: «Eh?»
Leo prese un grande respiro per calmarsi. «Ho scoperto a che cosa stava lavorando la mamma prima di morire» spiegò, trattenendo a stento l’entusiasmo. «Papà, devi aiutarmi.»
«Aiutarti a fare che, Leo?» fece suo padre. «E poi, dove avresti trovato le carte di lavoro di tua madre? Sono tutte bruciate anni fa.»
Il suo tono scettico non smorzò l’energia del ragazzo. «È tutto nel libro che tu e la mamma stavate scrivendo da giovani.» Recuperò il Manuale del Meccanico e glielo mise in mano. «Ricordi?»
Le dita macchiate di olio di suo padre esitarono a percorrere la copertina della guida che lui ed Esperanza avevano abbozzato tanti anni prima. I suoi occhi si rabbuiarono un momento, la mente persa in antichi ricordi di felicità.
«Questo non spiega il perché tu abbia messo a soqquadro la cucina» obiettò, avvicinandosi al tavolo e gettando un’occhiata d’insieme agli oggetti là sopra radunati.
«Te l’ho detto: so cosa stava progettando la mamma e tu ed io dobbiamo costruirlo» ripeté Leo. «Non abbiamo tempo, e tutto ciò è di vitale importanza.»
Efesto inarcò un sopracciglio. Leo si riprese il manuale, arrivò alla sua fine e batté un dito sulla carta millimetrata.
«Guarda qui» disse, «c’è la spiegazione a tutto. La mamma aveva pensato a un modo per far fermare i timer per sempre. Voleva garantire a tutti una vita migliore, una vita come quella del passato. Noi—»
«Questa è pura follia.» La voce di suo padre era dura e stanca. L’uomo si accasciò su una sedia. «Non possiamo fare nulla.»
Leo lo guardò per un attimo senza riconoscerlo. «Perché?» chiese, accigliandosi.
Efesto lo trafisse con lo sguardo. «Non lo capisci, vero?» gli disse, sorridendo amaramente. «Se Esperanza stava davvero lavorando a ciò di cui tu sei convinto e, da quello che vedo, è così, allora non possiamo fare nulla perché siamo in pericolo. Sicuramente il governo sapeva di tutto questo. L’incendio… l’incendio non era altro che uno stratagemma per coprire l’omicidio di tua madre.»
Leo emise un verso strozzato e indietreggiò. Il dolore era intenso, era un uncino conficcato nello stomaco, un’ascia vibrata a spezzargli le gambe. Non riuscì a provare altro che una sofferenza accecante per i brevi, lunghissimi, istanti che seguirono quella rivelazione.
«È impossibile» rantolò, ancora incapace di respirare.
«Lo capisci, adesso?» infierì suo padre. «Se non vogliamo morire entrambi, dobbiamo sbarazzarci di questo progetto al più presto, prima che se ne sappia qualcosa.»
Leo scosse la testa. Gli era difficile parlare, ma non poteva trattenere quelle parole dentro di sé. «No» si oppose. «A maggior ragione, dobbiamo andare avanti. Glielo dobbiamo.» Sapeva che quello che avrebbe detto dopo avrebbe ferito suo padre, ma era necessario. «Mi restano pochi mesi di vita, papà. Non voglio morire sapendo che avrei potuto fare di più. E tu? Vuoi veder morire tuo figlio, conscio che è anche colpa tua?»
Leo vide le sue parole andare a segno e scuotere in profondità suo padre. Attese la sua risposta, pregando che fosse quella che desiderava di più al mondo. Quando Efesto guardò di nuovo suo figlio, una fiera determinazione aveva rimpiazzato il dolore.
«Allora dobbiamo muoverci.» Con lo sguardo percorse Leo da capo a piedi. «Forza! Che ci fa lì impalato?»
Leo sorrise da orecchio a orecchio. «Da che cosa cominciamo?» domandò, sfregandosi le mani.
 
 
Lavorarono ininterrottamente tutta la notte. Efesto conduceva il lavoro, sempre seduto al tavolo, mentre Leo gli ronzava attorno, passandogli ciò che gli serviva. Saldarono, incastrarono, montarono, avvitarono, bevvero quantità industriali di caffè per tenersi svegli. E poi di nuovo tutto d’accapo.
