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Autore: Vale11    27/05/2015    11 recensioni
Una chiazza di blu scuro su una panchina, un cappello calato sulla testa, capelli più lunghi che mai che ormai hanno passato le spalle. Non vede le gambe, ma immagina siano rannicchiate contro il petto per ripararsi dal freddo. Gli da le spalle. Steve vede che ha addosso la solita felpa blu, i soliti jeans e Dio, si congela e quell'uomo non ha nemmeno una giacca addosso.
p.s. anche Steve Rogers è uno dei personaggi principali, ma il mio computer ha deciso che non sono degna di selezionare due voci nemmeno con il ctrl. E sia.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ogni volta che ne aveva bisogno, Steve c’era. Anche senza bisogno di chiedere, di aprire bocca, Steve era li: che fosse un momento di panico da “oh-mio-dio-come-accidenti-si.faceva-a-far-venire-l’acqua-calda-in-doccia” o un attacco di panico vero, con tutti i crismi, Steve era li. 
E Bucky si sentiva tremendamente in colpa per questo.
Era abituato ad essere lui quello su cui fare affidamento, quello che da una mano, quello che risolve i problemi: essere costretto ad appoggiarsi (a volte anche fisicamente) ad un’altra persona lo destabilizzava, e lo metteva in imbarazzo. Steve gli aveva detto un milione di volte, ormai, di non preoccuparsi: saperlo li, vivo anche se un po’ malandato, era una felicità che lo ripagava di ogni notte insonne che era costretto a passare. Era il suo migliore amico, lo sapeva, si? 
Quindi, Buck, smettila di preoccuparti. Farei di tutto per te, lo sai.
Lo sapeva, ma non è che la cosa lo facesse sentire meglio: gli sembrava di rubare tempo e spazio, in un tempo che non gli apparteneva e uno spazio che non era suo. Ogni rumore troppo forte rischiava di farlo trasalire, ogni cosa che non capiva era una lotta continua di immagazzinazione dati e istruzioni: poteva smontare e rimontare qualsiasi arma a tempo di record, ma ogni tanto i telefonini continuavano a mandarlo in confusone. A cosa serviva una macchina da guerra in tempo di pace? Avrebbero fatto meglio a spegnerlo, e lasciarlo da qualche parte.
Non gli sfuggiva il fatto che riferirsi a se stesso come qualcosa da spegnere piuttosto che come qualcuno da lasciar riposare fosse totalmente fuori di testa, ma è così che si sentiva: totalmente fuori di testa. Ogni passo avanti ne contemplava almeno un paio indietro, e non capiva come avrebbe potuto ottenere qualsiasi risultato, in quel modo.


Steve lo sapeva: lo vedeva illuminarsi per le piccole cose, e crollare ogni notte sotto il peso di ricordi frammentati e incubi da film. Non sapeva come rimettere insieme tutti i pezzi, non era il suo mestiere. Aveva fatto una telefonata, ne aveva parlato con Bucky, ed erano arrivati a una soluzione: quando gli aveva detto che avrebbe dovuto parlare con qualcuno, con un professionista, Buck era diventato bianco come un cencio e non era riuscito a spiccicare nemmeno una parola; a Steve ci era voluto un po’ prima di capire come mai, e aveva compreso troppo tardi che per Bucky la psichiatria si era fermata agli anni ’40, dove la cura più in voga era l’elettroshock. Prima di riuscire a spiegargli che quella roba non si faceva più, il suo migliore amico aveva avuto un attacco di panico in pieno stile, con il ricordo dell’elettricità, dolorosa elettricità, che gli passava attraverso il cervello e gli cancellava la memoria a piacimento. 
No Bucky, non funziona più così. Nessuno usa più l’elettroshock adesso. Respira, Buck, dammi le mani, guardami.
Respira, Buck, respira. Senti come faccio io? Copiami.
Sei a casa, sei con me, nessuno ti farà più del male. Ci sono io. 
Respira.
Ci sono io, promesso.
Respira.
Andrà tutto bene, Buck, ti faccio una tazza di latte e miele. Tu riposati.
Shhh. Buck, respira.
Ci sono io.
Promesso.


