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Autore: experiencing    13/06/2015    3 recensioni
Questa è la storia di come sia possibile annientare l'innocenza con l'indifferenza, di come poche parole possano germogliare in un cuore puro, di come bastino piccoli gesti per cancellare ogni speranza. Questa è la storia di come scoprii la malvagità, nascosta laddove nessuno avrebbe mai pensato di cercarla.
Dal testo:
"Mi alzai di scatto e, prima di potermi tirare indietro, sollevai l’asse con un gesto deciso. Un grido mi morì in gola. C’era davvero una piccola figurina umana grigia e ranicchiata. La vidi per un solo brevissimo istante, poi le candele si spensero. Tutte e tre insieme. Come se qualcuno ci avesse soffiato sopra."
Genere: Dark, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'innocenza cancellata


                                                         


NOTA DELL'AUTORE
Racconto ispirato da Gabriel GARCIA MARQUEZ, Dodici racconti raminghi. Il primo paragrafo è interamente tratto dal libro di Garcia Marquez.
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Arrivammo ad Arezzo un po’ prima di mezzogiorno, e impiegammo più di due ore cercando il castello rinascimentale che lo zio Arturo aveva comprato in quell’angolo idilliaco della campagna toscana. Era una domenica all’inizio di agosto, ardente e chiassosa, e non era facile trovare una persona che sapesse qualcosa nelle vie accalcate di turisti. Dopo molti tentativi inutili tornammo all’automobile, abbandonammo la città lungo un sentiero di cipressi senza indicazioni stradali, e una vecchia pastora di oche ci indicò con precisione dove si trovava il castello. Prima di salutarci domandò se pensavamo di pernottare lì, e le rispondemmo, come già avevamo previsto, che vi avremmo solo pranzato. 
-Meno male- disse lei – perché in quel posto c’è da spaventarsi.

