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Autore: MadAka    24/05/2015    4 recensioni
Matthew Evans – il principe della situazione – è un celebre giocatore di rugby riconosciuto a livello internazionale.
Danielle Philips – la Cenerentola di turno – è una delle donne di servizio dello stadio in cui lui gioca insieme alla sua squadra.
A fare da sfondo Cardiff e il Galles, per una stessa passione raccontata da due punti di vista diametralmente opposti.
Genere: Commedia, Sentimentale, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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– Uno –

 

Matt

 

 

Non capisco come sia successo. Non ho visto l’attimo, né il frangente, né il gesto che ha scatenato tutto. Vedo solo Scott avventarsi sull’altro, afferrarlo per la maglia e tirarlo minacciosamente verso di sé. Poi tutto accade in pochissimo tempo. Alcuni nostri compagni di squadra si avvicinano per dividere i due – intenti a provocarsi e strattonarsi reciprocamente – imitati da alcuni dell’altra squadra.

Mi avvicino anche io:

«Scott, smettila» dico, prendendo per la spalla il mio amico, che mi guarda e si libera subito, tornando a concentrarsi sul suo rivale. Ed è quest’ultimo a prendersela con me praticamente subito. Avvinghia il colletto della mia maglia:

«Stanne fuori» esclama, spingendomi indietro.

Lo screzio ormai è degenerato. Altri giocatori – maglie azzurre contro bianche – si provocano a vicenda, altri ancora tentano di dividerli; le grida del pubblico fanno da cornice al tutto, a cui si unisce anche l’arbitro con il suo fischietto, suonano praticamente all’altezza del mio orecchio.

«Adesso basta. Smettetela subito o sanzionerò qualcuno»

Altri due richiami simili e tutto si interrompe, le squadre si dividono e l’arbitro chiama a sé i due capitani, per far loro il suo discorsetto. So già cosa sta dicendo loro, di informare i giocatori che quello non è il comportamento da tenere, che la prossima volta ci saranno anche dei cartellini gialli. Ma nel nostro sport, il rugby, queste scaramucce sono abbastanza frequenti, soprattutto se il match non è ancora ruotato a favore di una delle squadre e si è sullo zero a zero al trentaquattresimo minuto di gioco. Mi avvicino a Scott:

«Che ti è preso?» gli chiedo.

Lui mi squadra, poi allarga le braccia:

«Mi ha provocato, non l’hai visto?»

Scuoto la testa:

«No, non l’ho visto. Comunque sia hai fatto male a reagire. Se l’arbitro chiama il TMO1 è la volta buona che ti cacciano fuori»

Fa una smorfia:

«Non siamo in nazionale oggi, non sta a te farmi discorsi da capitano»

«Non ti sto facendo discorsi da capitano, ma da compagno di squadra» gli faccio notare.

Lui farfuglia qualcosa e mi dà le spalle per allontanarsi, mostrando il numero tre impresso sulla maglia rigata azzurro-blu. Scott Williams è sempre stato una testa calda e di certo non avevo alcuna intenzione di fargli una ramanzina poco fa. Volevo solo fargli notare che non ha senso rischiare un giallo per uno strattone o per qualunque altra cosa sia successa. Rimanere in quattordici contro quindici, soprattutto quando i nostri rivali sono i nordirlandesi dell’ Ulster, sarebbe la fine.

L’arbitro fa riprendere la partita, fischiando. Annuncia che è calcio di punizione per loro e il numero dieci irlandese ci ricaccia, con un potentissimo sinistro, nei nostri ventidue2. Raggiungo insieme agli altri il punto esatto da cui il gioco ripartirà con una touche3 e aspetto che tutto sia pronto. Appoggio le mani sui fianchi, mentre giocherello distrattamente con il paradenti. Mi sento la gola bruciare e le spalle già indolenzite. Sette mischie4 solo nel primo tempo – che per di più non si è ancora concluso – sono davvero tante e le sto sentendo tutte sul mio corpo. Ma la pioggia che continua a scendere, fine, fredda e tagliente, ha reso il pallone maledettamente scivoloso; schizza fra le mani come una saponetta e tenerlo stretto è complicatissimo. Di conseguenza il fallo più frequente che si commette è il passaggio in avanti, con successiva ripresa del gioco da una mischia.