Da quel momento in poi Bucky aveva accettato di vedere Sam, fosse anche solo per il bene di Steve. Non si ricordava chi fosse, però: Steve gli aveva detto che si conoscevano, ma non gli veniva in mente niente. Quando il campanello suonò e Steve andò ad aprire, si trovò davanti un viso decisamente conosciuto. Fece un paio di passi indietro istintivamente, e Sam alzò le mani, i palmi verso di lui, per dimostrargli che non aveva cattive intenzioni.
Come poteva non averne? 
“Ti ho quasi ucciso - fu la prima cosa che gli uscì di bocca, con la gola secca e la sabbia nei polmoni - ti ho lanciato giù da un trasporto dello Shield e ti ho quasi ucciso”
Sam aveva tenuto ferme le mani e gli aveva sorriso.
“Beh, si. Piacere, Sam”
Gli insegnava tecniche di grunding, esercizi per respirare e calmarsi. Gli diceva che reagire in quel modo era del tutto normale, che soffriva di una cosa che si chiamava sindrome da stress post-traumatico, e che se non ne avesse sofferto affatto sarebbe stato ben più preoccupante. Gli diceva che non era solo, che ci era passato anche Steve, che ci era passato anche lui quando aveva visto il suo gregario cadere dal cielo come un sasso, e aveva solo potuto stare a guardare. Lo guidava fuori dagli attacchi di panico che gli arrivano puntualmente quando gli faceva ricordare ciò che gli avevano fatto, e ciò che aveva fatto. 
Soprattutto, cercava di fargli accettare che lui e il Soldato d’Inverno erano si la stessa persona, ma due personalità completamente opposte: la differenza c’era, eccome. Per un bel pezzo, Buck aveva ospitato nel suo cervello qualcuno, qualcosa che non era lui: non poteva far finta di niente e seppellire tutto se non voleva impazzire, doveva prendere tutti i pezzi, studiarli, ripulirli e ricomporre il puzzle. 
L’aveva avvertito che sarebbe stato un lavoro lungo e doloroso, che all’inizio gli sarebbe sembrato di regredire più che di progredire, ma Bucky si fidava. Continuò a fidarsi anche dopo che i suoi incubi raddoppiarono, in quantità, intensità e volume, al punto che Steve decise che finché non fosse passato tutto avrebbe dormito in camera sua: trascinò il letto di Buck accanto al suo, ci buttò sopra un piumone a due piazze e lo costrinse a cercare di dormire almeno un paio d’ore per notte.
A Bucky non piaceva, dormire.
O meglio: gli piaceva da impazzire, ma era terrorizzato da quello che avrebbe visto.


La vide correre fra la gente in linea retta, urlando a tutti di andarsene e diventando un bersaglio facile pur di proteggere i civili. Troppo facile. Il suo proiettile le attraversò una spalla senza sforzo.
Lui la conosceva, l’aveva già vista.
Capelli, rossi, bellissima.
Natalia.
Schizzò a sedere sudato fradicio, con un urlo che gli si strozzò in gola e il cuore che minacciava di scappargli di bocca: Steve era li, santo Steve, con una mano sulla sua schiena e una sul petto a cercare di capire se doveva applicare le tecniche gli gli aveva insegnato Sam per calmarlo oppure no. Lo fissò con gli occhi sgranati.
“Ho ucciso Natalia? Dimmi che non ho ucciso Natalia”
“Natalia? - Fu il turno di Steve di guardarlo con gli occhi che gli uscivano dalle orbite: come faceva Bucky a conoscere Natasha? - Natasha Romanov, la Vedova Nera?”
Natasha Romanov? Bucky la conosceva come Natalia Romanova, ma il titolo di Vedova Nera era necessariamente il suo. Annuì.
“Non l’ho uccisa, vero Steve? - gli chiese con le mani sulla faccia - ti prego, dimmi che non l’ho uccisa.”
“Buck, stai scherzando?”
“No, Steve! - lo prese per le spalle, doveva saperlo, doveva saperlo per forza - non sto scherzando. So di averle sparato, ma ti prego, ti prego…”
Steve si trovò di nuovo con le braccia piene di un James Buchanan Barnes in pieno crollo emotivo: lo tenne su come faceva sempre, spostandosi avanti e indietro con una mano nei suoi capelli e una sotto un braccio, finché non vide il suo cellulare sul comodino: lo prese al volo e mandò un messaggio a Nat, sperando fosse sveglia. Aveva bisogno che lo fosse.


Sono sveglia, Steve. Di cosa hai bisogno?
Solo che tu risponda al cellulare, Nat.


