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Autore: Vella    21/06/2015    1 recensioni
Una famiglia. Una contea. Una residenza.
Jenkins. Buckinghamshire. Winslow Hall. Anno 1896.
Tre storie apparentemente scollegate fra loro. Tre mondi. Tre amori. Tre, il numero perfetto.
Daniel Shaw è un poeta profondamente enigmatico, strano, seducente, romantico. Cerca la sua musa ispiratrice, trovandola d'improvviso in Wendy, una ragazza benestante e solare, con un segreto. Così nasce un amore sconfinato, senza vie, dal sapore della proibizione e dello sbagliato. Un amore fatto di sguardi e di intensi contatti umani.
Viktor Mitchell, uomo di ventotto anni, rude, agognato, senza alcuna forma di desiderio. Veterano di guerra. Ed ora divenuto professore per l'istruzione di famiglie d'alto rango. Un uomo davvero, forse troppo, sbagliato e pieno di peccati. S'innamora perdutamente di Katherine, una ragazza di diciassette anni, giovane, ribelle, forte, eppure la sua unica alunna.
E infine Gerard Collins, ventiduenne, senza tetto, soldi o famiglia. Un gigolò in cerca di amore tra persone che non lo completano. Per questo quando incontra Henry il tumulto di sentimenti che si forma nel suo cuore, lo confonde.
Henry, Wendy e Katherine sono fratelli. Sono la famiglia Jenkins. Sono sbagliati perché non seguono le convenzionali etichette ma lo struggente filo conduttore dell'amore più remoto.
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, L'Ottocento
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L'interpretazione della morte.

C
'era la sua aura in quella stanza, un'aura che poteva esser definita negativa se si prendevano in esempio alcune circostanze della medesima situazione, ma poteva esser considerata altrettanto in modo positivo, se vi si guardava da un punto lontano, un punto fuori luogo che sapeva esattamente dove cogliere le sfumature azzurre e bianche in quel nero opprimente.
Le tendine dello studio in legno erano state chiuse violentemente e malamente, le finestre fragili riflettevano una luce tenue e l'uomo era stravaccato su una delle poltrone presenti, con un bicchiere di scotch tra le mani salde e le gambe divaricate, uno sguardo perso nel vuoto, il puzzo dell'alcol di prima mattina, i capelli che si scompigliavano sulla fronte e la cintura sbottonata, come i bottoni della zip dei pantaloni ricamati a mano.
C'era qualcosa nel suo sguardo, in quella brutta posizione, tra le costole e i polmoni ed il cuore che batteva ritmicamente; qualcosa che poteva esser considerata gelosia, oppure una sbronza di prima mattina.
I polpacci gli dolevano, aveva corso tanto e forte, come una lepre a caccia, in cerca di un nascondiglio che si era rilevato nella realtà il dottore della grande contea del Buckinghamshire. Dove trovava un medico di prima mattina con quella faccia da mascalzone arrabbiato nero? Sì, perché lui era arrabbiato nero, forse come mai lo era stato in vita sua e si sentiva ferito, come un cane bastonato dal suo padrone.
Si sentiva anche così sciocco! Con quello scotch che gocciolava sui polpastrelli e poi sul pavimento, che veniva inghiottito con forza e trangugiato pesantemente, lasciando una gola infiammata, più dei pensieri stessi.
Il medico era corso senza troppe cerimonie, aveva fatto la sua entrata a Winslow Hall con un'aria altezzosa, di quelli che sanno troppo della vita e che alla fine uccidono inconsapevolmente.
―Mio dio Frank! Sono scioccato, scioccato come non mai... non so cosa sia accaduto, non lo so proprio. Guarda, guarda, ho il cuore che batte energicamente e le mani che tremano! Mamma mia, che spavento, che spavento che ho!― Mr Jenkins delirava, delirava perché forse era l'unica cosa buona che sapeva fare nei momenti di panico, o forse perché solo quello aveva fatto per tutta la vita, delirare coi figli, gli amici, in politica, tra le case della gente, nelle strade, a lavoro, mentre leggeva un giornale o si rivolgeva a Sheila, la cara e dolce Sheila!
―Dov'è, Ernest? Dopo mi spiegherai l'intera dinamica, adesso è meglio correr da lei. Non aspettiamo troppo, meglio non indugiare sul latte versato.― L'aveva quasi sussurrata l'ultima frase ma Viktor aveva occhi da falco e orecchie... orecchie di qualche altro animale; l'aveva udito senza troppo sforzo ed ora seguiva i movimenti dei due che si apprestavano ad entrare nel grande studio dove il corpo di Sheila era stato poggiato sul tavolo in legno, e in quel momento il precettore s'era chiesto, semmai la donna fosse morta veramente, che sepoltura le sarebbe stata data.
Non indugiare sul latte versato! Ma quale latte versato? Viktor non sapeva affatto cosa fosse successo, la dinamica gli era totalmente oscura.
Presto venne affiancato dalla cameriera di poco prima che lo osservava con un timore gentile negli occhi.
―Desiderate qualcosa signore? Dovete perdonarmi... perdonarmi davvero, non sono una governante io, di queste cose non capisco e non comprendo manco come facesse la buona Sheila a tener tutto sotto controllo. Devo salir sopra per avvisare i signorini e se lei ha...―
Venne messa a tacere con un leggero colpo della mano sulla spalla e l'attenzione di entrambi fu colta immediatamente dalla comparsa di una cresta rossa fiammeggiante, un po' scombinati e, se così poteva osar pensare, travolti da una tempesta interiore.