Ogni tanto, Leo si incantava a guardare le mani svelte di suo padre fissare i vari pezzi insieme, l’abilità e la sicurezza acquisti con l’esperienza. Ma c’era anche una dote naturale che nessuno avrebbe potuto negare. Poteva trattarsi di una mera impressione di Leo, eppure gli sembrava che, più suo padre lavorava, più si appassionava al progetto e recuperava il vigore perduto.
Forse era già giorno, quando parlarono di come far funzionare ciò che avevano costruito. Idearono un piano, rendendolo inattaccabile da ogni punto di vita. Erano costruttori, erano meccanici: sapevano come far pedalare qualcosa senza che si rompesse subito.
Dopodiché, Leo si infilò una giacca di jeans e uscì in strada. Non aveva più una bicicletta di sua proprietà, ma utilizzò quella di suo padre – nonostante fosse troppo alta anche col sellino abbassato al massimo. Pedalò nell’alba chiara e solitaria di Los Angeles. Soffiava un venticello piacevole che portava con sé il profumo del mare. Raggiunse Villa Ogigia che si intravedeva appena il Sole tra le nuvole rosa.
Stava per compiere uno dei più grandi cliché delle storie d’amore. Si appostò sul lato della residenza su cui dava il balcone della camera di Calipso, raccolse una manciata di sassolini e caricò la fionda. Doveva calibrare bene la mira e tirare non troppo forte, per evitare di spaccare il vetro della finestra. Strizzò l’occhio sinistro, puntò e scagliò il sasso. Ne seguì il volo con la stessa attenzione che un cane riserva a una pallina da tennis. La pietruzza si schiantò contro la finestra, crepando il vetro.
Leo si portò una mano alla testa. «Merda» imprecò sonoramente.
Almeno, il sassolino fece il suo dovere. Nel giro di un minuto, Calipso comparve sul balcone. Aveva i capelli in disordine, la vestaglia scarmigliata e un’espressione confusa stampata in faccia.
Leo tossì. «Raggio di sole» chiamò. «Calipso. Quaggiù.»
La ragazza individuò la sua posizione, si rabbuiò e fece per rientrare nella stanza.
«No!» gridò Leo, poi si tappò la bocca. Non doveva fare troppo rumore, diamine. «Vieni qui, per favore» le disse.
Calipso non sembrava molto convinta, ma annuì. Il ragazzo sospirò pesantemente e la aspettò. Sentì la sua voce da dietro la siepe ordinargli di andare al cancello, in modo da potersi vedere in faccia. Leo obbedì e percorse parte del perimetro della villa. Quando arrivò all’ingresso principale, Calipso gli fece cenno di abbassarsi, giusto per essere un po’ meno in vista.
«Ciao» la salutò lui.
Il viso di Calipso era gelido. «Che cosa vuoi?» gli chiese, brusca.
Leo avrebbe dovuto iniziare a raccontarle della sua sensazionale scoperta, ma non ci riuscì. «Mi dispiace» mormorò. «Sul serio. Sono stato un imbecille.»
«“Imbecille” è riduttivo, ma apprezzo lo sforzo» replicò lei.
Il marrone era un colore caldo, ma i suoi occhi erano freddi e duri. Erano la spessa corteccia di una quercia, una corazza per il legno tenero all’interno.
Leo si asciugò le mani sudaticce sui pantaloni e sospirò. «Sto per chiederti una cosa molto importante, Calipso» disse. «Ti prego, puoi ascoltarmi?»
«Sono tutt’orecchi.»
«Mia madre ha trovato un modo per far smettere di funzionare i timer» attaccò. «Lei è, be’, morta, okay? Uccisa dal governo per questo. Comunque, io e mio padre abbiamo ritrovato il suo progetto e abbiamo costruito il congegno da lei ideato. Ora, ci serve che tu… cosa?»
«Non morirai» sussurrò di nuovo Calipso con le lacrime agli occhi. «Tutte le persone per cui io abbia mai provato qualcosa si sono allontanate da me, e tu… Tu hai costruito un modo per restare.»
Leo arrossì e si grattò la nuca nervosamente. «Sì, be’, il merito non è tutto mio, ma…»
«Ma rimarrai.»
Non esitò. «Sì.»
Calipso si fece di nuovo seria e ordinò: «Dimmi tutto.»
Leo le raccontò il piano, spiegandole la sua parte e quanto fosse fondamentale per la buona riuscita di esso. La ragazza cercò la sua mano mentre parlava e lui gliela strinse. Era sconvolgente quanto lei cercasse conforto in lui, e lui ne trovasse in lei. Quando finì, attese il suo responso.
