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Autore: TheEldestCosmonaut    24/05/2015    4 recensioni
Una rielaborazione del mondo fantastico ideato da Leandro Consumi e Gianfranco Enrietto, e sviluppato da Giochi Preziosi ©.
In una un tempo sperduta e sconosciuta isola del Grande Golfo, situata alle porte dell’inesplorato Mare dei Serpenti, un anziano maestro nato e cresciuto qui, dal passato oscuro e dall’identità misteriosa, noto a tutti, fuorché la moglie, come semplicemente il Cronista, riunisce ogni mattina i giovani del suo Popolo di appartenenza, il Popolo della Foresta. Il Cronista insegna ai cuccioli della sua etnia la storia lunga della razza che domina l’Isola di Gorm: in particolare, è arrivato il momento per il Cronista di narrare le vicende degli ultimi cinquant’anni circa dei gormiti, i più intensi e sanguinari, quelli che maggiormente hanno sconvolto le usanze, la filosofia, la scienza, e in generale la realtà intera dell’isola, e che hanno aperto i suoi abitanti alle altre razze del Grande Golfo.
Mappe:
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Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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La Foresta Silente, incantevole amalgama di tronchi robusti, intricate ed intriganti ramificazioni, tenere e rigogliose fronde, era un miracolo della natura, una delle meraviglie più affascinanti del mondo. Nata nel tempo prima del tempo, prima della venuta dei Semidéi o degli Osservatori, secondo la religione, quando il mondo era giovane e indisturbato dal ronzare indaffarato di animali in cerca del cibo per sopravvivere a un’altra giornata, tentanti di sedurre i propri compagni e proliferare, arricchire le acque e la terra con numerosa prole nella speranza di resistere fino alla caduta del tempo, la Foresta Silente era davvero degna di questo elusivo titolo, come non lo sarebbe mai più stata nei tempi che furono e che saranno. Solitaria, senza nemici né competizione, la ricchezza della terra era tutta sua da poter sfruttare, e mai diminuiva o era fonte di problemi a causa della voracità con cui le radici impoverivano le fertili e morbide rocce, perché sempre ogni singolo albero e cespuglio ricreava se stesso e si rigenerava, abbandonando al suolo le vesti vecchie e raggrinzite di cui si era appena spogliato. La terra era tanto affamata che, se qualcuno dotato del dono della ragione avesse potuto osservare il panorama in quel remoto periodo della storia, avrebbe potuto vedere le rocce stesse aprirsi in due e divorare rami e foglie secchi, frutti e fiori che non avevano avuto successo e avevano perso colore e profumo, a mo’ di fauci.
La terra, tuttavia, non covava rancore nei confronti dei famelici giganti di legno ed erba: aveva anch’essa, prima di chiunque altro, subito il fascino che quella selva, tra tutte le altre figlie della terra, anche più grandi ed estese, comparse per le superfici emerse ed asciutte, emanava da ogni gemma, petalo e bacca, ed era ben felice di riciclare i suoi scarti per fare in modo che la Foresta Silente non morisse mai né alcun’ombra offuscasse il suo splendore.
La fortuna della Foresta Silente fu quella di poter sorgere e lussureggiare in un ambiente paradisiaco, perennemente caldo e mite; un’oasi di fertilità nel mezzo dell’oceano, inaccessibile, sperduta al limitare di quello che fu poi denominato il Mare dei Serpenti, che già allora, anche senza bestie marine a infestare le sue acque, era un inferno liquido devastato da gorghi infiniti e cavalloni impervi e dediti a un’eterna lotta per il dominio del mare disabitato.
Gli arbusti della Foresta Silente non videro mai le distese sterminate dell’oceano, salvo gli alberi maggiormente forti che si erano tanto innalzati verso il cielo da divenire i sovrani del manto verde; l’acqua della pioggia invece la vedevano bene, ed era loro amica. Periodicamente dolci acquazzoni di gocce tiepide e corpose, floride di vita, intorpidivano ininterrottamente per molti giorni gli alberi e la terra, arricchendo gli uni e l’altra con le esalazioni e i sali trasportati dal vento da luoghi che le piante della Foresta Silente non avrebbero mai potuto vedere, ma le cui esperienze assorbivano e condividevano attraverso i resti sospinti dall’aria e dalle nuvole.