―Mss Jenkins! Mss Jenkins s'è alzata adesso? Volete che vi porti una tinozza d'acqua calda per lavarvi? Oh... ma voi non sapete...―
―Cosa è successo?― Domandò fievolmente stringendosi la vestaglia al corpo; Viktor lo percorse silenziosamente e notò un tremolio che l'attanagliava come un mal di pancia.
―Signorina.― la voce perentoria dell'uomo infuse un attimo di calma.
―Signorina non credo che dobbiate allarmarvi. Sheila, la vostra governante, ha avuto un malore, roba da niente, vestitevi e potrete accettarvi voi stessa della sua salute!―
Oh sì, che poteva esser persino la morte, questa cara salute.
Aveva messo su un teatrino di speranza in un batti baleno e come era facile farlo credere alla gente, perché quest'ultima era malleabile come il cielo limpido di un giorno d'estate. La gente preferiva i fatti raccontati e risolti da sé, non voleva esser angustiata con una notizia che probabilmente l'avrebbe mortificata e scioccata allo stesso tempo; l'equilibrio mentale di Wendy Jenkins d'altronde sembrava anche abbastanza precario quel giorno.
―Corro a vestirmi!― Allora disse e scomparve all'interno del corridoio. La cameriera giovane, di nome Kelly così come appurò poco più tardi, continuava a ciarlare su cose che a lui poco interessavano.
Era da quando aveva lasciato la sua Berlina sul ciottolo di casa, da quando era corso dal medico ed aveva parlato a così tanta gente, che non aveva avuto neanche mezzo secondo per deprimersi, deprimersi pesantemente perché Katherine era scomparsa all'interno di uno scompartimento con un uomo, se proprio bisognava descriverlo in tal modo, del tutto inetto!
Doveva esser sincero? Completamente? Come mai era stato fino ad allora? Beh, difficile a dirsi ma le sue budella, in quel preciso istante, erano contorse in una morsa di dolore terrificante, un dolore che cresceva, cresceva, cresceva, perché, dannazione, stava fallendo! Fallendo come un pollo! Fallendo perché doveva capitarci una stupida ragazzina anticonformista con lo sguardo impettito ed il culo all'insù.
Si sentiva volgare e sporco dall'anima proprio, ma non gliene fregava più.
Perché era così adirato? Si domandava ancora e torturava se stesso ogni secondo di più, non aveva chiuso occhio quella notte, era stato vigile per tanti motivi, il sonno lo aveva allarmato ma non sconfitto, i pensieri fugaci lo avevano messo a tacere e si sentiva tremendamente impazientito.
Impazientito da cosa? Da quello che provava e non voleva, non poteva spiegarsi cosa fossero quelle emozioni!
Entrò nel suo studietto, aveva gli occhi lucidi e la gamba adesso gli faceva male, male per davvero, un dolore non tanto fisico, ma interno che lo spingeva ai limiti dell'uomo.
Per questo adesso si ritrovava stravaccato sulla poltrona, flaccido e offuscato.
Lo scotch scendeva lungo la gola senza mai fermarsi, il bicchiere veniva riempito una e mille volte, la mente annebbiata e il pensiero di una Sheila morta.
Come Desireè.
Desireè era morta tra le sue braccia.
Rise.
Ricordava ancora quel suo viso, quel suo viso inaridito e truccato fino allo sgomento, i seni che ballavano davanti a lui senza alcun pudore, l'atto sessuale che arrivava alle stelle perché loro erano le stelle.
Desireè era morta.
Desireè lo aveva amato.
Ed ogni giorno, quando giungeva la sera, non poteva smettere di pensarla.
Sentiva ancora il vischioso sangue che gli colava tra le dita e gli bagnava i pantaloni verdi.
Era stato un mostro? Era un mostro?
Trangugiò altro scotch.
Cos'era la sua vita?
Obiezione, obiezione vostro onore!
Nessuno aveva sentito la sua obiezione! Mai, in tutta la sua vita.
Aveva lottato con i denti, era stato forte, credeva di esser stato forte ed ora si ritrovava lì, un cadavere che camminava e che si portava troppo sulle spalle. Aveva visto sangue, aveva visto morte, aveva visto ingiustizie, aveva visto l'intramontabile odio, aveva visto l'inconcepibile eppure... eppure riusciva a vedere ancora quel briciolo di amore che credeva perduto.
Sbatté il bicchiere sul tavolino in legno grezzo e si lasciò andare per pochi istanti al tepore che il fuoco emanava nel caminetto.
Forse quel fuoco l'aveva acceso Sheila stessa.
E adesso perché continuava a pensare a quella donna? Oh, beh... lui la morte non era capace di accettarla, era l'ultimo scoglio della vita, quello più temibile, ma anche quello più facile... sì, facile! Troppo facile morire quando si è vissuti in un mondo incrementato di orrori.
La porta dello studietto scricchiolò e Kelly entrò. Aveva una divisa che le andava corta, i capelli biondi lo deliziavano e... quel viso, oh quel viso!
―Mr Mitchell... avete bisogno di qualcosa?― Una vocina, occhi vispi.
―Kelly...― la bocca impastata, ―perché sei qui con tutto ciò che sta succedendo in casa?― Singhiozzò.
―Io...―
Viktor si alzò, oltre all'alcol c'era anche il dolore del monco ad infastidirlo.
―Volevo solo accertarmi che steste bene. È mio compito... adesso―. Ancora quella vocina, una vocina deliziosa, sì!
Singhiozzò e rise, rise e singhiozzò.