L’espressione di Calipso era ferma, la sua voce decisa. Non tentennò nemmeno per un secondo. «Lo farò.»
Fu come essersi liberato di un peso, nonostante il sollievo non ebbe lunga durata. Ora che Calipso aveva accettato, si stava mettendo in pericolo a causa sua ed era un pensiero difficile da tollerare.
Leo si sfilò dalla tasca della giacca un cubo non più grande di una mela e lo fece passare attraverso le sbarre. Era in tutto e per tutto simile a uno dei marchingegni che prelevavano il tempo dai timer come pagamento, anche se la sua funzione era diametralmente opposta. Calipso lo prese in mano e lo nascose tra le pieghe della vestaglia.
Leo appoggiò la fronte alle sbarre per starle ancora più vicino e le carezzò il dorso della mano. Calipso lo imitò, facendo un respiro profondo che le scosse le spalle. Leo avvertiva il calore del suo corpo nel punto in cui le loro due fronti si toccavano, un piccolo focolare tra il freddo acciaio che gli premeva contro le tempie. Chiuse gli occhi e riuscì a sentire il suo naso sfiorare la punta di quello di Calipso. Lei si spinse più vicino, cercando di annullare ogni distanza rimasta tra loro. Le labbra di Calipso erano morbide quanto se le era immaginate. Fu un bacio lento, dolce. Lungo e delicato. Come seta e come le ultime braci di un fuoco.
Dopo, Calipso tenne le sue labbra sulle sue. «Io ti voglio qui» sussurrò.
«Io ti voglio qui» ripeté Leo, piano.
 

 
I TACCHI DI CALIPSO RIMBOMBAVANO SUL PAVIMENTO A SCACCHI MENTRE SI AVVICINAVA AL BANCO.
Devi recarti in banca, le aveva detto Leo. Chiedi di poter accedere personalmente al tuo fondo fiduciario. Sei una delle persone più importanti di Los Angeles, come tuo padre, e sicuramente ti faranno entrare nel caveau. Se così non fosse, non importa, il congegno funzionerà anche collegato ad un altro computer, seppur più lentamente. Se riesci a entrare, individua il server principale, il sistema che organizza la gestione dei timer. Ovviamente, non dovrai farti notare, per cui assoluta nonchalance. Non sei una ladra, sei la figlia di Atlante e puoi fare ciò che vuoi, quando lo vuoi. Uscirai da lì e ritornerai a caso senza che nulla sia accaduto. Le aveva sorriso. Perché è così.
Per tutto il tempo, io e mio padre ti seguiremo con le telecamere in cui ci saremo inseriti. A fine lavoro, cancelleremo le registrazioni in cui compari tu e le sostituiremo con un filmato in loop. Quindi, raggio di sole, non avere paura.
Calipso tossicchiò, attirando l’attenzione di un’impiegata con gli occhi fissi al computer. La luce dello schermo si rifletteva sulla lente dei suoi occhiali.
«Buongiorno, signorina. Come posso aiutarla?»
La ragazza le sorrise, accondiscendente. «Buongiorno a Lei. Gradirei accedere di persona al fondo fiduciario istituito a mio nome.»
L’impiegata non le chiese nulla, limitandosi a informarsi riguardo le sue generalità. Non appena Calipso aprì bocca e rispose, il suo atteggiamento cambiò all’istante. La donna divenne una campionessa di formalità e buon esempio per i colleghi.
Si alzò dalla sua postazione, si lisciò la gonna a tubo e disse: «La prego di seguirmi.»
«Certamente.»
Si allontanarono dalla postazione e si addentrarono all’interno della banca. Entrarono in un ascensore che si era appena liberato, l’impiegata vicino alle porte e Calipso più indietro.
«Al quinto piano potrà avere un quadro generale del suo conto. Invece, se vuole verificarlo personalmente, dobbiamo scendere.»
«Allora scendiamo» dichiarò Calipso. «Mio padre desidera che io sia in grado di gestire il mio fondo da sola, nonché le intere aziende della Atlas Corporation, in futuro.»
Bastò il nome di suo padre a far irrigidire ancora di più la donna. «Assolutamente.» E premette il bottone dell’ottavo piano verso il basso.