Quest’osservazione mi strappò un sorriso. Avrei voluto fermarmi ad approfondire l’argomento ma mio fratello, dal momento che eravamo già in leggero ritardo, volle ripartire subito. Lanciando un ultimo sguardo alla simpatica vecchietta (che, tra parentesi, portava in testa un buffo foulard rosso a pois) ci allontanammo. Prima di inserire la marcia, mio fratello mi guardò con un sorrisetto di scherno. Mattia, avendomi avuta tra i piedi dal giorno in cui sono nata, mi conosce benissimo e conosce ancor meglio la mia passione per spettri e castelli medievali. In realtà è stato lui a dar vita a questo ossessivo interesse. Quando dico che gli sto tra i piedi dal giorno in cui sono nata, intendo proprio letteralmente. A sentir lui avrei passato tutta la mia infanzia ad inseguirlo cercando di partecipare a qualsiasi cosa stesse facendo. Un giorno, per liberarsi di me (sono parole sue), mi mollò tra le mani un libro preso a caso dalla libreria del salotto, sfidandomi a leggerlo tutto. La ricompensa sarebbe stata un intero pomeriggio trascorso insieme, solo io e lui, a fare qualsiasi cosa io avessi voluto. Sperava così di potersi liberare di me per un tempo ragionevolmente lungo. Ma mi aveva decisamente sottovalutata. Guardai il tomo che avevo tra le mani. Risultò essere L'abbazia di Northanger, di Jane Austen. Per una bambina di sette o otto anni che non aveva mai letto niente di più impegnativo di Geronimo Stilton, le circa 200 pagine di quel romanzo, senza neppure una figura, sembravano una vera diavoleria. Ma, con il pensiero rivolto alla mia ricompensa, mi ci misi davvero d’impegno e il giorno seguente l’avevo già finito. Mio fratello, decisamente sbalordito, fu costretto a trascorrere un intero pomeriggio tra bambole, perline, tempere e pasta sale. Non certo uno spasso, per un ragazzo del liceo! Inutile dire che trovai il romanzo di Jane Austen estremamente noioso. Non mi importava niente di banchetti, corteggiamenti e matrimoni. Ma rimasi impressionata dalla parte che parlava dell’abbazia medievale, della donna che vi era stata uccisa e del suo fantasma che vagava per le stanze. Rimasi molto delusa quando alla fine si scoprì che non erano altro che fantasie della protagonista. Ma la bibliografia in fondo al volume forniva abbastanza spunti per nutrire la mia neonata passione. Mio fratello poté sicuramente godere di più libertà, dal momento che, da quel giorno, io trascorsi le mie giornate con il naso immerso in tutti i romanzi gotici che riuscii a trovare. E, con una madre che era stata docente di letteratura inglese all’università di Bologna, vi assicuro che ne trovai un bel po’. Ann Radcliffe, Robert Louis Stevenson, Mary Shelley e moltissimi altri divennero i miei migliori amici. Papà era un po’ preoccupato per questa strana passione, che non gli pareva adatta ad una ragazzina della mia età. Ma mia madre, troppo entusiasta di vedere la figlia dedicarsi alla lettura, laddove il suo primogenito l’aveva amaramente delusa, mi lasciò fare.
Ora, presentata questa situazione, il lettore potrà forse immaginare la mia emozione all’idea di visitare un vero castello medievale. Avevo ormai diciassette anni e non credevo che i fantasmi esistessero davvero. E infatti non erano gli spettri che speravo di trovare nella nuova casa dello zio Arturo. Cercavo l’atmosfera da romanzo gotico. Speravo di imbattermi in lunghi corridoi di pietra illuminati da luci fioche, giganteschi arazzi che nascondevano oscuri passaggi segreti, lettere ingiallite scritte da innocenti fanciulle poco prima di essere brutalmente assassinate… D’accordo, forse stavo viaggiando un po’ troppo con l’immaginazione. D’altronde non avremmo neppure trascorso la notte al castello. Come avevamo detto alla vecchia, avevamo intenzione di fermarci solo per pranzo. Ero in viaggio con mio fratello da circa dieci giorni. Avevamo in mente di girare l’Italia per un mesetto. Questa era la vacanza prevista per quell’estate. Dopo una breve tappa dallo zio saremmo partiti alla volta di Firenze. Non vedevo l’ora di visitare il museo degli Uffizi.
Finalmente giungemmo in vista del castello. Era davvero molto imponente. Si stagliava contro il cielo grigio, massiccio e con l’edera che si arrampicava ovunque. Mentre parcheggiavamo pensai che era decisamente uno scenario perfetto per un romanzo gotico.
- Ragazzi! Come sono felice di rivedervi! – ci accolse lo zio Arturo venendoci incontro a braccia spalancate.
A dire il vero anche io ero felice di rivedere lo zio. Era un uomo allegro e gioviale. Ha passato tutta la sua vita a girare il mondo e quando ero bambina mi portava sempre regali fantastici al ritorno dai suoi viaggi. Ora però è ormai anziano, o almeno così dice lui, e ha deciso di stabilirsi qui ad Arezzo per trascorrere una vecchiaia tranquilla. Devo ammettere che il posto se l’è scelto bene. Dalla collina dove sorge la casa si gode di una vista fantastica.
Dopo tutti i convenevoli che il lettore potrà facilmente immaginare e sui cui quindi non mi dilungherò, entrammo in casa. Dal momento che era ormai piuttosto tardi ci sedemmo subito a tavola e, con mia grande delusione, il giro della casa fu rimandato a dopo pranzo.
Anche in questo caso preferisco risparmiare al lettore tutti i discorsi che allietarono il pasto e che non ebbero niente di speciale rispetto a tutti gli altri discorsi tra parenti che sono stati separati per un periodo di tempo relativamente lungo. Così il lettore potrà senza indugio giungere direttamente alla passeggiata per i lunghi e freddi corridoi del castello.
Inutile dire che il castello era gigantesco e soddisfò pienamente tutte le mie aspettative. Benché non ci imbattemmo in passaggi segreti o fantasmi, potei comunque avere tutti i lunghi corridoi fiocamente illuminati che avrei mai potuto desiderare. Le stanze erano gigantesche e anche abbastanza fredde. I signori medievali insegnano che scaldare un castello di tali dimensioni non è una cosa facile. E hanno ragione. Nonostante fossimo in agosto il temporale che si lasciava presagire ormai da un paio d’ore era finalmente scoppiato e aveva decisamente rinfrescato l’aria. E, cosa ancora più importante per la mia piccola mente di ragazzina in cerca di avventure, ci avrebbe impedito di lasciare il castello prima del giorno seguente. Quindi, dopotutto, avremmo trascorso la notte al castello. Le parole della vecchia mi risuonarono nella testa solo per un istante. Poi scomparvero, lasciando posto soltanto al mio infinito entusiasmo. Mi sentivo la ragazza più fortunata del mondo. Solo le circostanze avrebbero potuto dimostrarmi quanto sbagliavo.
Il pomeriggio trascorse in noiose partite a carte, dato che non fu possibile uscire, e la cena fu del tutto simile al pranzo. Giunse così l’ora di coricarsi, quella che tanto attendevo. Infatti non sarei certo stata una vera appassionata di romanzi gotici se non avessi sognato una passeggiatina notturna per il castello. E, elemento ancora più importante per accrescere la mia euforia, era saltata la corrente. Avrei davvero potuto vagabondare per i corridoi a lume di candela, come le mie eroine.
