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Autore: Acinorev    07/06/2015    3 recensioni
"«Smettila», le ordinò, prima di lasciarle finire la frase: c'era verità, nelle sue parole, ma una verità che non si applicava a tutti gli inglesi. Non a lui.
«La sua pelle è bianca come i palmi delle tue mani e dei tuoi piedi, Ryma: ha il colore delle mani con cui ti procuri da vivere e dei piedi con cui cammini fino al Dio che ami tanto pregare. E la tua? La tua pelle è del colore della terra che lo nutre, mentre resta qui a fingersi padrone del mondo. Dovrebbe vergognarsi anche solo di posare gli occhi su di te. Tu dovresti vergognarti di posare gli occhi su di lui»."
Temporaneamente sospesa
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Buonasera!
Chi mi seguiva sa che mi ero ripromessa di non scrivere per un po' di tempo, a causa di altri impegni, ma sono sempre stata poco brava a mentenere la parola: l'astinenza è brutta, ahimé! Tra tutte le storie che ho in mente, ho deciso di dedicarmi a questa per prima, perché ci tengo molto e vorrei portarla a termine il più presto possibile.
Poche parole a riguardo:
- è una storia ambientata in Kenya, nata dalla mia esperienza di quest'estate: seguirà il percorso di sei protagonisti (Tifah, Ryma, Solomon, Kelvin, Peter e Bahati), introdotti in questo prologo ed ispirati a persone reali. La storia è innanzitutto un modo per farvi conoscere una parte del Kenya, ma è anche una valvola di sfogo per me: darà vita ad alcune mie paure e ad alcune mie speranze;
- i luoghi di cui parlerò esistono davvero, anche se con nomi modificati o particolari incongruenti per vari motivi;
- tralasciando questo prologo, che è completamente veritiero sia per la situazione descritta sia per ciò che avviene, dal prossimo capitolo sarà tutto frutto della mia immaginazione, come capirete: sia gli avvenimenti, sia l'evoluzione ed il destino dei personaggi. Saranno presenti tematiche delicate, scene forse anche impressionanti, ma in linea con un certo realismo che purtroppo ho conosciuto;
- il titolo della storia "Mzuri?" si rifà al saluto tipico keniota: all'usuale "Habari" ("Ciao, come stai?") si è soliti rispondere "Mzuri" ("Bene");
- probabilmente, durante la narrazione, userò dei termini in lingua, che però spiegherò di volta in volta: per esempio, vi anticipo che in questo prologo ne troverete due, ovvero "ugali" (una polenta tipica, realizzata con farina bianca) e "chapati" (un tipo di pane, simile ad una piadina);
- i dialoghi ed il lessico saranno fedeli alla realtà, quindi non stupitevi se ogni tanto ci sarà un calo del registro.
Nonostante sia una storia completamente diversa da quelle che ho scritto fino ad ora, spero di non deludere e che qualcuno sarà interessato a seguirla. 
Buona lettura :)

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Veronica.

 

 

Prologo
 

"Only mountains never meet."
- K.

 
Con poco più di un secolo di vita alle spalle, nel 2014 Nayuri può essere considerata una delle città più occidentalizzate del Kenya: con una media di trentamila abitanti distribuiti nel centro e nei chilometri circostanti, è il punto di incontro delle maggiori linee di commercio.
Lo stabilimento dell’esercito britannico, oltre a rappresentare la sola percentuale di bianchi della regione, è responsabile della maggior parte dei cambiamenti, che però non hanno avuto esiti sempre positivi. Il modello economico inglese è difficile da soddisfare, soprattutto da parte di una cultura acerba e poco istruita: le strade brulicano di angusti negozi e di bancarelle, ma tutti vendono gli stessi prodotti, non c’è concorrenza di prezzi e la situazione è in stallo. Lo stile di vita occidentale porta con sé speranza ed invidia, spingendo gran parte della popolazione a compiere sacrifici per ottenere futilità e telefoni cellulari di ultima generazione, a costo di dover arrancare per procurarsi del cibo. Il lavoro è sottopagato, non in linea con la nuova modernità e con i nuovi, stonanti bisogni: gli uomini più onesti lavorano per tutto il giorno, quelli meno onesti contribuiscono all’aumento della criminalità in un già corrotto sistema di giustizia e le donne si prostituiscono alla luce del sole ed in qualsiasi locale, aspirando a conquistare un militare britannico in grado di trascinarle via da una vita scomoda. I figli illegittimi crescono di numero ed insieme a quelli legittimi sono difficili da mantenere: a causa degli sforzi per sopravvivere, sempre più famiglie abbandonano i propri figli sin dalle più tenere età – la città conta ormai almeno seicento bambini privi di fissa dimora, costretti a rubare per mangiare e a cercare conforto nel consumo illegale di colla.
Il Kenyatta Centre, il centro di recupero per bambini di strada, è sovraffollato: le sue condizioni gravano sotto il peso di spese insostenibili e necessità sempre più impellenti. E mentre il proprietario lotta con i funzionari dello stato e della città di Nayuri per tenere in piedi una struttura utile e funzionale, i suoi occupanti si aggrappano alla volontà di vivere di giorno in giorno.