Quando gli insetti emersero dalla terra secca e cominciarono a solcare i cieli protetti dai maestosi rami con le loro minuscole ali membranose, la Foresta Silente fu più rigogliosa che mai.
Piccoli operosi animaletti, figli mobili della terra, che svolgevano non solo il lavoro di mantenere intatta la grazia della Foresta meglio e più velocemente che il suolo da solo, ma la estesero oltre i confini originali, portando i suoi forti semi in luoghi che lo spirito della Foresta non aveva osato incamminarsi per paura di una perdita, e dando all’intero bosco l’esatta cognizione della grandezza e della maestosità della meraviglia che essa era.
Via via animali sempre più complessi furono partoriti dalla terra e dall’acqua, e popolarono la divina foresta con gioia, gustando i suoi frutti e anche essi facendo la loro parte nel mantenere sempre viva e mai intaccata la sua bellezza. La Foresta non fu mai tronfia o avversiva nei confronti della nuova vita mobile, e condivise felicemente ciò che aveva da offrire, che per eoni aveva sempre tenuto per sé.
Fu poi il turno della vita intelligente. Grandi e magnanimi Semidéi, portavoce degli elementi necessari al proliferare della vita, figli dei supremi Vegnet, Vorcan, Semal, Ertur e Infan, manifestazioni delle Somme Forze padrone e creatrici del cosmo, che giunsero sui mondi per donare l’intelletto e la ragione, il dono e forse l’obbligo di studiare le forze regolatrici dell’universo e di comprenderle. Su quel mondo, e in quell’isola che al tempo non era ancora stata separata dal sopraggiungere delle acque, essi crearono i Aythis, ‘gli abitanti’, che diedero Gorm come nome della loro casa, e giunsero poi a chiamare se stessi Gormaythis e in seguito gormiti, gli abitanti di Gorm. Essi erano la razza prediletta, su quel mondo – per quel che è dato sapere – dei Semidéi, e diedero ad essi in dono il portentoso Occhio della Vita, da proteggere e venerare. Questo è ciò che dice la leggenda, e non tutti le credono alla lettera. Fu così per secoli, ad ogni modo, finché la comprensione e la scienza dei gormiti crebbe così tanto da mettere in discussioni gli antichi miti e scatenare una guerra fratricida. Quei tempi però sono passati: ora si vive in pace, su Gorm, e la solidarietà riacquisita dopo quasi un millennio di storia conosciuta ha portato gli abitanti dell’Isola ad estendere i suoi orizzonti e a conoscere e a mettere anche piede su sponde altre a quelle della loro isola madre.
La Foresta Silente subì dei cambiamenti da quando la vita intelligente iniziò a calpestarne il suo suolo e a sfruttare i propri poteri per migliorarsi la vita. Il popolo prescelto per abitare l’esteso bosco non aveva problemi di sorta nell’adattarsi alla selva. Esso era sempre cresciuto lì, sapeva alla perfezione ciò che ogni tipo di pianta esigeva per crescere e per fruttare, e sapeva riconoscere con ben poche tracce il pericolo di un animale selvatico e trovare una via di fuga funzionante.
Il proliferare talmente intenso della Foresta Silente l’aveva però nelle ultime epoche resa selvaggia e impervia, e la vita senziente, più debole e sensibile delle altre forme allo scopo di poter sostenere la propria intelligenza, specialmente coloro che venivano da fuori e non conoscevano i segreti della Foresta, trovava difficoltoso abituarsi ad essa.