A me e Mattia furono assegnate due camere separate. D’altronde, come disse lo zio, la casa era così grande che potevamo tranquillamente permettercelo. E l’aria non era poi così gelida da dover accendere i caminetti. Sarebbe stato sufficiente avvolgersi ben bene nei piumoni. Così, dopo aver salutato mio fratello e lo zio, chiusi la porta della mia camera con il cuore che mi batteva all’impazzata. Mi guardai intorno. Le pareti erano ricoperte da carta da parati scolorita. Le tende del grande letto a baldacchino erano raccolte da un nastro. Le assi di legno scricchiolavano sotto i miei piedi. Ad un primo sguardo, questo fu tutto ciò che potei scorgere nel piccolo cerchio di luce della mia candela. Ma fu sufficiente a farmi tremare le gambe. Elettrizzata, andai alla ricerca degli altri candelabri che lo zio mi aveva detto trovarsi nella stanza. Di solito servivano solo di figura, ma quella notte si sarebbero rivelati più utili. Accesi tutte le candele che trovai. Probabilmente era uno spreco, ma non potevo sopportare che neppure un angolino della stanza rimanesse in ombra. I mobili che mi circondavano era scuri, di legno lucido. Con mia grande delusione non erano però molto impolverati, dettaglio che passò decisamente in secondo piano quando scorsi una grossa cassapanca in un’alcova del muro. Mentre la aprivo per sbirciarci dentro mi sentii esattamente come la Catherine di Jane Austen. E la sensazione si fece ancora più penetrante quando, proprio come Catherine, scoprii che conteneva solo trapunte. Mi ero però lasciata il dettaglio più interessante per ultimo. L’arazzo. Sì perché in quella camera, per quanto possa sembrare inverosimile, c’era davvero un arazzo. Era gigantesco e così scolorito che era impossibile capire cosa rappresentassero le figure che vi erano ricamate. Mi avvicinai per scostarlo, sperando che celasse un passaggio segreto, ma assolutamente certa che non fosse così. Il lettore potrà quindi forse immaginare il mio spavento quando, sollevando un lembo del tessuto, scoprii che nel muro vi era davvero una cavità fredda e scura. Trasalii e la candela mi sfuggì di mano finendo a terra. Si spense ma, dal momento che avevo acceso tutte le candele presenti nella stanza, non rimasi al buio. Se così fosse stato, non so se il mio cuore avrebbe retto allo spavento. Per qualche istante non potei fare altro che restare immobile, gli occhi fissi sull’arazzo, respirando profondamente nel tentativo di calmarmi. Benché non fosse successo niente di ché, ero terrorizzata. A spaventarmi era la prospettiva di ispezionare quel passaggio stretto e scuro e, allo stesso tempo, la consapevolezza che non potevo fare a meno di avventurarmici. Immaginavo che il giorno seguente, alla luce del sole, mi sarei reputata una sciocca e sarei morta dalla curiosità di sapere cosa c’era al termine di quel passaggio che io non ero stata abbastanza coraggiosa da esplorare. Così presi un candelabro a tre bracci (nel timore che una sola candela avrebbe potuto spegnersi per uno spiffero) e mi intrufolai nel passaggio. Era un corridoio con le pareti in pietra, piuttosto stretto. Io, pur non essendo molto alta, riuscivo a malapena a camminarvi dritta, senza dover chinare il capo. I passaggio non era molto lungo. Anzi, a dire il vero, appena entrata potevo già scorgere la stanza che si trovava dall’altro lato. In pochi passi la raggiunsi. E, giusto il tempo di guardarmi un po’ attorno, mi sentii una stupida. Era una cameretta per bambini. La carta da parati ricoperta da figurine colorate e la culla accanto alla finestra lo dimostravano. Non era molto grande, ma probabilmente doveva essere appartenuta a due bambini. Infatti, oltre alla culla, c’era anche un letto con una trapunta rosa accostato alla parete. E così il mio presunto passaggio segreto si rivelò un semplice corridoio, probabilmente fatto costruire da una madre un po’ troppo apprensiva per poter stare vicina ai propri figli. Da qual momento, scomparsa tutta la paura, potei esplorare la stanza con grande entusiasmo. Era molto più polverosa dell’altra camera, forse anche perché veniva usata di meno. La famiglia che aveva abitato quella casa doveva essere partita in grande fretta, perché tutti gli oggetti dei bambini erano ancora lì. Era pieno di giocattoli meravigliosi, che io mi sarei potuta sognare quando ero piccola. Esaminando i vestitini nell’armadio scoprii, come già avevo intuito, che la cameretta era appartenuta ad un neonato e ad una bimba, di forse sei anni. Trovavo tutto ciò molto affascinante. Per un attimo mi soffermai a riflettere sul motivo che poteva averli spinti ad una partenza tanto improvvisa. Ma, dato che le mie ipotesi cominciavano a prendere in considerazione brutali assassinii, e vergognandomi ancora per il grande spavento che mi ero procurata da sola poco prima, smisi di pensarci. Probabilmente era stato qualche avvenimento banale. Tanto più che non avrei neppure saputo stabilire con precisione quando quei bambini avevano vissuto lì. I vestiti non sembravano proprio moderni, ma, secondo me, non erano proprio medievali. E anche la culla in legno non sembrava poi così vecchia. Mi pareva abbastanza simile a quella in cui avevo dormito io e che era stata costruita per mia nonna. Continuando la mia indagine scoprii qualcosa che mi lasciò decisamente elettrizzata. Nel muro sotto il letto della bambina scoprii un’asse mobile. Il lettore potrebbe chiedersi come feci a scoprire un tale nascondiglio. E la risposta sarebbe piuttosto semplice: ho la fortuna di possederne uno molto simile. Sperando di scovare qualcos’altro di interessante mi accinsi a rimuovere l’asse. Dato che non veniva spostata da molto tempo faticai un po’, ma alla fine riuscii ad aprire quel piccolo nascondiglio segreto. Come avevo immaginato conteneva tanti piccoli oggetti che per una bimba potevano facilmente costituire un tesoro. Tra nastrini e sassi colorati trovai però anche un quaderno. Qualche ora prima, presa da tutta la mia bramosia di vivere un’avventura gotica, avrei pensato si trattasse di qualche misterioso documento che svelava orribili crimini o qualcosa del genere, ma ora il mio animo era mutato e vi vidi solo quello che sembrava: il diario di una bambina. Questo però non diminuì minimamente il piacere della mia scoperta. Portai il quaderno al centro della stanza e, seduta a terra a gambe incrociate, lo aprii. La prima data, scritta con grafia incerta e tremolante, era 17 febbraio 1927. Quindi le mie congetture non erano del tutto sbagliate. Mia nonna dev’essere nata nel ’30 o giù di lì. Eccitata dalla prospettiva di entrare nella vita di una persona vissuta tanto tempo prima, iniziai a leggere.