 
 

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Il paesaggio silenzioso di Nayuri riflette placidamente le sfumature rossastre che dipingono il cielo su di esso. Sfumature che, pur presentandosi alla stessa ora per tutto l'anno e senza alcuna eccezione, non mancano mai di stupire e variare: sicure e vanitose, sfoggiano le loro tonalità in fantasie astratte, provocando un senso di meraviglia negli occhi di chi le osserva. Persino l'imponente Monte Kenya si lascia abbracciare dalle tinte calde ed armoniose, accettando di scomparire lentamente nell'oscurità del tramonto, una punta dopo l'altra.
L'atmosfera del Kenyatta Centre, però, si ribella allo scadere monotono di un'altra giornata: ricco di voci concitate, di rimproveri e risate, cerca di sfruttare tutta la vita che contiene, in modo da non sprecarne nemmeno una briciola.
«Trovane uno, allora», sbotta Agnes, appoggiando i pugni chiusi ed umidi sui fianchi formosi. «Stai intralciando le altre», aggiunge stancamente.
Tifah aggrotta le sopracciglia sottili e si guarda alle spalle, dove la fila disordinata ed affamata delle sue compagne attende impaziente di ricevere la razione di cibo: come da abitudine, è il giorno dell'ugali.
«Muoviti, avanti», esclama Joyce dietro di lei, picchiettando con la forchetta sul proprio piatto: quello di Tifah, invece, è stato stranamente rubato senza troppi ripensamenti. In pochi si divertono a sfidarla, perché in pochi possiedono la furbizia ed il coraggio necessari, ma se mai dovesse scovare il responsabile, agirebbe sicuramente di conseguenza.
«Tu sta' zitta», ribatte aspra, dando un'ultima occhiata ad Agnes ed al pentolone fumante. Tra gli incitamenti delle altre ragazze, sgattaiola via con una certa stizza ad animarle le vene: non le va di raggiungere la Casa – ovvero la cucina del proprietario del centro - affrontando quindi il dormitorio maschile ed i maschi, solo per recuperare qualcosa che non ha perso di proposito.
All'aperto rabbrividisce appena per il vento freddo, sfregandosi le braccia nude con foga, e si incammina lungo il vialetto in ciottoli irregolari: saltella lentamente da un punto all'altro, tentando di evitare il fango creatosi in seguito all'ultima pioggia fuori stagione. Le infradito consumate che indossa non le sono d'aiuto: Sake deve assolutamente restituirle le scarpe chiuse. Bucate, certo, ma pur sempre chiuse.
«Che ci fai tu qui?» la interroga Kelvin, avvicinandosi a lei nel modo più scontroso che conosce: il suo metro scarso di altezza, però, non gli conferisce l'adeguata credibilità.
«Levati», ordina Tifah, decisa ad ignorarlo. Sperava di non dover affrontare un'altra stupida discussione con un altrettanto stupido interlocutore: allo scadere dei suoi quattordici anni, non riesce ancora a capire perché i ragazzi debbano soffrire per un quoziente intellettivo tanto basso.
«Guarda che sei tu ad essere di troppo», replica Kelvin, tornando ad intralciare il suo percorso. Il maglione rosso è macchiato di terra, mentre i pantaloni in jeans sono evidentemente troppo grandi per lui, finendo per arrivargli sotto i piedi nudi e fargli da scarpe.
Lei alza un sopracciglio e sbuffa sonoramente. «Si può sapere che razza di problema hai?» lo rimprovera, scrutando i suoi occhi piccoli e brillanti per il tramonto.
«Sai benissimo che non puoi stare qui», la minaccia, assottigliando la voce.
«Questa è solo una regola senza senso che voi poveretti avete deciso. Non è colpa mia se non avete nient'altro da fare», sibila. Non sa perché i ragazzi disprezzino così tanto la presenza del sesso opposto nei pressi del loro dormitorio: è suolo comune, d'altronde, e rappresenta una rapida scorciatoia per la Casa e per la città. Di cosa hanno paura? Ma soprattutto: credono davvero che qualcuno condividerebbe la loro stessa aria di sua spontanea volontà, con il rischio di doverli sopportare oltre lo stretto necessario?
Quando Tifah fa un altro passo avanti e Kelvin osa afferrarla prepotentemente per un braccio, lei serra le labbra e gli stringe una mano intorno al collo sottile, facendolo indietreggiare con un’espressione tutt'altro che tranquilla. «Non azzardarti a toccarmi», gli intima a denti stretti, marcando ogni lettera con una punta di disprezzo.
«Hey, vogliamo calmarci?» interviene qualcuno, con un tono di pura nonchalance.
Tifah spia l'intruso e riconosce Solomon, che si muove a ritmo di una canzone che è l’unico ad udire, proveniente dalle cuffie nelle sue orecchie. Lascia andare la presa e raddrizza la schiena con orgoglio, mentre Kelvin si massaggia la cute lesa e la guarda con codardo rancore.
«Tieni al guinzaglio questo stupido, la prossima volta», esordisce lei.
Solomon, con gli occhi chiusi ed i piedi in preda ad un passo di danza lento, ma concentrato, annuisce senza troppa convinzione: conosce bene suo fratello minore, di quattro anni più piccolo, quindi sa quanto possa essere una spina nel fianco, e conosce altrettanto bene la sua coetanea Tifah, graziosa fino a quando non si trasforma in una furia se viene infastidita; analizzando la situazione, è evidentemente arrivato alla conclusione che sia meglio placare gli animi di tutti.
«Dio», sospira lei, superando i due fratelli e scuotendo la testa.
 