I primi otto uomini si dispongono per la touche e mi infilo fra il mio numero sei e il quattro, pronto. Il silenzio che caratterizza questo momento del gioco è sempre inverosimile, solo fuori dal campo provengono delle voci, quelle dei tifosi. Il tallonatore dell’ Ulster afferra l’ovale, scambiando un’occhiata d’intesa con il suo capitano. Questi, di rimando, guarda il numero cinque, schierato praticamente accanto a me, che inizia così a dare le indicazioni per il lancio. Il fischio dell’arbitro sovrasta le voci, frettoloso, e, con quel segnale, il gioco riprende.

 

*

 

Il medico osserva la ferita, tiene il mio braccio fra le mani, il suo pollice sinistro preme appena sulla pelle, come se volesse accertarsi che quella stessa ferita non possa ricominciare a sanguinare. La pioggia che ha continuato a scendere per tutto il match l’ha lavata come ha potuto, facendo scorrere rivoli prima rossi intensi, poi sempre più dilavati e scialbi. Alla fine l’uomo pare convincersi, comincia a tamponare il mio taglio con del cotone imbevuto di disinfettante. Lo pulisce meglio che può da erba, terra e vaselina, in silenzio. Io lo guardo distrattamente, pensando alla partita.

«Ti brucia, Matt?» chiede.

Scuoto la testa e gli sorrido; acqua ossigenata sulle ferite l’ho già provata numerose altre volte.

Il fatto di dovermi sottoporre a questa operazione anche ora, al termine della partita, è dovuto ad una lacerazione da tacchetti da scarpe, avvenuta durante una ruck5. Raggruppamento a terra, io che tento di rubare il pallone e pedata che arriva volontaria sul mio braccio destro, lacerandomi la carne. Fallo antisportivo. Cartellino giallo per loro e calcio di punizione per noi, che purtroppo Mike non è riuscito a centrare, mancando i tre punti che ci sarebbero tanto serviti per la vittoria.

Il medico finisce di passare il disinfettante e comincia a fasciarmi con la garza la ferita ora pulita.

Abbiamo perso per due, dannati, punti. La cosa mi fa rabbia, ma se ripenso al match sono comunque orgoglioso della squadra. Abbiamo lottato alla pari con l’ Ulster per più di settanta minuti, inseguendo il loro punteggio e avendoli a portata di tiro sempre. Non ci siamo mai arresi e sento che avremmo potuto vincere se la prima meta fosse stata nostra. Ma dopo quella touche, quella touche regalata loro anche dalla reazione di Scott che ha provocato quegli screzi, i primi sette punti dell’incontro sono stati segnati sul tabellone dal lato irlandese.

«Ho finito» annuncia l’uomo.

Mi alzo e lo ringrazio, guardando un momento la fasciatura, poi esco, diretto agli spogliatoi. Sento ancora tutto il peso della partita addosso. Il prato pesante, fradicio di pioggia, in cui le scarpe affondavano e correre diventava faticoso il doppio. Gli impatti fisici, i placcaggi e le mischie. Tutto si ripercuote su di me; ho il collo indolenzito, per non parlare delle spalle e della schiena. Sento che se non immergo subito il corpo in acqua ghiacciata domani sarò ricoperto di ematomi. Ma prima mi serve una doccia; sono totalmente infreddolito e la mia divisa, che ancora indosso, umida e sporca, non mi aiuta di certo.

Raggiungo gli spogliatoi, ma prima che possa appoggiare la mano sulla maniglia per poter entrare, la porta si apre e ne esce il nostro allenatore.

«Ah, eccoti qui Matt» dice.

Si chiude la porta alle spalle e mi posa una mano sul braccio, facendomi capire che vorrebbe mi allontanassi un po’ dagli spogliatoi.

«Come va il braccio?» mi chiede, appena terminiamo di compiere quei quattro, cinque passi, che, ho capito, voleva facessi.

Guardo la fasciatura:

«Va benone, è solo scena» dico.

«Ho già parlato con i ragazzi» riprende: «E non penso di avere qualcosa da dirti che tu non sappia»

Annuisco tentando di guardarlo saldamente in faccia. So che è il mio allenatore ed è un uomo per cui nutro profonda stima, ma sono esausto. Vorrei solo cambiarmi, fare una doccia e sedermi da qualche parte per lasciar riposare il mio corpo.

«Per quel che ti riguarda, Matt, hai giocato un’ottima partita, davvero. Non ho assolutamente niente da rimproverarti, al contrario» Sorride: «Anzi, sto già pensando a come faremo senza di te durante i test match di novembre»

Anche io sorrido:

«Cosa le fa pensare che possa venire convocato in nazionale a novembre?» chiedo.