 
17 febbraio 1927
Caro diario,
mi chiamo Rosa e ho sette anni. Abito a Arezzo, che è un posto molto bello, pieno di prati e boschi dove la mamma mi portava sempre a passeggiare. Ora però non ci andiamo più perché lei è malata. A volte ci vado con Maria, che è la mia tata, ma lei non è brava come la mamma a riconoscere i tipi di fiori. E poi non mi lascia mai mangiare le more perché dice che forse sono velenose. Io so che non è vero perché con la mamma le mangiavo sempre e glielo dico. Ma lei non me le lascia mangiare lo stesso. Per fortuna tra poco la mamma guarisce così posso di nuovo passeggiare con lei. Oggi è stata tutto il giorno nel suo letto e io sono andata a farle compagnia. Le ho anche letto un pezzetto del libro di favole che mi ha regalato la zia Margherita. La mamma era tutta contenta. Dice che sono bravissima a leggere e che se continuo così presto potrò anche scrivere un diario come fanno le signorine grandi. Secondo me io sono già capace, così oggi sono andata nello studio di papà per chiedergli questo quaderno. Lui però non c’era, così l’ho preso e basta. Tanto lui ne ha uno scaffale intero e non li usa mai. Non so bene cosa bisogna scrivere in un diario. Oggi l’ho chiesto a Maria e lei mi ha detto che bisogna scrivere ogni sera quello che è successo ogni giorno. Di oggi però ho già raccontato tutto. Quindi adesso vado a dormire.