Il Popolo della Foresta aveva innata in sé la capacità di convivere con la Foresta Silente, di adattarsi e vivere in simbiosi con essa senza preoccupazioni eccessive, come parte integrante e non abusante, in particolar modo coloro che nel corpo più assomigliavano agli alberi nati e cresciuti in quella porzione di isola. Il sopraggiungere delle comodità anche superflue e le richieste incalzanti dei Popoli esterni portarono alfine i gormiti della Foresta a mutare la loro casa con i propri poteri. Inizialmente la cosa fu indolore: il Popolo verde era capace di volgere a proprio piacimento la direzione e la conformazione dei rami e dei tronchi con facilità e naturalezza, in modo ben diverso da ciò che era permesso dalla magia. A loro necessitava semplicemente volerlo e dare un verso al proprio desiderio con i movimenti delle mani. Case sugli alberi, rifugi nei tronchi a migliaia furono ottenute e scavati a questo modo in brevissimo tempo. Le loro abilità non si fermavano qui, anche se ora è così. Ci fu un tempo in cui tutti i gormiti possedevano non solo il potere di piegare gli elementi, ma anche di crearli, violando molte delle leggi naturali enunciate dai sapienti delle altre genti del mondo, nonché le proprie, ma poiché gormiti e poteri furono nati insieme, gli abitanti dell’Isola ci fecero ben presto l’abitudine, e per loro il controllo degli elementi fu sempre una normalità, non avendo mai avuto per molti secoli, del resto, possibilità di definire la stranezza della cosa con altre genti. Tali poteri non erano la sola stranezza dei gormiti, comunque.
Accadde insomma che case in legno per i dissimili dalle piante e per i gormiti da fuori furono erette con queste abilità al solo prezzo della stanchezza – non in termini commerciali, ovviamente – e persino nuovi alberi furono eretti in tal modo, sebbene ci si accorse subitamente che non era nel potere di alcun gormita creare la vita, solo controllarla – per quelli della Foresta. Arrivarono in seguito anche dei disboscamenti per spianare dei sentieri nella Foresta Silente, ma in modo misurato e mai senza pentimenti. Il Popolo della Foresta aveva molto a cuore il benessere della sua casa e madre in tutta la sua interezza, ed era quasi un crimine abbattere anche un singolo tronco quando per ere la Foresta era rimasta intatta e in perenne evoluzione.
Quando i poteri vennero meno, anche se c’era sempre la possibilità di piegare la materia, il Popolo della Foresta, ma non solo, iniziò a cantare gli alberi e i rami. Sì, cantando nella Prima lingua, con incantesimi. Si levavano sia di giorno che di notti i cori tremendamente musicali delle magie che i gormiti evocavano per riparare i fusti danneggiati dalle lotte che in tempi molto recenti avevano vessato la Foresta Silente e l’Isola intera.
Nonostante tutto quello che ha passato, e i mutamenti nello stile di vita degli abitanti dell’Isola di Gorm, la Foresta Silente rimane ancora una meraviglia e un prodigio, un’opera di inimitabile sontuosità della natura che nemmeno lo sforzo congiunto di tutti i gormiti dell’Isola potrebbe radere al suolo, solo il tempo.
Il Cronista lo sapeva bene, lui amava la sua casa ed era bene al corrente di come, in barba a ciò che i gormiti le avevano fatto, la Foresta Silente fosse ancora un luogo selvaggio e irto di pericoli in varie forme, nelle zone lontano dai sentieri di terriccio dove i rovi e i cespugli si fanno più fitti, e la luce stessa di Nejema fatica ad entrare.
Lui sapeva con precisione, tutta la precisione possibile, gli eventi, le atrocità, i miracoli che sotto quelle foglie fameliche di luce si erano assecondati nel corso dell’ultimo secolo. Era il suo lavoro, e sapeva con esattezza, per suo studio e solo in piccolissima parte per partecipazione o per aver assistito, anche gli eventi accaduti al di fuori delle mura invisibili e imprecisate della Foresta Silente, che avevano comunque provveduto a cambiare il corso della storia anche per il Popolo verde.
Spalancò gli occhi dorati, quasi di scatto come una tenaglia serrata, nonostante l’età gli permettesse ben pochi altri movimenti così fulminei, ritrovandosi il bruno soffitto di rami saldamente e fittamente intrecciati che sovrastava il suo letto. Il barlume del primo sole illuminava fiocamente gli interni di casa sua, alta su per l’albero di noce, attraverso rade piccole finestre, dove i viticci erano stati piegati lateralmente, coperte da tendine rosate. La luce mattiniera rischiarava debolmente la sua sedia e la scrivania del suo studio, nella stanza attigua e non separata da porte, ma da una tenda, anch’essa scostata. Si era dimenticato di chiudere, la sera prima.
