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Autore: Aerius    02/06/2015    1 recensioni
"Non c’erano fonti di luce di alcun genere e tuttavia allo stesso tempo non esistevano fonti di tenebra. Un luogo assolutamente neutrale in entrambi gli ambiti. Tuttavia qualche indicazione spaziale esisteva. Ad esempio il pavimento su cui era disteso. Era solido, era evidentemente un pavimento, sempre assolutamente bianco. Ma solido, ne sentiva la consistenza rigida sotto le dita."
[ Altra piccola One-Shot, questa volta sul personaggio di Qilby, il villain della seconda serie! SPOILER per chi non ha visto il finale della seconda serie! Buona lettura! ]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Qilby
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'I Volti della Follia'
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Una volta che Qilby venne rinchiuso ed esiliato nella Dimensione Vuota da Yugo, cosa gli accadde?
Sprofondò di nuovo nella pazzia? Oppure.. qualcos'altro?
In questa breve One-Shot cerco di mostrare un momento di riflessione da parte di Qilby, rinchiuso in un luogo da cui è impossibile fuggire e che costringe alla meditazione e introspezione! Qilby è un ottimo personaggio - per quanto non al livello di Nox a mio parere - e per questo merita anche lui una piccola digressione!
Come sempre, poichè stiamo parlando di 'pensieri', avviso che potreste trovarlo leggermente OOC!
SPOILER per chi non ha ancora finito di vedere la Seconda Stagione di Wakfu!

P.S. : probabilmente in futuro pubblicherò anche una One-Shot su Rushu, così faccio il giro di tutti i villain xD

 