 
19 febbraio 1927
Caro diario,
scusa ma ieri non ho potuto scrivere. Papà è andato via per il lavoro e così ieri sera ho dormito nel lettone con mamma. Ormai il suo pancione è enorme. Oggi Maria ha detto che manca poco. Io però non ho capito e lei ha detto che non aveva tempo per spiegarmi. Forse vuole dire che la mamma guarisce tra poco. Oggi è venuta la zia Margherita e mi ha detto che nella pancia della mamma c’è il mio fratellino. Io però non ci credo. Secondo me ha la pancia così grande solo perché è malata. Forse ha mangiato qualcosa di cattivo. Non so come arrivano i bambini ma di sicuro non possono stare nelle pance delle mamme. Altrimenti come fanno a entrare?
Domani forse faccio vedere il diario alla mamma, visto che ho già scritto due giorni. Così è ancora più contenta e vede come sono brava.

 
20 febbraio 1927
Caro diario,
oggi non posso far vedere il diario alla mamma. Non sembra che sta guarendo. È molto più malata di ieri. È venuto il dottore e sono stati tutto il giorno nella camera di mamma. Adesso è buio, ma sono ancora lì. Io oggi dormo in camera con Maria perché dicono che in camera mia non posso stare. Peccato perché sennò potevo andare a vedere come sta la mamma. Adesso però Maria non c’è perché sono tutti con la mamma. Per fortuna che oggi pomeriggio ho portato il diario, sennò adesso non potevo andare in camera mia a prenderlo e mi annoiavo. Qui è tutto silenzio. La camera di Maria sta nel piano sottoterra. Ho un po’ paura a stare qui da sola. Ma prima, quando volevo salire a vedere la mamma, Maria mi ha sgridata e mi ha rimandata giù.
Speriamo che guarisce presto.
 
21 febbraio 1927
Caro diario,
oggi dormo di nuovo nella mia camera. Però non so dov’è la mamma. Sono andata nella sua camera ma lei non è più nel letto. Ho chiesto a Maria ma lei si è messa a piangere e non mi ha risposto. Sono andata a chiedere anche al cuoco, ma non me l’ha detto nemmeno lui. Però aveva ragione la zia Margherita. C’è davvero un bambino nuovo. È piccolo e ha tutta la faccia rossa e piange tutto il tempo. Per fortuna dorme nella camera con Maria così non posso sentirlo. Mi dispiace un po’ perché con Maria ci volevo dormire io. Qui sono tutta sola. Non so se è davvero il mio fratellino. Vorrei chiederlo alla mamma, però non so dov’è. Per fortuna domani viene la zia Margherita, così lo chiedo a lei.

 
22 febbraio 1927
Caro diario,
oggi è venuta la zia Margherita e ha detto che è davvero il mio fratellino. Però non sono tanto sicura, perché non sa nemmeno come si chiama. Dice che il nome deve deciderlo papà. Papà torna domani. Mamma invece non so quando torna. Quando l’ho chiesto alla zia Margherita, mi ha presa in braccio. Poi mi ha detto che mamma è andata in cielo con gli angeli. Dice che non torna più. Ma io non ci credo, lo so che scherza. Solo non capisco perché tutti piangono tanto. Forse giocano tutti a questo scherzo. Però non vedo l’ora che la mamma torna, così gli faccio vedere il diario.
 
23 febbraio 1927
Caro diario,
oggi è tornato papà. Anche lui ha detto che mamma è in cielo e non torna più. E poi si è messo a piangere. Io mi sono spaventata e ho pensato che magari è in cielo per davvero, perché papà non piange mai nemmeno per scherzo. Dice che dobbiamo scegliere il nome per il fratellino. Forse allora è davvero il mio fratellino, se lo dice papà. A me però non interessa come si chiama. Io voglio solo che torna mamma. Quando glielo detto però papà ha detto di nuovo che non torna più e ha pianto. Dice che domani facciamo un cirimonia per salutarla. Io non so cos’è una cirimonia, però mi sembra una cosa bella. Così quando salutiamo la mamma le faccio vedere il diario e gli do un bacio e gli dico di non andare più via. E così lei di sicuro rimane.
 