Si avvicinò alla ragazza, c'era poco spazio che li divideva, Viktor notò il viso grazioso, le spalle esili e le forme imprigionate nella divisa di casa Jenkins.
Agilmente strinse il mento di Kelly tra le mani ed osservò ancor meglio quei giovani lineamenti che proprio adesso lo stavano allettando più che mai.
―Di' la verità, piccina. Sei attratta così tanto da me che non riesci a starmi lontana! È comprensibile, sai?― Un sussurrò, le palpebre appesantite, il fiato che puzzava di scotch.
―N-no... M-mr M-Mitchell, vi sbagliate!― Le mancava il fiato e l'uomo riusciva quasi a sentire il battito accelerato del suo cuore rimbombargli nelle orecchie. Questo lo infastidiva molto di più della gamba.
―Pssss... puh!― Rise e neanche lui capì cosa stava dicendo.
Le sue labbra si posarono su quelle della cameriera con una violenza inaspettata, un impeto che proveniva dai quartieri più bassi dell'anima in cui era intrappolato.
Il suo viso era quello di una dea, o almeno così credeva. Aveva quei capelli biondi che lo incorniciavano così bene! E gli zigomi alti e carini.
Strinse il corpo della giovane al suo, la bloccò tra lui ed il muro, e le mani percorrevano zone fantasiose, parti che non conosceva, inesplorate forse.
―N-NO! M-M-M-M-R M-MITCHE-E-LL!― Urlò ma presto la bocca le fu coperta e i pensieri dell'istitutore volarono di nuovo a Desireè: gli occhi di Kelly assomigliavano tanto a quelli di Desireè.
Le alzò la gonna, abbassò le reggicalze e la guardò dritta in faccia. Era spaventata.
Era pronto a stuprarla, sì.
Poteva stuprarla...
Rabbrividì.
Essere completamente padrone di un'altra persona... rabbrividì ancora.
Lasciò immediatamente la presa, in preda ad una visione che lo scosse travolgendolo.
L'immagine di un terzo viso, quello più bello, quello che non assomigliava ad una dea, ma al suo angelo, gli apparve davanti e lo ridestò.
Come aveva potuto toccare un'altra donna? Oh, ma cosa pensava adesso? Quante volte aveva usufruito di donne senza alcuno scrupolo? Eh? Quante?! Troppe.
Ed adesso bastava pensare ad un viso bello come quello di Katherine, ad un animo aggressivo e piacente come quello di Katherine per impedirgli di fare sciocchezze, come toccare altro corpo che non fosse il suo!
Era da quando aveva assaggiato il corpo della giovane Jenkins che non aveva il coraggio di toccarne di diversi.
Vide il viso sconvolto di Kelly ma non gli interessava; si riempì il bicchiere di scotch e prima di trangugiarlo disse: ―Va'. E non proferirai parola alcuna.―
Kelly andò e non proferì parola alcuna.


―Si riprenderà?― Fu poco più di un sussurro, il medico si stava diligentemente lavando le mani in una tinozza in porcellana riempita d'acqua bollente. Mr Jenkins, il vecchio e furbo uomo, era suo amico da un sacco di tempo. Si conoscevano già da prima che Ernest sposasse quella che era stata la sua fortuna e la sua sventura. Un amore morboso e passionale, ancora adesso se lo guardava riusciva a scorgere quel profondo senso dentro di lui. Un senso di speranza nella vita insieme dopo la morte; e Frank sapeva bene che Sheila era come un pilastro fondamentale dell'intera famiglia. Sheila aveva accudito i suoi bambini quando la moglie era morta anni addietro, o così lasciava pensare alla gente che glielo chiedeva.
Frank sapeva anche quanto la governante avesse aiutato il suo amico ad uscire da una profonda crisi e da un'acuta depressione. Sheila era decisamente il perno dell'intera Winslow Hall e vederla in quelle condizioni, con la pelle violacea e un bernoccolo in testa più grande dell'intera faccia tra un po', lo aveva scosso meno di Ernest, ma pur sempre scosso.
―La mia diagnosi non può essere considerata del tutto veritiera. Si trova pur sempre su una poltrona.― Mr Jenkins trattenne il respiro, odiava quando Frank si lasciava andare a degli sproloqui un po' bruttini, l'ultima volta che l'aveva fatto era finito per dirgli che sua moglie era morta e giaceva senza vita in quello che una volta era stato il loro letto di incoronazione.
―È in coma, bisogna trasferirla in ospedale. La ferita è alla testa, bisogna consultare un neurologo, io non sono capace di darti una diagnosi accurata e se dicessi baggianate Ernest, avrei una vita in più sulle spalle―. Disse adesso il medico senza altri giri di parole.
Ernest si mantenne alla scrivania in ebano e deglutì guardando la donna che sembrava sul punto di lasciarlo da un momento all'altro senza emettere nemmeno l'ombra di un suono.
―Dunque cosa mi consigli?― Sussurrò e ad un tratto a Frank gli parve molto più vecchio di quanto non lo fosse già. Le rughe attorno agli occhi e agli angoli della bocca avevano la capacità di afflosciargli la pelle e le guance che un tempo erano state di un rosso invidioso.
―Direi di chiamare l'ospedale e di far pervenire un'ambulanza.― Ernest annuì e trangugiò da un bicchiere in vetro i residui del suo scotch mattiniero.
―Va bene, va bene. T'accompagno al pian terreno dove abbiamo il telefono. Usciamo da qui dentro che vedere una governante in queste condizioni mi fa venir un mal di testa allucinante―.