Il sorriso di Calipso rimase sempre lo stesso, mentre camminava verso il fulcro della banca. Arrivate davanti all’ingresso del caveau, si fermarono davanti all’uomo che stava lì di fronte.
«La signorina desidera accedere al suo fondo fiduciario.»
Un guizzo di riconoscimento ravvivò lo sguardo della guardia. Si voltò e compose un codice su un pannello affisso al muro. Quando esso si illuminò di una luce verde, l’uomo si voltò nuovamente verso di loro e disse: «Prego, signorina.»
Calipso gli rivolse un cenno del capo e varcò la soglia.
Non era mai stata nel caveau di una banca, né aveva mai provato ad immaginarne uno, ma il tutto era coerente alla sua funzione di mero contenitore di calcolatori di tempo. Poteva apparire come un centro di controllo informatico o un assembramento di armadietti di una squadra sportiva. File e file di computer riempivano la sala, che doveva essere enorme, e il ronzio basso delle ventole copriva il rumore dei loro passi. Decine e decine di lucine colorate si accendevano e si spegnevano a intervalli regolari di pochissimi secondi e, se Calipso li osservava troppi a lungo, le andava insieme la vita. I fili erano legati insieme ordinatamente e sembravano anaconda appostate tra i pc.
«Affascinante» commentò Calipso. «La funzione di ognuno di questi server è indifferente?»
«In linea di massima, sì, è così. Ma ci sono alcune differenze che non è dato divulgare per motivi di sicurezza» rispose l’impiegata.
«Capisco» replicò Calipso, omettendo ogni emozione.
La donna in tailleur la condusse a una fila di computer identica alle precedenti. Calipso si tenne stretta la borsa e sentì la sporgenza del cubo al suo interno.
«È questo?» domandò.
L’impiegata annuì.
Calipso si schiarì la gola. «Gradirei essere lasciata sola, grazie.»
«Oh.» La sua accompagnatrice finse rammarico. «Mi dispiace, ma non è permesso lasciare soli i clienti nel caveau.»
«Io non sono una cliente, io sono la tua datrice di lavoro» ribatté, secca.
«Mi dispiace» ripeté la donna.
Calipso distolse lo sguardo per un attimo. «Mio padre non ne sarà affatto contento…» disse, e la sentì trattenere il fiato, nonostante fosse evidente che non avrebbe ceduto. «… ma soprattutto non lo sarò io.»
Si girò di scatto e la colpì in faccia con la borsa, imprimendo tutta la sua forza. L’impiegata indietreggiò, inciampò nei tacchi e cadde battendo la testa. Gli occhiali si infransero.
«Oh, Dio» si lasciò sfuggire a voce un po’ troppo alta.
Calipso si chinò sul corpo della donna e le premette due dita sul pulso. Sospirò di sollievo nel sentire che respirava ancora.
Quindi, si alzò e tirò fuori dalla borsa il congegno di Leo. Quando si rese conto di non avere idea di come usarlo, perché lui non gliel’aveva spiegato, lo maledisse con tutto il suo animo. Fece l’unica cosa che le venne in mente in quel momento: premette pulsanti a casaccio e pregò che accadesse qualcosa a tirarla fuori da quell’impiccio. Sentì montarle l’ansia dentro il petto, perché era una stupida e non sapeva che fare e doveva agire in fretta e perché diamine Leo si era dimenticato un dettaglio così importante e
All’improvviso, notò che uno dei lati del cubo che aveva in mano presentava una rientranza, una fessura del tutto compatibile con l’attacco di una presa USB. Un cavetto di quel genere sporgeva dal pc e Calipso lo prese tra le dita tremanti. Lo infilò nel cubo e constatò con sua immensa gioia che ci entrava alla perfezione. Pochi istanti dopo, le lucine del server si erano alterate e il macchinario emetteva bip molto più forti, decisamente anomali.
Calipso strinse i pugni, chiuse gli occhi e strinse le labbra per non mettersi a gridare la sua felicità. «» sussurrò tra i denti.
Abbandonò quel computer, scavalcò il corpo dell’impiegata e, mentre si avviava verso l’uscita, si inventò una bugia più o meno credibile da rifilare alla guardia. La quale, quando la vide uscire non accompagnata, si allarmò.
«Pensavo si trovasse qui» spiegò, accigliandosi. «L’ho pregata di lasciarmi da sola un momento e, dato che non era nelle mie vicinanze, ho creduto che fosse uscita. Forse è opportuno che vada a vedere dov’è» suggerì.