Qilby
- La Morte di un Ricordo –
 
 «Eheh.» una risata venne emessa. Ormai era una delle pochissime cose che poteva fare.
 «Eheheh.» una seconda risata, appena più lunga dell’altra. Chiuse gli occhi, cercando di captare un qualche tipo di eco o rifrazione sonora.
 Attese per alcuni secondi, che divennero mezzo minuto, quindi un minuto intero. Sapeva ancora contare e calcolare il tempo.
 Niente.
 Emise un sospiro.
 Chiunque avesse creato quel luogo, era un genio. Era la prigione perfetta, il contenitore ideale, il posto che non è un posto, che non è nulla e allo stesso tempo il nulla che ti erode dentro, che ti scava nell’anima fino a penetrarti nelle ossa.
 Gli Eliatrope la chiamavano la Dimensione Vuota.
 Un nome appropriato. La cosa divertente era che probabilmente quel nome glielo diede lui stesso.
 «Eheheheh.» una risata ancora più lunga a quel pensiero.
 Qilby rotolò di lato, se tale gesto aveva un senso in quel luogo. Attorno a lui c’era solo un infinito e bianco candore, quasi luminoso e splendente. Sapeva bene che tale lucore era assolutamente illusorio.
 Semplicemente tutto attorno a lui era talmente candido e privo di qualsiasi imperfezione da risultare fastidioso all’occhio. Non c’erano fonti di luce di alcun genere e tuttavia allo stesso tempo non esistevano fonti di tenebra. Un luogo assolutamente neutrale in entrambi gli ambiti.
 Tuttavia qualche indicazione spaziale esisteva. Ad esempio il pavimento su cui era disteso. Era solido, era evidentemente un pavimento, sempre assolutamente bianco. Ma solido, ne sentiva la consistenza rigida sotto le dita.
 L’unica seccatura è che era assolutamente tiepido. Non era né freddo né caldo, era come stare distesi su sé stessi, se era possibile una cosa del genere.
 Emise un sospiro, rialzandosi con penosa lentezza da terra e rimanendo inginocchiato. La sua figura era magra, emaciata e sottile, con capelli biondi, lunghi e lisci, ed una barba sottile del medesimo colore. Addosso, i resti stracciati di vesti bianche, rovinate e logore. Il braccio sinistro era mancante, da tempo immemore, non calcolabile in alcun modo, era solo un moncherino.
 Gli occhi erano marrone chiaro e cerchiati da pesantissime occhiaie e le labbra nere, chiuse in un’espressione neutra.
 Davanti a lui, disposti su quello che supponeva essere il pavimento, alcuni petali di fiori, gialli e rosa, disposti in modo da riprodurre il contorno di un uovo.
 L’espressione si incupì, il viso si distorse in un’espressione concentrata di intenso fastidio. Alzò la mano, richiamando alcuni filamenti di Wakfu che con estrema delicatezza andarono a sollevare e muovere quei petali, cercando una nuova disposizione. Leggermente, tentò di muoverli, spostarli, cercando di visualizzare una figura, un volto, un..
 «Mhr.» emise infastidito «No.» i filamenti si fecero incerti, iniziarono a spezzarsi e riagganciarsi «No.» scoprì i denti, digrignandoli «No. No. No. No. No. NO! »
 I petali ricaddero a terra, scomposti. L’espressione di Qilby era assolutamente impassibile.
 Da tempo aveva smesso di calcolare da quanto si trovava in quel luogo. Non era una cosa che si potesse fisicamente fare lì dentro. In un modo o nell’altro, il conto viene perso con il passare di anni, decenni, secoli, millenni..
 Più volte ha pensato di togliersi la vita, ma che senso aveva se poi sarebbe rinato ancora e ancora e ancora, infinite volte in cui sarebbe tornato in quello spazio vuoto infinito?
 Perché non era la prima volta. Oh no.
 La benedizione degli Eliatrope è che non avevano la memoria delle loro vite passate. Lui si. Quindi non sapevano quante volte li aveva traditi, quante volte aveva cercato disperatamente di adempiere a quel suo proposito.. quante volte era finito a marcire lì dentro.
 Non avevano idea di quante volte la storia si era ripetuta. Non esisteva un numero sufficientemente alto da descrivere il numero dei suoi fallimenti.
 Morire.
 Rinascere.
 Ricordare.
 Ritentare.
 Ancora, e ancora, e ancora..
 «Quante volte, ancora, Shinanome?» chiese al nulla, senza che un minimo di eco tornasse verso di lui, dandogli l’impressione di non aver parlato affatto.
 Ha parlato? O è stato solo un pensiero?
 C’è differenza lì dentro?
 «Quante vite ricordiamo, sorella mia?» si alzò traballante in piedi, guardandosi attorno, per quanto si fosse ripromesso infinite volte di non farlo.
 Un modo per non perdersi lì dentro era stabilire uno spazio e non muoversi da esso, chiudere gli occhi, vegetare all’infinito senza sperare di esplorare quel luogo o trovare una via di fuga.
 Ma ha già rotto infinite volte questa promessa.
 Gli occhi si spalancarono, le pupille si restrinsero di colpo. Poi li chiuse.
 «La vita dovrebbe essere una benedizione.» sussurrò al vuoto. O pensò? «Perché solo la mia è una maledizione?»
 Mosse un passo incerto in avanti, ad occhi chiusi. Nelle tenebre delle palpebre calate, poteva illudersi di essere in un luogo qualsiasi che non fosse quell’abbacinante bianco.
 Ma la sua mente.. faticava a ricordare. Un prato, pensa ad un prato.
 Prato.. erba? La sensazione dell’erba sulle dita, ricordala.
 Di nuovo spalancò gli occhi, con sguardo impaurito se non addirittura agghiacciato.