Oltre ad essa, c’era la cucina e sala da pranzo, che funzionava anche da soggiorno, e null’altro. Era un gormita vegetale, il Cronista, e come ogni gormita simile alle piante necessitava di ben poco per vivere bene, contrariamente alla maggioranza della gente di Gorm. Non mancavano ovviamente alcuni suoi lussi, né quelli della moglie, ma nulla su cui egli pose lo sguardo appena svegliato.
Si perse a osservare il soffitto, senza pensieri precisi, solo vaghi, nella testa. Ogni intreccio e ogni ramo brulicava di vita, di linfa. Aria e liquidi della terra che scorrevano senza sosta dall’alto in basso e dal basso in alto, recando nutrimento dalle foglie e dalle radici a tutto il tronco e ad ogni ramo, in una crescita continua e senza fine, lenta e inesorabile. Solo un disastro avrebbe potuto fermare quella corrente flemme di energia, che fluiva anche in lui. E con disastro su Gorm, nella Foresta Silente, ci si poteva riferire unicamente alla follia di un individuo, o un gruppo di individui. I fenomeni atmosferici non provocavano mai danni enormi, in quella zona, e di terremoti, maremoti o tempeste di roccia dallo spazio vuoto oltre il cielo non se ne parlava. Le profezie l’avrebbero annunciato previamente, anche se erano molto spesso inesatte e continuamente riadattate alla vera successione degli eventi.
Mentre l’illuminazione dell’alba si faceva sempre crescente e il Cronista esitava ancora, sveglio ma immobile, sul suo letto e la riflessione improvvisata sullo scorrere dell’energia, paragonabile a quello del tempo, con la sola eccezione che era il tempo stesso a decretare la sua fine, e con essa quella di ogni cosa, il forestale si soffermò a riflettere su un particolare molto più concreto e problematico del soffitto ramificato. Tra un viticcio e l’altro, a tratti, si intravedevano alcuni spiragli luminosi, bianchi, e nei più grandi c’era addirittura una nota verdognola.
Per Krut! – esclamò tra sé, stringendosi le labbra – Questo è grave. I rami si sono sfibrati, mi toccherà andare a sistemarli, o mi entra tutta l’acqua in casa. E non solo quella.
Adocchiò innervosito un paio di formiche che gironzolavano appiccicate per il legno su di un ramo. Concentrò il suo sguardo su di esse. Anzi, una sola alla volta. Con un bersaglio così piccolo e lontano, per di più da seduti, non sapeva né poteva dare il meglio di sé. La formica in questione si bloccò. Aiutandosi con la mano, la quale nello sfilarsi dalle lenzuola urtò la moglie distesa dormiente al fianco, che replicò con un gemito, rimosse la formica dal legno, la fece fluttuare e la spinse oltre l’apertura più ampia, facendola schizzare via. La stessa sorte subì l’altro insettino, soffermatosi a fissare esterrefatto la sua compagna prendere il volo senza ali e sparire, invece che mettersi immediatamente in fuga, zampettando ovunque. Se l’avesse fatto, sarebbe forse sopravvissuta all’esecuzione del Cronista, muovendosi troppo frettolosamente perché la potesse afferrare.
Il gormita sorrise compiaciuto, ma il problema rimaneva. Altri insetti sarebbero potuti entrare dalle minuscole soglie, e magari anche qualche ricordino gettato da uccelli in viaggio che planavano sopra gli alberi. Molto meglio prevenire che curare, e rimediare subito a quei buchi.
Non ora. – si disse non molto contento, levandosi per mettersi seduto sul letto e stiracchiandosi piano, non volendo che la sua ossatura vegetale vecchia facesse rumori troppo grotteschi – Devo andare a lavorare, e mi sa che è già tardi.
Il suo orologio, adagiato sul mobile dello studio, lontano, segnava le ore…non sapeva che ore segnasse. Il motivo non era che esso fosse troppo lontano per vederci bene – a dire il vero anche quello – bensì che il Cronista non aveva mai imparato bene a leggere l’orologio. Un’invenzione elfica, o forse vicia, non rammentava, importata solo di recente nella comunità gormitica. Sapeva ad ogni modo che quando le lancette di quel meccanismo erano in una certa posizione, quella era l’ora in cui lui doveva recarsi al lavoro, o ritornare da esso. E le lancette erano poste leggermente più avanti rispetto all’ora prestabilita. Era in ritardo.