«Sicuramente» replicò l’uomo, entrando nel caveau.
Calipso contò tre secondi, prima di scivolare velocemente verso gli ascensori. Si fiondò dentro il primo e pigiò ripetutamente il pulsante del Piano Terra, come se questo potesse aiutarla ad arrivare insù più in fretta. Sorrise al pensiero di Leo che la guardava attraverso l’occhio di vetro della telecamera e gioiva insieme a lei per quel successo.
Preparò l’espressione indifferente da offrire al resto della gente e, quando le porte si aprirono con un ding, nessuno avrebbe potuto indovinare quello che aveva appena fatto. Nonostante ciò, Calipso sentì tutti gli occhi spostarsi su di lei, gli sguardi che la osservavano in cerca dei suoi più reconditi segreti, le malelingue sparlare al suo passaggio.
Mancavano cinque metri alle porte di vetro dell’ingresso, quando udì la voce della guardia chiamare il suo nome. Lei si arrestò per un secondo, ma poi sorrise come se nulla fosse accaduto e continuò ad avanzare.
Pensò: non è niente. Pensò: non mi raggiungerà. Pensò: non oserà toccarmi.
Una mano forte calò sulla spalla destra e la bloccò. Un’altra le strinse il braccio opposto e la strattonò indietro.
Pensò: il congegno deve funzionare a tutti i costi. Però sapeva che niente sarebbe andato come secondo i piani.
«Che cosa succede?» esclamò Calipso, tentando di liberarsi. «Che cosa succede?» gridò.
Non stette nemmeno ad ascoltare la risposta. La conosceva già.
Diede un calcio nello stinco al tizio che le stringeva il braccio e godette del suo mugugno di dolore. Sentì gli occhi bruciarle quando la presa sul suo arto aumentò, diventando a mala pena sopportabile. Si dimenò, cercò di divincolarsi, menò pugni e gomitate, sferrò calci, si agitò tanto che dovettero sollevarla da terra di peso e trascinarla via.
«Lasciatemi!» strillò, scuotendo forte la testa, i capelli che frustavano l’aria. «Lasciatemi andare!»
Qualcosa le punse il braccio. Calipso spalancò gli occhi e si guardò sopra la spalla sinistra. Osservò impotente un ago bucarle la vena e il sedativo entrarle nel sangue.
Sentì la testa farsi pesante, così pesante…
                                                           … ricaderle sulla spalla, come qualcosa di
morto.
Ingaggiò battaglia contro le sue palpebre, ma quelle
si chiusero
inesorabilmente.
 

 
LA SEDIA SCRICCHIOLÒ QUANDO VI SI SEDETTE SOPRA. Le assicurarono le manette a una catena legata a terra. Dopodiché, li lasciarono soli, nel silenzio.
Leo le sorrise. «Raggio di sole» le disse, piano e con sicurezza, la voce morbida ma forte.
Calipso scoppiò a piangere.
Non poteva a farcela, non ne era in grado. Era… solo… troppo. Non era capace di reggere quelle parole, quelle emozioni, tutto quello che Leo rappresentava per lei. E il suo fallimento. Come poteva, come poteva, guardarlo negli occhi, sentire la sua voce, accettare l’amore che provava per lei, quando l’aveva condannato a morte? Lei aveva fallito e il prezzo della sua incapacità era la morte della persona di cui era perdutamente innamorata. Ed era ingiusto ed era sbagliato ed era una crudeltà, ma sarebbe successo ugualmente.
«Ehi.» Leo si chinò su di lei e le prese il viso tra le mani. «Ehi. Raggio di sole, guardami. Per favore.»
«Non posso.»
«Puoi, invece» ribatté Leo. «Ti prego. Calipso. Guardami.»
Calipso obbedì. Vide un sorriso annegare tra le sue lacrime.
«Ciao» la salutò. «Per favore, non piangere. Altrimenti, penserò che non sono abbastanza carino per una come te.»
Calipso rise, una risata resa roca dal pianto. «Che scemo.»
Leo le passò un pollice sulla guancia e le asciugò una lacrima. «Oh, così va bene. Ora sì che ti riconosco, splendore. Come andiamo?»