 «L’ho dimenticato.» esalò con un rantolo di voce.
 Cadde di nuovo in ginocchio. Si era dimenticato della sensazione dell’erba sulle dita. Quindi anche per lui è possibile dimenticare qualcosa?
 La mano destra, tremante, posò due dita sulla tempia e per la prima volta nella sua lunga, lunghissima esistenza, cerco di sforzarsi di ricordare. Di andare indietro, all’inizio della sua vita.
 Qual era il suo primo, primissimo ricordo?
 Un sorriso, triste e mesto, gli affiorò sul viso. Ma certo.
 Un cenno della mano e i filamenti di Wakfu toccarono i petali a terra, i movimenti delle dita, agili e rapide, formarono questa volta un simbolo, un nome in lingua Eliatrope.
 «Shinanome.» pronunciò, con assoluta devozione e dolcezza, del tutto estranee alla sua natura.
 Lei era il suo primo, primissimo ricordo in assoluto, la sua compagna drago, sua sorella di anima, di spirito e di vita. Adesso si trovava ad un soffio di distanza da lui.
 Allungò la mano davanti a sé, sapeva che erano le dimensioni a separarli, una leggera, infinitesimale sfasatura, un’illusione.. o era lui l’illusione? O forse lo era lei per lui.
 Chi dei due era il miraggio dell’altro? Poteva vederlo? Poteva sentirlo o percepirlo? Poteva.. ricordarlo?
 Ad occhi chiusi, tese la mano in avanti e con esso anche il pensiero si dilatò, forzando quel legame, cercando di rintracciarlo attraverso lo spazio e le dimensioni..
 ..e solo per un breve, folle istante, vide un ampio prato, uno spazio di stelle e piccoli pianeti, al cui centro vi era quello più verde e bello di tutti, abitato da altri come lui, tutti bambini. Alle sue orecchie il loro gridare ed esultare mentre giocavano giunse come lo stridere del gesso su una lavagna.
 Terribile, disturbante, odioso. Non gli interessava.
 Andò oltre, vide la grande massa scagliosa di un drago anziano sdraiato su un ampio cuscino rosso, e accanto a lui due oggetti.
 Uno era l’Elacubo, l’oggetto che lo dannò e allo stesso tempo lo salvò, ripetute volte. Comprendeva quell’artefatto forse anche meglio del suo creatore, ormai.
 Ma non gli interessava. La sua attenzione era tutta per l’altro piccolo oggetto, nient’altro che un uovo, scarlatto e dal lucore metallico, al cui interno era visibile la vaga forma di un cucciolo di drago.
 «Non.. aprire gli occhi, Qilby.» si disse, con voce improvvisamente rotta e triste «Non aprirli.» sapeva che nell’istante in cui gli avrebbe aperti, tutto sarebbe svanito.
 Non gli sono mai interessati gli altri. Forse già durante la terza o quarta rinascita per lui la vita altrui perse totalmente valore.
 Non gli importava di uccidere, che fossero guerrieri, draghi, donne, bambini.. briciole in un contesto cosmico, insulsi agli occhi di chi ha la visione amplificata dalle ere infinite come lui.
 Non gli è mai importato di distruggere. Poteva farlo come anche no. Del tutto irrilevante. Cos’è la materia? Nulla si crea e nulla si distrugge, è una legge fondamentale.
 Così com’è per tutte le cose, lo è anche per la vita. Per ogni vita spezzata, un’altra ne rinasce, in un ciclo infinito che ha percorso più volte, doppiando chiunque altro, comprendendo più di chiunque altro.
 Ci si stupisce se tale comprensione alla fine lo ha portato alla follia? Ma chi è davvero il folle?
 E tuttavia, questa è una domanda a cui adesso sa rispondere.
 Io sono il folle.
 Perché ogni concetto enunciato sino ad ora, ogni pensiero concepito nella vastità del complesso cosmico, ogni dogma sull’insulsaggine della vita altrui..
 ..ora, adesso, crolla e scompare nella polvere nel momento in cui i suoi occhi chiusi sono colmi della figura dell’uovo di sua sorella.
 Perché si è reso conto che la sua vita, quella di Shinanome, è importante.
 «Solo la sua? E le altre?»
 Se la vita di sua sorella è importante, se il pensiero di vederla morire lo colpisce così a fondo pur sapendo che sarebbe rinata con lui infinite volte.. allora forse questo concetto può essere applicato a tutto, su scala cosmica.
 Ed ecco perché non può morire. Non perché rinascerebbe ancora in un ciclo infinito dove finirebbe dov’è ora, ancora una volta.. ma perché sa che la sua morte farebbe male a sua sorella, così come la morte di Shinanome ha fatto male lui, infinite volte, e ancora altre, non contabili da mente senziente.
 Riaprì gli occhi, ancora con la mano tesa ed espressione triste e rassegnata. Sarebbe rimasto lì, per il bene di sua sorella.
 Non perché voleva dare un’altra chance al suo popolo.
 Non perché alla fine per lui la vita aveva acquisito valore.
 Non perché, nel profondo, gli importava qualcosa degli altri.
 Semplicemente voleva bene a sua sorella e non voleva vedere soffrire a causa sua l’unica creatura a cui avesse mai davvero voluto bene.
 E forse, con il tempo e il passare di infiniti eoni, così come il ricordo dell’erba sulle dita, sarebbe svanito anche il ricordo di Shinanome.
 Emise uno sbuffo, mentre le labbra nere si storsero in un sorriso rassegnato.
 Poi, colto da un ultimo, inspiegabile desiderio irrefrenabile, allungò il braccio in avanti.
 E le dita incontrarono la solidità di una parete bianca di fronte a lui.
  
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