Si alzò quindi completamente dal letto – gambe e assi sempre di rami intrecciati, su cui era poggiato un materasso ripieno di piume, e un lenzuolo cucito insieme – si stiracchiò ancora un poco, emise un gridolino nel sentire male al collo per una torsione troppo spericolata, e prese la mantellina grigia riposta sul fondo del letto, il suo unico indumento. Nel senso che indossava solo quello insieme al nulla: ne aveva altri, seppur pochi, riposti nel piccolo armadio.
“Di già, caro?” mormorò con voce stanca la moglie, guardandolo sofferente da sotto le lenzuola bianche, da cui pareva molto restia a separarsi.
“Di già, Inamia.” rispose il Cronista, indaffarato nel riempire la sua borsa a tracolla con tutto il necessario: l’orologio portatile, una borraccia, sacchetti con polveri alimentari e medicinali, il suo libro. Il tutto senza degnare di uno sguardo la moglie, mentre riordinava la sua roba sulla scrivania. Quando infine imbracciò la borsetta ben stipata, guardò amorevole la cara sposa e le si avvicinò, baciandola sulla fronte.
“Come ogni giorno a quest’ora, tranne gli asildie e i patmedie. Lo sai. – le disse – Anzi, è pure tardi. Farò meglio sbrigarmi. Ah, se ti va, ho notato che il soffitto ha dei buchi.”
“D’accordo. Sì, vedrò di fare qualcosa. A dopo.” Acconsentì Inamia, sbuffando un poco.
“A dopo.”
Il Cronista si diresse in cucina. Lì, andò immediatamente in direzione della bacinella d’acqua e vi terse le mani. Ne prese un po’ tra le quattordici sottili dita e si bagnò anche il viso. Poteva sentire la sua pelle assorbire l’acqua come dopo una traversata nel Deserto di Roscamar; poi le dispose a conca, riempì e bevve avidamente. Bere l’acqua nella modalità animale era di gran lunga più rinfrescante che lasciarsi scorrere il liquido sulle membra.
Alcune gocce gli caddero dal viso e dal mento rotondo, e il Cronista si sporse in avanti, non volendo far cadere l’acqua sul pavimento. Sebbene gli parve poco igienico che l’acqua passata da sé ricadesse nella bacinella comune per poi venire riutilizzata.
Andiamo, non è niente. Chissà quante persone hanno abitato qui e si sono lavate con l’acqua di questa vasca.
Goccia dopo goccia, onde circolari si spandevano sulla piatta superficie del liquido e si infrangevano tra di loro e contro i bordi legnosi del catino, facendo vibrare e contorcere l’immagine riflessa del Cronista.
Volto spigoloso, triangolare, solidago, segnato da rughe che non erano semplicemente lì per natura corporea, ma per vecchiaia. ‘Capelli’ semirigidi rivolti verso l’alto, dipartendosi dalla fronte e dalla nuca, che sfumavano alle estremità in un giallino povero. Non molto lunghi, contorti e serpenticolari, ma non mischiati tra di loro in modo sconnesso o disordinato.
Poteva vedere, lì nella pozza, le spalle spioventi di un verde chiaro ancora vivido nonostante l’età, e sporgendosi un po’ avrebbe anche potuto constatare la lunghezza delle braccia, che ancora conservavano il vigore dei muscoli di un tempo.
No, non era il momento di rimanere lì a fissare la propria immagine. Doveva sbrigarsi o non avrebbe trovato nessuno ad attendere lui e le sue storie.
Impastò le dita per alcuni istanti nel piatto su cui aveva cenato il giorno precedente, ancora pieno del pastone. Se ne impregnò ben bene le dita, e rimase in attesa finché non riuscì a sentire il cibo scorrergli dentro; ne prese un po’ e se lo mise in bocca, constatando che aveva ancora un buon sapore. Si lavò nuovamente le mani, e uscì.