«Non dirmi che vuoi farti suora», bofonchia Tifah, con la bocca colma di ugali. Ha finalmente recuperato un piatto, non senza una buona dose di rimproveri, e può riempirsi lo stomaco, mettendo a tacere almeno uno dei suoi bisogni.
Ryma, al suo fianco, alza una sola palpebra e la guarda con serietà: è inginocchiata a terra, all'interno del dormitorio delle ragazze e rivolta verso la finestra, che ormai si affaccia nel buio.
«Che c'è?» domanda l'altra, seriamente stupita da quella reazione. «Ultimamente non fai altro che pregare», si giustifica. Anche lei è cattolica - tutti lo sono - ma non potrebbe definirsi praticante. Partecipa alle messe tenute nell'orfanotrofio e recita una preghiera prima di andare a dormire, ma solo perché costretta a farlo. Crescendo, inoltre, ha iniziato a farsi sempre più domande: perché dovrebbe credere in un Dio che non è in grado di offrirle nulla? Che le concede solo ugali e chapati a giorni alterni?
Ryma chiude di nuovo gli occhi e continua a tenere le mani giunte di fronte al suo petto, mimando chissà quali parole con le labbra carnose: il viso armonioso reso statuario dalla luce notturna che lo illumina.
Tifah termina di mangiare la sua cena e lascia il piatto sotto il materasso del proprio letto, ripromettendosi di nasconderlo meglio appena ne avrà voglia. Alcune delle ragazze si stanno già preparando per andare a dormire, chi con uno sbadiglio, chi con qualche protesta.
«Ryma?» chiama piano, mordendosi una guancia.
«Hm?» risponde lei, distratta. La sua concentrazione e la sua dedizione in ciò che crede la fanno apparire più matura di quanto non sia, chiusa nei suoi tredici anni.
«Sai cos'è successo a Peter? Prima l'ho visto stare da solo sulla panchina vicino al lavatoio: è strano», spiega, accigliandosi nel ricordare il suo amico così isolato. «Voglio dire, è facile che si sia stancato di quel branco di idioti che ha come compagni, ma è troppo buono anche per questo», continua.
L'amica sospira e posa le mani sulle ginocchia, voltandosi lentamente a guardarla. «Non l’hai saputo?» La sua espressione è pacata, come sempre. «Ha l'HIV», dice soltanto.
Tifah indietreggia involontariamente di un passo, schiudendo le labbra.
Serra la mascella e se ne va, sbattendo la porta.
 

 
Quella notte, l’ospedale di Nayuri viene reso complice di una tragedia purtroppo abitudinaria.
«Dov'è la madre?» domanda Karoke, prendendo tra le braccia il fagotto di coperte nel quale è stretto un neonato.
«Solo Dio lo sa», risponde Mary. «La polizia ha avuto una soffiata da un passante e l'ha trovato in strada, nudo ed in ipotermia. Povera anima, ha ancora il cordone ombelicale», spiega a bassa voce, sperando di non svegliare il reparto di pediatria.
Le due infermiere restano in silenzio a contemplare il viso innocente, ma già marchiato, che dorme inconsapevole. Non le stupisce il fatto che sia stato abbandonato, perché conoscono la povertà e ciò a cui è in grado di portare, ma non riescono a non essere sconvolte da tanta disperazione.
«È sano?» chiede Karoke un paio di minuti più tardi, stringendolo un po' di più.
«Il cordone sembra infetto, ma dovremo aspettare gli esami. Per il resto... Sì, credo stia bene», annuisce l'altra, recuperando dal bancone la cartella medica compilata all'accettazione. Vuole accertarsi delle notizie riportate e magari scoprire qualcosa in più. La osserva per qualche istante e poi scuote la testa. «Unknown African child», legge lentamente. «È così che si chiama, stando ai nostri medici».
Karoke aggrotta le sopracciglia in un'espressione disgustata e culla il piccolo che sembra sul punto di svegliarsi. «La madre avrà sei mesi per reclamarlo, nemmeno fosse un pacco non arrivato a destinazione: dopodiché, lui dovrà sperare che qualcuno vorrà adottarlo o finirà al Kenyatta Centre con tutti gli altri bambini di strada».
Mary sospira ed accarezza le guance paffute del neonato, poi fa un cenno di saluto alla sua collega e va a cambiarsi per tornare a casa.
Karoke, rimasta sola, lascia delicatamente quel cumulo di pelle rosea e coperte nel suo lettino, sperando che non inizi a piangere. «D'ora in poi ti chiamerai Andrew Bahati», gli sussurra sul viso, prima di recuperare la cartella e correggere il suo nome.

 
 
  
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