24 febbraio 1927
Caro diario,
oggi sono andata alla cirimonia. Avevo un vestitino nero nuovo. Me l’ha comprato la zia Margherita. Io avevo nascosto il diario sotto la gonna per farlo vedere alla mamma. La cirimonia si faceva nella cappella. Mamma stava sdraiata con gli occhi chiusi. Io gli ho tirato il braccio. Ma lei non si muoveva. Allora gli ho detto nell’orecchio che avevo iniziato il diario. Ma non si è mossa. Poi papà mi ha seduta sulla panca vicino a lui. Siamo rimasti lì un sacco di tempo mentre il prete diceva la messa. Io però non lo ascoltavo. Guardavo la mamma per vedere quando si svegliava. Ma lei non si è mossa. Poi il prete ha finito. Papà piangeva di nuovo. Piangevano tutti. Dei ragazzi hanno messo un coperchio sopra la cassa dove c’era la mamma. Ci hanno messo dei chiodi. Io avevo paura perché così mamma non poteva più uscire. L’ho detto a papà ma lui non ha risposto. Poi siamo andati al cimitero, dove ci sono le persone morte. C’era una grossa buca e ci hanno messo dentro la mamma. Poi la zia Margherita mi ha dato un fiore e mi ha detto di buttarlo sulla cassa. Piangeva anche lei. Io l’ho buttato, ma poi ho detto alla zia che nella cassa chiusa la mamma non poteva respirare. Lei ha detto che nella cassa non c’era davvero la mamma. Dice che la mamma è in cielo. Io però avevo visto che era nella cassa e così mi sono messa a piangere. Gridavo a tutti che dovevano aprire la cassa perché la mamma non respirava. Ma nessuno mi ascoltava e allora volevo aprirla io. Ma papà mi ha presa in braccio e mi ha portata via. Ho visto i ragazzi che buttavano la terra nel buco. Però anche se io gridavo nessuno mi ascoltava. La zia Margherita dice che nella cassa non c’era la mamma. E forse è vero. Perché sennò perché non ha voluto vedere il mio diario?

 
26 febbraio 1927
Caro diario,
ho paura che la mamma è morta per davvero. Papà piange sempre. Sta tutto il tempo al cimitero con il fratellino in braccio. Io oggi volevo chiedergli di nuovo dov’è la mamma. Così magari mi diceva che è tutto uno scherzo e che torna domani. Ma lui mi ha mandata via e mi ha detto di andare da Maria. Però anche lei non mi poteva ascoltare perché diceva che doveva lavare i vestiti del fratellino. Così sono tornata nella mia camera. Però mi sono annoiata tanto.
Papà dice che questa notte il fratellino dorme con me. E anche domani e tutte le altre notti. Hanno portato una culla. Io non sono contenta perché lui piange sempre. E poi questa è la mia camera. La casa è grande, non può prendersi una camera tutta sua?
 
Un rumore mi fece sobbalzare, distraendomi dalla lettura. Il cavallino a dondolo si stava muovendo avanti e indietro. Subito il cuore mi balzò in gola. Sentii uno spiffero alle mie spalle e, voltandomi di scatto, vidi che una delle finestre era aperta. Con un sospiro di sollievo mi alzai a chiuderla. Era stato solo uno spiffero a far muovere il cavallino che ora stava pian piano rallentando il suo dondolio. Non ero però ancora del tutto tranquilla. Ero assolutamente certa che prima la finestra fosse chiusa. Memore delle mie inutili paure di poco prima mi convinsi però che doveva essere stato solo un colpo di vento a spalancarla. Non poteva che essere così. Dandomi un’ultima occhiata attorno, tornai al diario. Pian piano scoprii come la piccola Rosa venne abbandonata a sé stessa dal padre e dalla tata, troppo impegnati ad occuparsi del neonato. Attraverso la sua grafia infantile seguii il filo dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, che la condusse pian piano alla comprensione di quanto era accaduto. Con il cuore stretto dalla tenerezza, vidi la bimba nei suoi primi approcci al fratellino, nei suoi inutili tentativi di conquistarsi le attenzioni della tata e l’affetto paterno.