La casa del Cronista si trovava su un albero più grande degli altri negli immediati dintorni, disposta sulla sommità del tronco. I primi che l’avevano edificata avevano spianato la zona lì sopra dirigendo i rami in modo da formare mura, pavimento, soffitto, e col tempo e con nuovi rami – e nuovi inquilini –  la casa aveva subito diverse modifiche estetiche o di riparazione, come quelle che o lui o la compagna Inamia avrebbero dovuto svolgere, ma nella struttura interna non era mai cambiata. Tre stanze, due laterali – cucina/soggiorno e studio – una all’estremità – camera con bagno – e un corridoio centrale. Si raggiungeva la cima dell’albero attraverso una scala impressa nel tronco, e che ogni tanto aveva bisogno di una risistemata, perché il crescere perpetuo del legno ne aveva fatti sprofondare alcuni gradini, oppure si staccavano per l’usura.
Fra un po’ traslocheremo. Spero di trovare una casa confortevole come questa, o dovremmo farne una improvvisata.
Discese lentamente, appoggiando cautamente i piedi al suolo una volta arrivato alla fine. Non aveva più il fisico per scorrere la scala con velocità e scartare gli ultimi gradini con un salto, che in quel momento gli sarebbe costato un piede rotto.
Non si dispiaceva di non avere più le membra energiche di un tempo, anche se conservava ancora un po’ di spirito combattivo. Il suo matrimonio con Inamia era stato un successo. Dopo tutti quegli anni nulla era cambiato in loro, e l’amore ancora bruciava forte nonostante l’età. Ovviamente non passavano più le giornate insieme come facevano anni prima, ma non aveva di cui lamentarsi. E sperava che anche per lei fosse così.
Lui aveva il suo lavoro, una professione che apprezzava e che esercitava con passione e originalità, ed era retribuito bene sia in termini economici che ‘spirituali’. Inamia aveva smesso di lavorare pubblicamente, continuando a coltivare saltuariamente alcune erbe, ma la famiglia non aveva ristrettezze finanziare.
Raggiunse con passo felpato la radura predefinita, non molto distante dalla sua casa, e ben identificabile con la sedia di radici intrecciate che il Cronista stesso aveva dominato e piegato in quattro e quattr’otto quando si fermò in quella zona di Dalarlànd.
Un giovincello dalla corporatura mingherlina e una sorta di clava al braccio destro era già lì pronto in attesa, seduto con un ginocchio steso e l’altra gamba dritta, come in procinto di andarsene a breve. Lo riverì con un inchino del capo quando arrivò.
Oh, Patmut. – si disse disperato il Cronista, mentre all’esterno mascherava la sua incertezza sotto uno sguardo sorridente e sistemava placidamente la vaschetta di vimini per il sale nero, e sprofondava nella sua sedia, la borsa adagiata ai suoi piedi – E questo come si chiama? Non voglio fare figuracce…ah, sì, si chiama Erdeviu, ne sono sicuro.
“Buongiorno, Erdeviu. – lo salutò col suo tono da mentore saggio e affabile – Mattiniero, oggi. Di solito vieni sempre in ritardo.”
“Buongiorno a voi, maestro. Però siete voi in ritardo, oggi.” Gli reiterò, in modo non molto rispettoso, il ragazzino.
“È vero, non lo nascondo. – soggiunse – E dunque, dove sono gli altri miei studenti? Forteceppo, Loctiu e gli altri ragazzi… Sono anche loro in ritardo?”
“No. Erano venuti qui prima di me, ma avevano visto che non arrivavate e sono andati in giro un attimo. – disse prontamente, ma senza alcuna esitazione nei riguardi del tono con cui stava dialogando col suo maestro – Se volete vado a chiamarli…ah, eccoli che tornano.”
Il Cronista si volse nella direzione indicata da Erdeviu, oltre le fronde e i tronchi scuri tutt’intorno a loro. Non era un’unica direzione: gli studenti si raggruppavano attorno al loro insegnante provenendo da ogni parte della radura erbosa baciata dal sole.