«Perché non dovrebbero farlo? Non solo verrai convocato, ma sarai sicuramente nominato capitano, proprio come le ultime volte. Hai la stoffa per queste cose»

Alzo le spalle. Non mi sono mai né sentito né visto come un leader e quando sono stato nominato capitano della nazionale gallese, ormai due anni fa, mi è sembrata un’idea totalmente assurda, soprattutto perché nei Cardiff Blues non lo sono, ma sono una semplice terza linea.

«Lei esagera» dico.

Il coach mi dà una sonora pacca sulla spalla, ridendo:

«La tua modestia è una dote rara ed è una delle altre cose che ti rendono una buona guida per la tua nazionale. Fidati di me. Se Jones non dovesse convocarti per i test match se ne pentirebbe e basta. Sarebbe stupido e ti garantisco che lui, stupido, non è. Sono io quello che dovrà fare a meno di te in quel mese»

«In squadra ci sono ottimi giocatori. Hanno già vinto molte partite anche senza di me»

Posa entrambe le mani sulle mie spalle e mi guarda, sorridendo:

«Va' a cambiarti» dice infine. Poi si allontana.

Lo guardo un momento, dopodiché entro in spogliatoio, finalmente.

L’umore che si percepisce nella stanza lascia trapelare chiaramente la delusione per la sconfitta appena subita. Parlano in pochi, gli sguardi sono bassi e solo alcuni incrociano il loro con il mio. Probabilmente tutti stanno pensando la stessa cosa, ossia che avremmo potuto vincere. Ci saremmo potuti riuscire davvero questa volta, è un peccato che non sia andata così, ma in fin dei conti è solo il primo turno del nuovo anno di campionato, abbiamo ancora tempo per perfezionare il gioco.

Mi sfilo la maglia, non sopportando più di tenerla addosso. Mentre cerco le cose per andare a farmi una doccia Brian, il capitano, mi raggiunge. Indossa anche lui solo la parte inferiore della divisa.

«Hai incontrato il coach, vero?» mi chiede.

Annuisco, sistemandomi l’asciugamano sulla spalla:

«Perché?» domando.

«Era per sapere se serviva dirti quello che ci ha detto oppure no. Ma direi di no» conclude, poi guarda il mio braccio destro: «Come va?»

Anche io poso lo sguardo sulla fasciatura e sorrido a Brian:

«Non morirò di certo»

Mi dà un paio di pacche sulla schiena e si allontana. Io mi passo una mano fra i capelli e, infine, mi avvio verso le docce.

Tutta una serie di pensieri cominciano ad accavallarsi nella mia testa. È solo il cinque settembre e il mio allenatore ha già cominciato a parlare dei test match6 di novembre. Avrei preferito non dover cominciare a pensarci così presto, ma ora non riesco a fare altro. Ci aspettano tre fra le squadre più forti del mondo: Australia, Sud Africa e, soprattutto, Nuova Zelanda e se il mio ed coach ha ragione – e di rado si sbaglia – toccherà a me guidare il Galles contro queste tre forze.

Non devo pensarci, ho ancora tempo e prima devo concentrarmi sulle altre partite del campionato di Pro12. La verità è che, per quanto mi senta onorato ad essere il capitano della nazionale gallese, ammetto che, a volte, vorrei essere solo uno dei tanti giocatori che in pochi considerano. Tuttavia, per qualche motivo che a me sfugge tuttora, io sono l’esatto opposto di quei giocatori. Da un paio di anni a questa parte vengo etichettato come un’ icona del rugby gallese, il giocatore di talento che però continua a giocare in un club locale senza accettare i contratti esteri che gli vengono proposti. I giornalisti continuano a cercare di attribuirmi motivazioni per la mia permanenza a Cardiff che non hanno praticamente mai avuto senso. Io amo la mia città e amo giocare a rugby, per fare tutto questo non ho bisogno di allontanarmi, mi basta restare nello stesso club da cui ho cominciato. Voglio una vita tranquilla, con una famiglia normale, non mi importa di correre dietro a contratti prestigiosi o a città estere. Ma la stampa pare non arrivarci e il gossip ancora meno. Si inventano storie su di me, mi affibbiano frasi che non ho mai detto, opinioni che non ho mai espresso. Qualche settimana fa i tabloid mi hanno attribuito un’ ipotetica relazione sentimentale con una modella con cui ho parlato una sola sera e ho trovato la cosa completamente assurda. Ho cercato di capire come fosse stata possibile una cosa simile e sono venuto a scoprire che lei aveva detto ai giornali che io avevo flirtato. Il concetto di flirtare per le modelle deve essere particolare dato che, quella sera, mi ero limitato ad annuire ai suoi discorsi bevendo birra.