Il medico si ritrovò interdetto davanti ad un'affermazione di quel tipo. Che si stesse facendo problemi su come risarcire la donna semmai fosse sopravvissuta? Non poteva credere che il suo amico si fosse rincitrullito, anzi, non voleva crederci, non era quel tipo di persona che pensava solamente al proprio interesse economico e sociale; perdio stavano parlando di una vita umana! Frank si sentiva confuso come lecito che fosse ma non potette constatare a lungo la veridicità dei suoi pensieri e ipotesi perché non appena l'ambulanza giunse sul viottolo della casa di campagna, Ernest ammise che non sarebbe andato con lui in ospedale e che nel pomeriggio avrebbe spedito qualcuno per accertarsi della precaria situazione.


I Boudès. I Boudès vivevano a pochi isolati da Winslow Hall in una villa di campagna proprio come quella Jenkins. I Boudès erano una famiglia prestigiosa e ben amata da tutti i vicini e chi osava metter in dubbio il loro buon cuore, poteva esser immediatamente emarginato da quella società di per sé gerarchica.
La villa si estendeva in gran bella vista in un rientro di terre e la calma che si percepiva entrandovi, la si perdeva uscendovi.
I Boudès erano meno numerosi dei Griffiths o dei Jenkins stessi, in tutto erano tre e il più delle volte la casa era abitata semplicemente da due persone.
Mr Boudès era un uomo robusto, dagli occhi vispi e di un marroncino che a Katherine ricordava tanto la vischiosità del miele. Lavorava per il ministero e la maggior parte dell'anno viveva in un appartamento condominiale al centro di Londra. Era un uomo abbastanza indaffarato, con i suoi grattacapi per la testa e la sua singolare vispezza e cultura; Ernest non lo trovava simpatico e né un amico con cui passare in santa pace una bella serata, in compenso c'era una profonda amicizia tra Mr Boudès e Mr Griffiths, entrambi si erano conosciuti anni addietro nella guerra in Crimea. Erano stati anni in cui le discordie non potevano sussistere e la sopravvivenza degli altri necessitava per la propria, e così avevano instaurato un rapporto duraturo che si era propagato anche tra gli attuali lavori e l'attuale carriera.
Dopo essersi congedati dall'esercito, avevano deciso di percorrere strade diverse. Mr Griffiths si era dato ad un duraturo libertinaggio finché non aveva incontrato Annabelle, l'attuale moglie, che lo aveva fatto infatuare così fortemente da incastrarlo attraverso una prima gravidanza. E seppur Annabelle fosse una donna dalle dubbie origini e la cui suocera odiava a morte, si erano sposati ed il matrimonio aveva fruttato abbastanza tra i due da permettere una vita tranquilla e serena solo apparentemente.
Mr Boudès invece aveva lasciato Clarissa per l'esercito e al suo ritorno l'aveva trovato ad aspettarlo senza alcun rimorso. Con i capelli marrone scuri e lunghi, con le sue abbondanti curve ed il viso paffutello... l'aveva trovata incantevole sin dalla prima volta che l'aveva intravista nel mercato londinese e si era ripromesso di sposarsela.
Così si avverò ma il loro non fu mai un matrimonio puro e nemmeno facile. Clarissa si riscoprì sterile, o almeno credeva di esserlo nei primi anni di matrimonio non riuscendo a concepire nessun bambino, e rifiutando qualunque tipo di visita da medici che considerava incapaci.
Finché ovviamente, un bel giorno, capì di essere incinta e la gravidanza fu portata a termine con così tanti problemi tra lei e Mr Boudès, tra lei e il bambino, che si vociferava in città la possibilità di un divorzio accettato dalla Chiesa; difatti i Boudès, di origini francesi, erano cristiani cattolici.
Clarissa Boudès soffriva di emicranie, non sopportava la perpetua lontananza del marito e l'unica sua consolazione era Genevieve. La figlia tanto bramata sopravvissuta al parto per miracolo. Genevieve, con il suo viso carino e i capelli biondi, paffutella di faccia e con le stesse curve che aveva la madre da giovane, adesso ammaliava i giovani con due battiti di ciglia. Un tipo dolce, un po' timida, ma pur sempre degna dei Boudès.
Debuttata in società da poco tempo, poteva definirsi già ben integrata; la vita sociale tra l'altro dei genitori, era in continuo progresso e lei s'era subito ritrovata circondata da avvoltoi e famiglie intenzionate ad entrare nel circolo ristretto dei francesi.
Clarissa e Genevieve erano entrambe sedute nel salotto di casa Boudès e le si poteva quasi considerare annoiate. La prima cuciva ad uncinetto un tappetino per il cane e la seconda si prodigava nella lettura di un libro che il padre le aveva suggerito mesi prima con fervente irruenza. Voleva che lo leggesse e lei da brava figlia lo stava facendo.
Avevano mandato quell'invito a Winslow Hall, o meglio, Mrs Boudès l'aveva spedito per pura noia e si sa che quando la noia è troppo forte, bisogna compensarla con qualcosa di allettante. Aveva sentito dire che la famiglia Griffiths alloggiasse da quei vecchi zoticoni dei Jenkins e per non apparire troppo scortese, l'invito era stato esteso anche ad un solo, ed uno solo, componente dell'altra famiglia. Adesso le donne, chi più chi meno, aspettavano di udire il rumore della carrozza sull'acciottolato e i visi pieni di brio che avrebbero alleviato quell'estenuante noia dei mesi invernali.