Calipso valutò l’ipotesi di rispondergli sarcasticamente, ma pensò fosse meglio essere seri, in quella situazione. «Bene. Tutto considerato, ovvio» disse, sforzandosi di smettere di piangere. «Non sono quasi mai ammanettata, questa è tutta precauzione, hanno paura che possa nuocere alla tua persona. Ho ancora addosso i miei vestiti, poi. Comunque, mio padre mi ha già fatto visita e mi ha detto che mi farà uscire tra qualche giorno. Non sono neanche incriminabile, voglio dire, le telecamere quel giorno erano difettose…»
Leo capì ciò che intendeva davvero: potevano incolparla per aver ferito una dipendente della banca, ma non c’erano altri capi d’accusa, perché i filmati erano stati da lui manomessi.
Calipso tirò su col naso e continuò. «Le cifre sul mio timer non sono cambiate. È tutto normale, quindi?»
Leo sogghignò. «Già. Normale.»
Fischiettò. Si guardò attorno.
Calipso inarcò un sopracciglio. «C’è altro che vuoi dirmi, Leo?» domandò, cauta.
«Niente. Stavo solo riflettendo. Voglio andare in Cina, sai, e mi chiedevo se la Muraglia Cinese fosse ancora in piedi. Tanto, ho tutto il tempo del mondo a disposizione…»
Tempo?, pensò Calipso.
«In questi giorni, ero così annoiato che ho studiato la piantina di questa prigione di Los Angeles» continuò. «L’ho praticamente imparata a memoria, sai.» Sospirò. «Vedi cosa fanno le persone quando hanno tempo da perdere, bah.»
Calipso avvertì un formicolio all’avambraccio sinistro. Guardò Leo, confusa.
Il ragazzo le rivolse un ampio sorriso. «Tutti effetti collaterali, raggio di sole. Non ti preoccupare.»
Calipso sgranò gli occhi, si sollevò la manica della camicetta ed emise un urletto di stupore. I numeri tatuati sulla sua pelle stavano cambiando a una velocità impossibile, andavano così in fretta che i contorni delle cifre sembravano svanire. Ma non provava dolore, non si sentiva più debole. Il timer si stava semplicemente azzerando.
Lanciò un’occhiata a Leo, esterrefatta. «Come hai fatto?»
«Questa è la bellezza dei virus informatici: quando entrano in un sistema, non si fermano più finché non hanno distrutto tutto» rispose lui. «Ora, però, è meglio se ci sbrighiamo. Dobbiamo uscire da qui.»
Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni quelle che un tempo erano state due graffette e che adesso erano due oggetti perfetti per sbloccare il meccanismo delle manette.
Calipso gli gettò le braccia al collo e gli stampò un bacio sulla bocca. «Sei un fottuto genio!» esclamò.
Leo arrossì un po’, mentre le prendeva la mano e la conduceva fuori dall’area della prigione destinata agli incontri. Le guardie non si erano ancora capacitate di ciò che stava loro accadendo e si guardavano l’un l’altra, incapaci di agire. Leo rubò con estrema facilità il mazzo di chiavi a una di loro, che se ne accorse al rallentatore.
«Corri!» gridò Leo, mentre la guardia si voltava verso di loro, ma Calipso lo stava già facendo.
Aveva le gambe più lunghe e la falcata più ampia, così, senza volerlo, finì per trascinarsi dietro il ragazzo, che le indicava dove andare e che tirava fuori le chiavi quando serviva. Le due guardie erano sempre dietro di loro, ma se c’era una cosa di cui Calipso era certa in quel momento, era che non li avrebbero raggiunti.
Per quello che ne sapeva, i corridoi si snodavano per kilometri e kilometri e loro li stavano percorrendo tutti in una volta. Se Leo non li avesse guidati attraverso quel dedalo, si sarebbero persi sicuramente.
Le scarpe che si abbattevano sul suolo, il fiato che iniziava a mancarle e i capelli sciolti che le schiaffeggiavano la faccia.
Calipso si guardò indietro, verso Leo e la mano che ancora gli stringeva, e si accorse di essersi lasciata alle spalle la prigione. Stava correndo sull’asfalto fumante per il caldo accumulato durante il giorno e sotto il Sole color arancio del tramonto. Ma quand’erano usciti? E come? Importava davvero?
«La bicicletta!» ansimò Leo, indicandole freneticamente un punto più in là.
Calipso lo condusse alla fine dell’isolato e si fermò. La fatica della corsa le ricadde addosso tutta in una volta. Sentì le sue ossa liquefarsi e i muscoli diventare poltiglia. Si piegò sulle ginocchia e recuperò il fiato.