Aveva composto il numero, atteso un paio di squilli e poi la voce assonnata di Natasha aveva risposto all’altro capo della linea.
“Steve, che accidenti succede - aveva mugugnato - per una notte che riesco a dormire più di tre ore mi butti giù dal letto tu?”
Poi si era zittita, sentendo la voce di qualcun altro con lui, restando in ascolto.
“James? James è li con te, Steve?”
E a quel punto l’unica cosa che Steve aveva potuto collegare era che Buck e Nat si conoscessero, che Nat non gli aveva detto niente per tutto il tempo, e che era il caso di appoggiare il telefono all’orecchio del suo migliore amico, non fosse altro che per vedere se avesse ripreso a respirare normalmente.


“James?”
Bucky spalancò gli occhi quando sentì uscire la voce di Natalia dalla cornetta: prese il cellulare dalle mani di Steve come fosse la cosa più preziosa del mondo e, a quel punto, iniziò a piangere sul serio. Era strano però, lo faceva con un sorriso spaccafaccia sul viso.
“Natalia. Natalia. Ty zhiv.”
“Parla inglese, James”
“Mne zhal’, Natalia. Mne zhal’, mne ochen’ zhal’”
“Shhh, James, ya znayu. Parlami in inglese, James.”
Dovette fare un sforzo per ricordarsi di essere negli Stati Uniti e non in Russia. Prese fiato, appoggiando la fronte alla spalla di Steve e rafforzando la presa sul telefono che minacciava di scivolare.
“Stai bene, Natalia?”


Steve riprese fiato, sentirlo parlare in russo lo spaventava sempre. Continuò a tenerlo su quando gli appoggiò la fronte su una spalla.


“Sto bene, James. Stai tranquillo.”
“Ti ho colpito”
“Lo so”
“Era grave?”
“Solo una ferita leggera”
“Non mentirmi, Natalia”
Lo sentì deglutire, anche dall’altro capo della cornetta: sapere che James era con Steve, che era vivo e si ricordava di lei le stava facendo esplodere la testa. Era felice, ed era terrorizzata.
“Non mento, James. Non hai colpito niente di importante.”
“Mne zhal’, Natalia”
“Lo so. Shhhh, lo so. Va tutto bene. Potresti passarmi un attimo Steve?”


Steve vide Buck allontanare il telefono dall’orecchio e passarglielo, poi gli si appoggiò di nuovo addosso stringendo gli occhi. Lo strinse con un braccio dietro la schiena mentre parlava con Natasha.
“Nat, che sta succedendo?”
Dall’altra parte seguirono un paio di battiti di silenzio, poi la voce di Natasha lo sorprese.
“Ho un po’ di cose da dirti, se non te le dice prima James - rispose - se non ti dispiace, verrei a trovarvi”
La linea cadde prima che Steve potesse rispondere, scrisse un messaggio a Nat per dirle che non c’erano problemi, a parte quelli che c’erano già ed erano già evidenti, e spostò l’attenzione sul suo migliore amico.
Buck non si era ancora calmato, con la fonte contro la sua spalla e la mano metallica sul viso. Gli infilò le dita di una mano fra i capelli, lasciando cadere il telefono sul piumone e sdraiandosi, tirando giù Buck con sé. Se doveva vedere Nat era meglio che lo facesse quando era più tranquillo, ma tranquillizzarlo sembrava un’impresa titanica.
“Ehi, ehi - gli disse tirandoselo addosso - ti sei ricordato qualcosa?”
Bucky annuì, togliendosi la mano dalla faccia e alzando gli occhi su di lui.
“Ci sono delle cose che credo di doverti dire”.





Allora, Ty zhiv vuol dire “sei viva”
Mne zhal’ significa “mi dispiace”, e mne ochen’ zhal’ significa “mi dispiace tanto”
Ya znayu significa “lo so”, il tutto in russo.


Poi, intanto chiedo scusa per essere scomparsa e riapparsa così, alla io boia come si dice in Toscana. Se non capite cosa sta succedendo, sappiate che mi sto riallacciando ai fumetti e non al film (in cui Natasha pare abbia una relazione con Bruce Banner, cosa che per ora, nei fumetti, mi è un po’ sfuggita). Nel prossimo capitolo vi fo capire meglio, se invece già leggete i fumetti sapete da soli che sta succedendo. Si?
Si.
Olè.
  
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