Cosa ancor più deplorevole, Clarissa aveva impedito al marito e a lei stessa di partecipare al Ballo Nevoso; quell'evento portava sventure nelle famiglie che vi ci partecipavano e non poteva assolutamente permettere un'accettazione così leggera.
Così neanche il sinuoso e grande Ballo che si teneva a pochi isolati più indietro aveva alleviato quella noia.
La carrozza di Katherine e Joseph arrivò in tarda mattinata e appena la videro varcare il cancello, fu servito il tè con biscotti nel salottino.
Genevieve si alzò di soprassalto, rossa in viso e con una certa agitazione. La madre la guardò per un lungo istante senza però capire quale fosse il suo problema. La verità dei fatti stava proprio nel non esserci. Il problema non esisteva, era solo che Genevieve si sentiva in subbuglio; aveva il corsetto che le stringeva troppo i seni e i pensieri vagavano alla figura alta e guardinga di Joseph. Lo conosceva, eccome se lo conosceva! Nelle feste di famiglia, in società, per le strade londinesi, tra le cene intime e non, tutto la riportava a quegli occhi fugaci e dal portamento vigile. Joseph però non conosceva Genevieve. La ragazza prima del debutto era sempre stata un tipo anonimo che il padre nascondeva nella sua campana di vetro e che preferiva non lasciar brillare troppo a lungo sotto gli occhi indagatori degli amici. Dopo il debutto, Joseph non ricordava di aver avuto occasione di incontrarla, di poterle parlare o di ammirare il suo viso carino.
Il maggiordomo si apprestò ad accogliere gli invitati all'ingresso e Katherine, appena mise piede nella villa che da piccola aveva sempre considerato fin troppo impotente, fu pervasa da una miriade di odori ed emozioni in contrasto tra loro. C'era un profumo di toast e di fiori freschi, il pavimento lucidava più di ogni altra cosa e il mobilio sembrava cadere a pennello nei luoghi adatti, manco fosse stato fatto apposta, per un quadro futuro e famoso.
Era ancora rossa sulle gote per via di quello che Viktor le aveva sputato addosso, si sentiva più ferita rispetto alle altre volte, forse perché ciò che le era stato detto l'aveva scombussolata e soprattutto non corrispondeva alle mani possessive del professore mentre le accarezzavano il corpo ed andavano oltre, in pensieri e mondi sconosciuti alla materia del mondo.
―Mrs e Mss Boudès vi stanno attendendo nel salotto del tè. Ci è sembrato opportuno darvi un po' di ristoro―. Katherine sorrise e dopo che ebbero lasciato i cappotti nelle mani del buon uomo, prese sotto braccio Joseph e lo seguì mentre attraversavano vasti corridoi tappezzati dal soffitto all'ultimo e più inutile angolo.
―Avete pensato proprio bene!― Sopraggiunse lei mentre finalmente giungevano alla sala principale.
L'attenzione di Katherine fu subito attratta dal viso paffutello di Genevieve e dal suo abito altamente costoso stretto in vita che le donava troppa sciccheria per i suoi gusti. Si sentiva anche un po' in competizione con quest'ultima e dunque il suo sorriso, se visto da altri punti, poteva apparire troppo tirato.
Clarissa si alzò di scatto e corse immediatamente ad abbracciare Joseph, il suo Joseph.
―Mio caro, mio caro! V'aspettavamo con tanta premura! Son proprio felice che non abbiate rifiutato il nostro invito; le mattinate sono lunghe, anzi lunghissime e per non parlare dei pomeriggi, e delle sere...― con un sospiro teatrale la padrona si girò anche verso l'accompagnatrice Jenkins, ―piccola Katherine! Ma che bello sguardo vispo che hai. Non ricordavo così i tuoi lineamenti, sei proprio cresciuta dall'ultima volta che ti ho visto in società.― Inchinandosi dolcemente, Katherine capì che con ogni probabilità la donna la stava prendendo in giro: l'ultima volta che si erano visti, lei aveva solo cinque anni ed era stato al funerale di sua madre.
Che razza di vipera, pensò senza riuscire a frenare tale veridicità.
―E noi invece siamo contenti di essere passati; ho sempre amato questa villa, signora. La trovo deliziosa ed accogliente, così come tutte le volte che sono stato in vostra compagnia. Mia madre vi porge i più sinceri saluti, sperando in un incontro imminente. Così come mio padre a suo marito―.
Katherine non rispose al saluto, lasciò che Joseph riempisse la testa di quella donna con le sue mille parole, e ritornò a concentrarsi nuovamente su Genevieve che non aveva occhi che per il Griffiths. Cosa ci trovasse di così insistente da non presentarsi neanche, Katherine non lo sapeva e la cosa la infastidì ancora di più. Dannazione, perché adesso si infastidiva per tutto? La voce biascicata di Viktor rimbombava nella sua mente come l'eco in montagna. Più si faceva lontano, più si impregnava nella pelle.
―Accomodatevi su, il tè è appena stato servito. Katherine posso riempirti una tazza? Quanto zucchero preferisci? Avete voi questa usanza del tè oppure bevete solo vino e birra tedesca come si vocifera in città?― Ridacchiò la donna e Katherine si morse la guancia interna per non lasciar trapelare la sua indole da pescatore.
―Ma certo che beviamo tè, signora cara! Non siamo mica così zotici; in altre parti della città che conoscete voi, si dice che siamo molto più ammodo di certi ricchi senza sostanza... mah, sarà vero? Io fino adesso non ho avuto prova―. Joseph si schiarì la gola, non diede manco il millesimo del tempo a disposizione per lasciar comprendere l'offesa nelle parole di Kath e, sedendosi su una delle sedie in mogano che popolavano la stanza, guardò Genevieve.