 
14 aprile 1927
Caro diario,
sono proprio stufa del fratellino. Piange tutto il tempo. E poi papà e Maria guardano solo lui. E io tutta sola non so cosa fare. Mi annoio tutto il giorno. Per fortuna alla domenica viene la zia Margherita che gioca con me. Però tutti gli altri giorni non c’è. Vorrei tanto che ci fosse ancora la mamma. Però ormai ci credo che è morta. E non mi viene più da piangere perché ho già pianto tanto. Però non capisco come ha fatto a morire. Era malata ma tutti dicevano che stava guarendo. La zia mi ha detto che è successo quando è nato il fratellino. Dice che Gesù ha deciso di prendersi una vita per darne un’altra. A me non sembra tanto giusto. Questa sera ho detto la preghiera, come mi ha insegnato la zia. Ho detto a Gesù se può riprendersi il fratellino e ridarmi la mamma. Non mi ha risposto. Però magari lo fa.

 
17 aprile 1927
Caro diario,
la mamma non è tornata e il fratellino è ancora qui. Gesù è proprio cattivo.

 
20 aprile 1927
Caro diario,
ho deciso che forse Gesù non può venire a prendersi il fratellino. Forse glielo devo portare io. Però non so come fare. La zia Margherita dice che Gesù abita in cielo. Oggi gli ho chiesto come si fa per andare in cielo. Lei ha detto che ci si può andare solo dopo morti e solo se si è stati bravi. Il fratellino non è stato molto bravo. Urla e basta. Però forse Gesù se lo prende lo stesso in cambio della mamma.

 
21 aprile 1927
Caro diario,
questa sera il fratellino urlava un sacco. Papà però non c’era e Maria dormiva in camera sua. Così sono andata io vicino alla culla. Però non sapevo come fare a farlo stare zitto. Gli ho messo il cuscino sulla faccia e per un po’ non ha urlato più. Poi però quando l’ho tolto ha urlato di nuovo. Così l’ho schiacciato di nuovo. L’ho tenuto tanto tempo. Quando l’ho tolto non urlava più. Era zitto e non si muoveva. Come la mamma in chiesa. Così ho pensato che forse era morto. Magari adesso poteva andare in cielo e far tornare la mamma. Però non sapevo dove metterlo. So che i morti si mettono nel cimitero, ma io non potevo andarci da sola. E poi non so se sono capace di scavare un buco. Non l’ho mai fatto. Così ho deciso di metterlo in un buco già fatto in camera mia. C’è un asse che si può alzare davanti alla finestra e sotto ci sono tutti i miei segreti. Però quelli posso metterli nell’altro buco con il diario. Così ci ho messo il fratellino morto. Sono sicura che domani quando mi sveglio c’è la mamma.
 
23 aprile 1927
Caro diario,
la mamma non è tornata. Maria ha urlato un sacco quando ha visto che non c’era più il fratellino. Papà si è arrabbiato con lei. L’hanno cercato però non l’hanno trovato. Io non ho detto niente. Ieri sera papà ha bevuto un sacco di vino e poi è andato a dormire. Ha detto che cambiamo casa. E infatti domani andiamo a vivere in una fattoria. Il diario però non me lo porto. Lo lascio nascosto qui. Anche oggi papà ha bevuto un sacco di vino.
 