«Uno come te farebbe meglio a rimanere single il minor tempo possibile» mi aveva detto il mio caro amico Paul – trasferitosi per giocare in Francia – a cui avevo spiegato la cosa qualche giorno dopo l’accaduto. Aveva concluso suggerendomi di mettermi con una qualsiasi, giusto per acquietare i tabloid e riprendermi un po’ della mia pace. Ero scoppiato a ridere e gli avevo detto di lasciar perdere. Non sono il tipo. Se mi dovessi mettere con qualcun’altra, qualcun’altra dopo Meg, deve essere perché lei è quella giusta.

Apro l’acqua e lascio che questa scivoli calda sul mio corpo. Troppi pensieri, troppe preoccupazioni tutte insieme. C’è ancora tempo per i test match, almeno un altro mese. Non devo pensare ora a come dovremo affrontarli e, oltretutto, non è detto che io sarò sul campo del Millennium Stadium quei giorni; non devo dare per scontata la mia presenza in nazionale.

Le voci nello spogliatoio cominciano a farsi più alte, qualche risata scoppia qua e là. I ragazzi devono essere sulla buona strada per ritrovare il loro ottimismo e il fatto che si stia avvicinando il terzo tempo7 li aiuta sicuramente. Anche io dovrei unirmi alla loro ricerca della felicità, dovrei lasciare da parte tutto ciò che si è accavallato nella mia mente in così poco tempo. Dovrei dimenticarmi dei tabloid e dei loro gossip, lasciar perdere i test match di novembre, non pensare alle mie spalle che continuano a farmi malissimo per colpa di tutte le mischie della partita. Ce la posso fare, ce l’ho sempre fatta.

Mi serve solo una birra.

 

 

 

 

 

 

 

Era da un po’ che avevo voglia di scrivere una nuova long, una storia a più capitoli per poter tornare a pubblicare qui su Efp in modo non occasionale.

Chi ha letto altri miei lavori, probabilmente, ha capito quanto io ami il rugby, uno sport che seguo da alcuni anni e che continua ad appassionarmi sempre di più.

In questa storia, questo sport, non si limiterà a fare da cornice, ma sarà un legante, forse il legante.

Perciò mi sento in dovere di dire questo: se odiate il rugby, o non vi appassiona per niente, questa storia non fa per voi.

Ma se vi incuriosisce, anche solo appena, allora continuate a leggere.

Io, nel mio piccolo, spero che questa nuova storia possa appassionarvi sotto tutti i punti di vista.

MadAka

 

 

 

Note:

1 TMO: Television Match Official. Durante partite di rugby di un certo rilievo può essere presente; ha il compito di verificare se un'azione in area di meta ha portato o meno ad una segnatura valida, o a verificare se è effettivamente stato commesso un fallo. Viene chiamato in causa dall’arbitro.

2 Ventidue: linea che indica i ventidue metri dalla metà campo.

3 Touche: rimessa laterale. Rimessa in gioco della palla dal punto, lungo la linea laterale (o linea di touche, dal francese), in cui la palla era precedentemente uscita. La rimessa spetta alla squadra che non ha causato l'uscita della palla, tranne in alcune eccezioni.

4 Mischia: situazione di gioco che si viene a creare sia spontaneamente, durante fasi di gioco aperto (mischia aperta) che per ordine dell'arbitro per riprendere il gioco quando esso è stato interrotto per qualche irregolarità (ad esempio un "passaggio in avanti involontario").

5 Ruck: termine inglese per indicare un raggruppamento a terra.

6 Test match: partita ufficiale di nazionale che non rientra nei tornei internazionali (come Sei Nazione, Mondiali).

7 Terzo tempo: il tradizionale incontro dopo-gara tra i giocatori delle due squadre. Inteso come momento conviviale pomeridiano (in inglese: After-match party o drink ) oppure serale (After-match dinner ), il terzo tempo è sempre stato visto come momento di socializzazione tra i giocatori, cui spesso partecipano anche le loro famiglie e, talora, anche i tifosi; nel mondo anglosassone si svolge in genere presso la Club House della squadra che ospita l'incontro.

 

 

 

Un’ultima cosa. Vi consiglio vivamente di dare un’occhiata a questo:

 

https://it-it.facebook.com/media/set/?set=a.525673340792210.137884.137009629658585&type=1

 

Si intitola Rugby per neofiti, realizzato da Laura Guglielmo, e, a parer mio, è una bellissima guida completa su ruoli e storia – per quanto breve – di questo sport, con tanto di ottime illustrazioni.

 

 

 

  
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