In quel momento, nell'animo dolce del ragazzo germogliò un interesse di fuga.
―Oh, e voi dovete essere Genevieve! A malapena ricordo il vostro grazioso viso, non mi pare di avervi visto spesso in società, non negli ultimi tempi e a quanto pare proprio in questo periodo la natura vi ha maturato―. La madre sorrise soddisfatta e lasciò cadere maldestramente la tazza di Katherine sul tavolino, mentre lei prendeva posto al fianco di Joseph irata.
―Vi ringrazio―. Sussurrò quasi impercettibilmente e Katherine si domandò perché avessero accettato quell'invito.
Genevieve abbassò il capo con civetteria e Joseph sorrise di buon grado, questo Kath lo notò e le sembrò una cosa alquanto strana da fare tra due individui quasi sconosciuti.
Avrebbe tanto voluto dirle: “Non era un complimento stupida, ma una semplice osservazione! Buon Dio, alza quel viso e caccia un po' di quel timido rossore in intelligenza!”
Ma forse Katherine Jenkins chiedeva troppo dalla vita stessa.
―La natura è stata fin troppo generosa con mia figlia, in fondo chi vorrebbe di più dalla vita?― ridacchiò la madre; una madre un po' bisbetica e narcisista. Una madre che più madre sembrava un rinoceronte in calore, ma questi erano semplicemente i pensieri insensati di Katherine che adesso, appena dopo mezz'ora l'arrivo, si sentiva oppressa e accaldata. Mai aveva provato tanto scontento in vita sua, neanche quando Viktor le stringeva i polsi e la infilzava in uno spiedino con i suoi occhi celesti. Adesso sì, proprio adesso, si chiedeva perché mai -forse l'ennesima volta- i suoi pensieri erano stati scaturiti da una brutta situazione e inconfondibilmente si erano adagiati tra i ricordi del suo precettore.
Come odiava anche questa cosa! La consapevolezza di non poter fare altro, di non riuscire neanche ad impedire alla sua mente di pensare a Viktor, Viktor Mitchell, pure se si trovava in una casa affascinante, tra un'accoglienza orribile e con mille altre cose a cui fare riferimento.
―In effetti signora Griffiths avete ragione: la natura è buona con chi ha già troppo e non lascia molto a chi non ha chissà quanto. Disdicevole, non credete?―
―La realtà delle cose mia cara Katherine, semplicemente un cerchio ristretto di quello che siamo condannati a vivere. ―
―E chi giunge prima al centro del cerchio merita di più, non è vero?― Sospirò Katherine, adesso in piedi. Clarissa la guardò con circostanza e, sorridendo, annuì. C'era forse malignità in quegli occhi? La giovane avvampò e vide il suo accompagnatore immerso in una deliziosa conversazione con Genevieve-la-fortunata.
―Cosa fate? Vi alzate?―
Katherine stava per aprir bocca e non si sarebbe fermata, anzi. Ora neanche Joseph poteva coprire la sua durezza; ma avevano bussato alla porta e l'attenzione di Clarissa si concentrò tutta sul maggiordomo.
―Mi dispiace interrompervi signori ma c'è un domestico di casa Jenkins alla porta e chiede esplicitamente di parlare con Mss Katherine.―
Un silenzio contraddittorio scese lungo le pareti e Mrs Boudès ridacchiò.
―Beh, che cosa aspettate? Andate a veder che vuole!― L'ironia in quelle parole lasciò un'altra sensazione d'ira.
―Con permesso―. Digrignò i denti ed alzandosi la veste si diresse verso la porta. Appena fu fuori si sentì come liberata da un gran peso. Quella donna le stava sulle scatole. Era antipatica, civettuola, esuberante e... non c'era un briciolo di umiltà nelle sue parole e in tutto ciò che la caratterizzava o la circondava.
La giovane Katherine raggiunse ben presto l'uscio della villa Boudès, dove pochi attimi prima era entrata ed adesso non vedeva l'ora di andarsene.
―Signorina!― Il viso smunto di Kelly Anderson si presentò davanti. I suoi capelli biondi appiccicati alle gote, gli occhi spalancati per lo spavento e un leggero tremore che le invadeva il corpo. Cosa l'era potuto accadere?
―Kelly! Che ci fai qui?― Affannata e in preda ad un pianto isterico, la domestica si schiarì la gola e alzando le spalle cercò di scusarsi.
―Vi prego di scusarmi, non volevo venir in questo modo ma non ho avuto altra scelta―.
―Calmati Kelly, ch'è accaduto?― Avrebbe voluto farla entrare e tranquillizzarla ma il viso torvo del maggiordomo, aveva intimorito la stessa Katherine che avanzò di qualche passo verso l'esterno.
―Una disgrazia, miss! Nessuno sa come è potuto accadere―.
―Parla Kelly, per l'amor del cielo, smettila di indugiare così tanto―.
―Sheila... la governante... lei... oh miss... lei è caduta―. E un singulto fu strappato dalle sue esili labbra e gli occhi di Katherine si spalancarono come se lei stessa avesse ricevuto un pugno nello stomaco.
―Come? Dove?―
―Dalle scale miss! Non si sa come sia potuto accadere. Forse un malore o sarà inciampata, ma non si riprende e mi è stato dato l'ordine di avvertirvi. Vostro padre sa quanto siete legata alla donna. Mi ha chiesto personalmente di riferirvi che non c'è da preoccuparsi e mi ha consegnato questo foglietto―.