Accorrevano con passo lento e ritmico, parevano quasi sincronizzati. Alcuni. Altri si ammucchiavano più scalmanatamente, gridando un poco e spingendosi per prendere posizione più vicino al Cronista. Tutti, comunque, mostravano il loro rispetto al maestro con cenni del capo. Era una cosa che il Cronista esigeva: chi abbassava il capo, tra quei cuccioli, in segno di saluto aveva sempre la sua simpatia e si mostrava sempre disponibile e non esitava a fare scherzi. Agli altri riservava, quasi per infantile ripicca, più diffidenza e richiamava poco spesso la loro attenzione.
Si contavano in tutto circa una dozzine di giovani studenti della Foresta, insieme a un gruppo di dieci gormiti degli altri Popoli, comunque dei cuccioli.
Dopo la fondazione del Consiglio dei Signori e le conseguenze politiche, era normale vedere gruppi di gormiti così misti, quando meno di dieci anni prima erano ancora ben separati.
“Ci siete tutti quanti, vedo. Ottimo. – enunciò il Cronista, compiacendosi dell’affluenza e dell’interesse che i giovani mostravano ai suoi racconti – E vedo anche dei nuovi arrivati! Tu, laggiù, come ti chiami? E da dove vieni?”
“Sono Osmaniu. O-Osmaniu Delessi. – rispose un gormita del Vulcano, dall’aria timida nonostante le braccia tozze – Vengo dalla Città Occidentale. Da Ilabukh. Mi sono spostato qui l’anno scorso.”
“Bene, bene. Mi fa piacere avervi qui! – esclamò solare il Cronista, dopo essersi fatto dare le confidenziali dai quattro nuovi alunni – Spero che i vostri amici vi abbiano riassunto ciò che ho raccontato finora, perché, capirete, non posso mica tornare indietro ad ogni novellino! Eh, eh! Ma sono convinto che capirete benissimo anche senza sapere tutti i dettagli del passato. Ora… - indicò una forestale, bella sorridente, e anche lei gaia e soddisfatta del maestro che la richiamava – Loctiu, mi ricordi dove eravamo arrivati l’altra volta?”
“Certamente, maestro. – farfugliò velocemente, scattando in piedi, petto gonfio; poi si schiarì la voce e scandì bene le successive ricercate parole – Avete spiegato come si era andata evolvendo la situazione di discriminazione del Popolo del Vulcano negli anni intorno gli 830, e delle campagne di pace ideate tra gli altri da Kokkon Ubens, Raganels Galmari e Elimis Elimi.”
Il Cronista annuì appagato. Loctiu, una delle studentesse migliori per interesse e partecipazione. Ne andava molto fiero, e mostrava una straordinaria sensibilità verso gli eventi che il maestro andava narrando. Sarebbe diventata una persona importante, in futuro.
“Proprio così, Loctiu. Proprio così. Ora, prestate bene attenzione.”
Il Cronista si fece serio in viso, facendo saettare un dito con cui fece calare il silenzio assoluto e l’interesse più vivo e misterioso. Fissò negli occhi ciascuno dei suoi studenti di quel giorno, cercando di captarne i sentimenti, l’effettivo desiderio di conoscere, l’attenzione che mostravano davvero.
“Ciò che vado a raccontarvi è l’inizio del periodo più cupo e forse più violento della storia di Gorm, ed è anche molto più vicino ai nostri giorni di quanto pensiate. Ma è anche l’inizio di quel secolo di storia che cambiò per sempre la faccia dell’Isola, che determinò la fine di un’epoca di chiusura e di ignoranza, si può dire.”
“Il Vecchio Saggio! – sbraitò accaldato uno studente, battendo le mani – Finalmente! È lui, il Vecchio Saggio, vero?”
“Sì, Shogurai, è il Vecchio Saggio. – annuì, abbassando il dito, rilassandosi dopo che ebbe la certezza del coinvolgimento di tutti – Questo pezzo di storia può definirsi la storia del Vecchio Saggio, l’elfo venuto dall’est, di come lui e le sue scelte hanno cambiato Gorm e i gormiti. Il Vecchio Saggio non aveva questo nome, un tempo. Lo ha scelto lui per nascondersi, e la sua storia, naturalmente, non inizia qui su Gorm, ma a oriente, nelle coste del Grande Golfo dove gli elfi hanno insediato le loro città - stato mai in guerra ma nemmeno veramente in pace. È qui che inizia la storia di quest’elfo, la storia di Razael Akkars.”
   
 
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