Leo stava collassando, ma si buttò sulla bici e strinse forte il manubrio. «Monta… sul portapacchi» disse.
Calipso si tirò su e fece come le diceva, mettendosi a cavalcioni lì sopra. Ebbero qualche difficoltà a partire, ma, non appena si furono messi in moto, acquistarono sempre più velocità.
Calipso si strinse a Leo e gli gridò nell’orecchio. «Dove andiamo?»
«A prendere un aereo» le urlò lui in risposta.
Los Angeles sfrecciò loro accanto mentre passavano. I grattacieli di vetro, i palazzi nuovi e vecchi, i negozi e le loro insegne illuminate, i commercianti che ritiravano la merce dai banchi, i lavoratori che facevano jogging a fine orario, i gruppi di breaker che ballavano all’incrocio per guadagnare qualcosa, i vecchietti a spasso con i loro fedeli compagni a quattro zampe, amici che si prendevano un aperitivo al bar, la gente che forse non si era nemmeno accorta della rivoluzione ma che era felice, e da quel momento in poi lo sarebbe stata senza più limiti.
Leo pedalò fino a un parcheggio a più piani, che salivano arrotolandosi su se stessi. «Dobbiamo scendere, raggio di sole» le disse.
Smontarono dalla bicicletta, che abbandonarono in strada, e corsero su per le scale, anche se non c’era più un motivo per correre. I conducenti delle auto che passavano in uscita li guardavano straniti. Forse li pensavano dei pazzi e forse avevano ragione. Sentirono le grida di due mamme con spesa e bebè in braccio e si fermarono a controllare; avevano notato il cambiamento di cifre sui loro avambracci e stavano piangendo lacrime di gioia. Leo e Calipso si sorrisero e continuarono a salire.
Arrivati all’ultimo piano, trovarono la terrazza occupata da un’aeronave nera opaca. Ad aspettarli, davanti ad essa, c’era Frank Zhang in giacca e cravatta e ampio sorriso.
Calipso non resistette alla tentazione di abbracciarlo stretto. «Non so ancora qual è il tuo ruolo in tutto questo, ma ti ringrazio di cuore.»
Frank ricambiò la stretta, un po’ impacciato. «Ehm, sto solo tornando in Cina. Questa volta, ho solo pensato che fosse opportuno portare qualcun altro con me.»
Leo tossicchiò. «Veramente, sono io che ho ideato il tutto. »
Calipso si separò dal giovane e ridacchiò nel vedere che sguardi riservava all’altro.
«Sì, ma io ho messo a disposizione l’aeronave» replicò.
Leo fece una smorfia. «Ma io ho messo a disposizione l’aeronave» motteggiò.
Prima di cedere agli istinti omicidi, Frank si voltò e li informò: «Io vado ad allacciarmi le cinture. Hazel e tuo padre sono già a bordo, Valdez. Non metteteci troppo a salire, okay?»
Frank scomparve all'interno dell'aereo. Il vento spazzava il cemento e le nuvole si muovevano pigre nel cielo.
Calipso dedicò una lunga occhiata al suo ragazzo. «E così, andiamo in Cina.»
Leo sogghignò. «Siamo dei criminali, ora.» Sembrava che l’idea lo divertisse parecchio, e Calipso ci avrebbe scommesso.
«Rimanere in America è troppo pericoloso, giusto» osservò. Si guardò i piedi. «Non so… non so come sentirmi riguardo a mio padre e al fatto che lo abbandonerò qui. Tu cosa ne pensi?»
Leo le prese la mano. «Io penso che tu sia la bella principessa prigioniera nella torre e io il cavaliere destinato a salvarti» rispose, ma il suo tono leggero nascondeva la dolcezza e l'apprensione.
Calipso decise di dimenticarsi per un attimo dei suoi problemi e sorrise. Ricambiò la stretta, scambiò uno sguardo con Leo e si voltò verso l’aeronave.
«Andiamo?» gli chiese.
«Avanti verso l’ignoto» rispose lui.
 
[1] “Chi è il mio bel bambino? Sei tu!” “Chi è la tua bella mamma? Sono io!” Non parlo un’acca di spagnolo, perciò mi scuso se queste traduzioni sono errate. A mia discolpa, posso dire che ho usato Google Translate.
  
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