Con immediatezza la carta fu strappata dalle dita di Kelly e Katherine aprì veloce.

Mia cara Kath, di quello che ti ha riferito la sguattera non allarmarti.
Il dottor Frank è già pervenuto ed insieme ci recheremo in ospedale.
Passa una buona giornata dai Boudès.
-Tuo padre.

Una buona giornata dai... chi? Katherine aveva già nascosto il biglietto nelle vesti e ritornata in sé, con durezza guardava Kelly.
―Va' pure, ritorna in villa. Ti seguirò.―
―Ma signorina...―
―Cosa?― Le mani sui fianchi ed il cipiglio alzato fecero indietreggiare la domestica che annuì e girò le spalle.
Non c'era più nulla che la tratteneva in quella villa. Era appena arrivata ed aveva avuto una perfetta occasione per scappare a gambe levate. Il maggiordomo non sapeva cosa dire, era stato alquanto indiscreto ad ascoltare l'intera conversazione ed adesso la guardava con un rossore vivido in faccia.
―Preparatemi il cappotto e dite al garzone che rimarrà qui finché il signorino Griffiths non vorrà far ritorno―.
―Miss...― la voce roca del maggiordomo, insospettirono Katherine.
―Sì?―
―Se posso chiederlo: come ritornerete a casa?―
La giovane e fervida ragazza si lasciò sfuggire un vago sorriso e con tutta la perspicacia di cui era disposta, disse:
―A piedi ovviamente. Mi raccomando: non lasciatevi sfuggire questo gossip. La vostra padrona ne sarà deliziata―. Non vide il rossore promulgarsi sul viso dell'uomo e spedita ritornò nella grande sala dove gli altri si trovavano.
Mrs Boudès rideva egregiamente ad un'osservazione da parte di Joseph e Genevieve aveva il viso colorato dalla felicità.
Il caro amico di Katherine, appena la vide, le rivolse un sorriso condiscendente che si spense appena notò la preoccupazione e lo sdegno stampato in viso.
―Che cosa succede, Kath?― Il nomignolo che le attribuì riuscì ad indurire i lineamenti delle due donne e la giovane si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo.
―Purtroppo un brutto incidente ha colpito la nostra famiglia. Vi prego di volermi scusare ma devo proprio andare―.
―Cosa è accaduto?― Domandò ancora Joseph.
Katherine deglutì e spiegò la situazione con una certa aria solenne.
―Non capisco... è così importante questa governante? Dovete per forza andarvene entrambi? Questo pomeriggio stava iniziando a divertirmi―.
A quelle parole, Katherine capì il fulcro della questione e tutto dentro di lei si spense con quel poco di acqua.
Guardò il suo Joseph e poi la giovane dei Boudès. La madre. E chi c'era in quella stanza. Tutto un miscuglio di una società che non le apparteneva.
Sentiva dentro di sé ribollire la voglia improvvisa di fuggire da quella situazione. Aveva in mente solo il viso contrito di Sheila, la paura di Kelly, le mani di Viktor.
La sua società, quella di cui faceva ancora parte, la stava distruggendo. E non c'era bontà d'animo o cuore coraggioso che riuscì a farla ricredere. Era persa in quelle baggianate, in quella stupida, stupidissima gerarchia. Quelle etichette. Quella vita che non le apparteneva.
―Non c'è motivo che Joseph venga con me, davvero. La carrozza sarà disponibile appena vorrai ritornare a casa ed adesso, perdonatemi, ma è ora che io vada―.
―Davvero? Sei di una dolcezza unica, Katherine!― Fu la prima volta che Genevieve si riferì personalmente a Kath ed il suo sorriso angelico la irritò.
―Sei sicura? Io... io posso anche tornare―. Il tentativo di Joseph fu talmente debole che Katherine scosse il capo.
―Perché rovinare un così bel pomeriggio per un caso di famiglia? No. Non importa.―
I convenevoli furono saltati e Katherine sbattuta fuori; sembrava quasi che in fondo aspettassero solo questo: di rimanere da sole con un uomo perfetto per un matrimonio. Chi l'avrebbe mai detto!
Il maggiordomo l'aveva aiutata a sistemarsi il cappotto in pelle sulle spalle ed adesso la guardava dal cantuccio mentre si allontanava impettita sulla neve bassa e quasi sciolta. Avrebbe preso una caduta? Perché non aveva scommesso con la sua padrona?

In tutta la sua vita, da quando era nata, mai in vita sua aveva visto Winslow Hall -la sua casa- caduta in un baratro di silenzio angustiante. Le finestre brillavano di una luce bianca e i rumori lontani provenivano dalla strada o dalle cucine.
Katherine era appena entrata dall'uscio e subito, o quasi subito, Kelly le era corsa incontro.
―Signorina! Siete tutta affannata... oh... non sarete venuta a piedi? Guardate le scarpe! Sono tutte bagnate. Dovete cambiarvi―.
La ragazza cercava di riempirla di troppe parole e fu zittita quasi subito da un veloce gesto con la mano. Katherine era impaziente, impaziente di sapere altro.
―Non c'è nessuno in casa?―
―Sì, signorina―.
―Chi?―
―Mr Shaw e Miss Wendy sono entrambi nelle rispettive stanze, la servitù invece sta aspettando notizie per la disposizione del giorno―.
Possibile che se ne fosse andato? A Katherine non mancò il coraggio. Non poteva omettere di chiederlo.