Rimasi letteralmente agghiacciata leggendo le ultime pagine. Non era possibile. Doveva essere tutto uno scherzo. Un triste storiella un po’ macabra inventa da una bambina con una fervida immaginazione. Subito il mio sguardo corse al pavimento davanti alla finestra. Pareva davvero che ci fosse un’asse un po’ sollevata. Non era possibile. Erano queste le uniche parole che riuscivo a ripetermi. Eppure sarebbe stato facile controllare. Sarebbe bastato sollevare quell’asse e, una volta scoperto che sotto non c’era niente, mi sarei calmata e avrei potuto ridere di tutta quella situazione. Com’era successo prima con il fantomatico passaggio segreto. Ma cosa sarebbe successo se invece sotto l’asse ci fosse stato qualcosa? Come mi sarei comportata se in quella cavità avessi scovato un piccolo corpicino semi-decomposto? Possibile? Poteva essere rimasto lì tutto quel tempo senza che nessuno lo trovasse? Sempre che ci fosse stato… Terrorizzata da queste riflessioni decisi che quell’incertezza era davvero insopportabile. Mi alzai di scatto e, prima di potermi tirare indietro, sollevai l’asse con un gesto deciso. Un grido mi morì in gola. C’era davvero una piccola figurina umana grigia e ranicchiata. La vidi per un solo brevissimo istante, poi le candele si spensero. Tutte e tre insieme. Come se qualcuno ci avesse soffiato sopra. Con il cuore in gola mi gettai contro la parete e, trovato a tentoni l’ingresso del cunicolo, mi precipitai nell’altra stanza. Grazie a dio alcune candele erano ancora accese. Per alcuni minuti rimasi semplicemente immobile sul letto, con gli occhi fissi sull’arazzo, incapace di riflettere. Poi, in un lampo, mi immaginai lì, in quella stessa posizione, ma con le candele spente. Subito mi alzai e le spensi tutte tranne una. Con le mani che mi tremavano tornai sul letto e mi risedetti con lo sguardo fisso sull’arazzo, la candela accesa sul comodino accanto a me. Quando la candela era ormai quasi consumata, usai la fiamma per accenderne un’altra. Feci il più in fretta possibile, per non perdere di vista per troppo tempo l’arazzo. Chissà chi o che cosa sarebbe potuto entrare da lì se mi fossi distratta troppo a lungo. Accesi altre tre candele man mano che le altre si consumavano. E non staccai mai gli occhi dall’arazzo fino a che non mi si chiusero.
Mi svegliò mio fratello, venuto a bussare. Disse che era pronta la colazione. Poi se ne andò prima che potessi rispondere. Il temporale del giorno prima era passato. Un sole caldo e luminoso splendeva al di là dei vetri della finestra. Mentre mi stiracchiavo gli avvenimenti della sera prima mi tornarono alla mente tutti insieme. Rabbrividii e il mio sguardo corse all’arazzo. Alla luce del sole tutto quanto era accaduto sembrava ancora più inverosimile. Senza darmi il tempo di rifletterci troppo mi alzai di scatto, scostai l’arazzo e corsi nell’altra stanza. Io sono fatta così. Volevo fare la cosa che ritenevo giusta prima che la paura tornasse ad impedirmelo. Se davvero c’era il cadavere di un bambino avrei dovuto dirlo a qualcuno. Era giusto che venisse sepolto.
La cameretta era molto meno minacciosa alla luce del sole. Ma non per questo mi spaventò di meno. Sul pavimento, dove avrebbe dovuto esserci il diario che io avevo lasciato cadere non c’era niente. L’asse davanti alla finestra era sollevata e la cavità che nascondeva era vuota. Eppure ovunque la polvere sulle assi del pavimento era solcata da impronte. E non ero sicura che fossero tutte mie. La finestra era di nuovo aperta. Rabbrividendo, tornai nella mia camera, decisa a non pensare mai più a tutta quella storia. Non c’era nessuna prova che tutto ciò che avevo scoperto la sera prima fosse vero. E anche se lo fosse stato ormai era passato tanto tempo. La stessa bambina doveva essere morta da tempo. Oppure era una vecchia decrepita. E poi non era neppure detto che fosse tutto vero. Forse mi ero sognata tutto. Sì, doveva essere così. Decisi che era così.
Scesi a colazione. Dato che era tornato il bel tempo io e Mattia decidemmo di partire subito. Se lui fu stupito dalla mia fretta di lasciare quello che fino alla sera prima ritenevo il castello dei miei sogni non lo diede a vedere. Senza altre complicazioni potemmo partire in fretta, pronti a riprendere la nostra vacanza da sogno. Lo zio ci invitò a tornare a trovarlo quando volevamo, anche per un periodo più lungo. Con un falso sorriso, risposi che saremmo tornati senz’altro. Intanto, nella mia testa, giuravo di non rimettere mai più piede in quel castello malefico.
In macchina mi tornò l’allegria. Era una giornata stupenda e Mattia era di ottimo umore. Non faceva altro che parlare. Ora gli eventi della sera prima sembravano davvero solo un brutto sogno. E forse dopotutto lo erano stati. Non aveva più senso pensarci. Mi aspettava una splendida vacanza con il mio fratello preferito, nonché l’unico. Non vedevo l’ora di arrivare a Firenze. Mi chinai a prendere la borsa del tappetino. Vi frugai dentro alla ricerca degli occhiali da sole. Ma le mie dita incontrarono un oggetto sconosciuto. Tirandolo fuori scoprii che era un foulard rosso a pois. Alzando lo sguardo vidi la vecchia pastora delle oche al lato della strada. Ci stava salutando con un sorriso stampato in faccia. Non aveva più il foulard in testa.




 
  
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