―E Mr Mitchell? Se n'è andato?―
In quel momento notò un brivido oltrepassare la schiena e uno strano irrigidimento nella ragazza che aveva di fronte. Cosa le prendeva? Possibile che fosse successo qualcosa anche a lui? Il cuore si allarmò immediatamente ed iniziò a batterle talmente forte che il sangue fluiva nelle vene come un fiume in piena, arrossendo.
―No miss―. Un sospiro di sollievo le uscì dalle labbra ma Kelly se ne accorse e non tentò di nascondere un'occhiata torva e quasi disgustata.
―E dunque?―
―È nella biblioteca miss. Ubriaco fracido. Consiglio di non avvicinarsi finché non gli sarà passata―.
Il tono duro della domestica e quegli occhi incantati in un punto dietro le spalle di Katherine, la preoccuparono un po', ma ciò che la scossa maggiormente fu sapere della sbronza di Mr Mitchell. Ubriaco? Lui? Lui che era sempre perfetto in ogni situazione? Che non perdeva mai il lume della ragione e non si scomponeva neanche davanti alle peggior parole dette da lei?
Che avesse bevuto qualche bicchierino di scotch poteva essere ma... l'ubriachezza non faceva parte della sua indole.
―Come sei buona Kelly ma Mr Mitchell non può fare della nostra biblioteca quel che vuole quindi andrò da lui personalmente―.
―Io credo che-...―
―No, no. Non dire niente, va bene? Ritorna giù e di' pure alla cuoca che può preparare il pranzo per chi è presente in casa. Non possiamo rimanere a digiuno fino a nuove notizie―.
Kelly abbassò lo sguardo e con un cenno del capo le sfuggì un “va bene, miss”.
La vide allontanarsi e scendere le scale dietro ad un angolo,\ dopodiché tirò un grosso respiro e guardò il corridoio che portava alla biblioteca. C'era una parte di lei che ambiva alla possibilità di umiliarlo. Un'altra parte invece pensava che ci fosse un motivo del perché si trovasse in simili condizioni.
In preda a tanti accorgimenti, vi si diresse a piccoli passi. Bussò con le nocche sul legno liscio ma non ebbe risposta. Indugiò. Alzò gli occhi al cielo e girò la maniglia.
Quello che si ritrovò davanti, fu peggio di ciò che si aspettava: un professore. Un professore immerso in una nube nera di orrori. Occhi vitrei. Un corpo cadente. Un viso prosciugato.
―VIKTOR!― Urlò. Katherine non aveva mai urlato di disperazione. Il suo sguardo si aprì in una smorfia di terrore e in un balzo giunse di fianco la poltrona. La sua piccola mano bianca si posò sulla guancia di Viktor e cominciò a picchiettarla.
L'uomo aveva fatto cadere il bicchiere di scotch sul tappeto e forse adesso era semplicemente svenuto.
―Ehi... mi senti? Oh, Mr Mitchell! Mr Mitchell rispondetemi...― Era bianco come un cencio; non sentiva il battito ma cosa poteva saperne? Lei non era capace di sentire il polso.
In un attimo che parve eterno, la sua mano fu fermata da un'altra. Gli occhi grigi del precettore si aprirono lentamente e il suo sguardo trovò quello di Katherine. Il viso arrossato della ragazza lo fecero sorridere.
―Ridete? Oh, ridete, certo. Stavate fingendo―. Si alzò e la gonna frusciò sul pavimento. Induriti i lineamenti, riempì un bicchiere di acqua dalla brocca sul tavolino in legno.
―Sei tornata...― fu poco più di un sussurro ma lei lo udì.
―Sono stata avvisata della disgrazia―.
―Sei tornata per questo? Per Sheila?―
Katherine sospirò. Era tornata per Sheila o per scappare dai Boudès? Aveva voglia di urlare.
―Certo che sì. Perché siete rimasto? Perché non siete tornato in città?― Gli porse il bicchiere e lui lo afferrò con poca forza, trangugiando lentamente l'acqua.
―Sei accalorata―.
―Forse―.
―E sei anche bagnata―. Rise.
―Ridete di me? Io non vi capisco. Non vi capisco davvero. Vi comportate indegnamente e avete anche il coraggio di ubriacarvi a casa di mio padre! La mia casa! Che esasperazione siete―.
―Sei così ingenua e testarda―.
―Non ho tempo da perdere, mr Mitchell. No con uno come voi. Riprendetevi e fate buon ritorno a casa―.
Finiva sempre così, non riusciva ad andare oltre. Non riusciva a non prenderlo con le cattive maniere. Era tanto amareggiata e come sempre si considerava una stupida.
Posò la caraffa sul tavolino, doveva uscire da quella stanza perché nulla la tratteneva con quell'uomo. Poteva averle fatto battere il cuore ma cos'altro poteva darle? Solo odio.
Viktor d'altro canto non aveva intenzione di lasciarla andare; il suo angelo che svolazzava come un diavolo da una parte all'altra della stanza non doveva abbandonarlo. E in quelle ore di agonia ed angoscia era giunto alla conclusione che lei riusciva a migliorarlo.
E se per migliore s'intende un burbero uomo peccaminoso, allora va bene così.
Vacillò, la poltrona fece rumore, le spalle nude e fresche di Katherine gli annebbiarono la vista; la raggiunse. Forse le cadde persino addosso ma riuscì a fermarla appena in tempo e a suscitare un moto di sorpresa su quel viso angustiato dalla vita.
Lo scotch non riusciva a scacciare le parole di Charlotte nella sua mente. La madame del bordello avrebbe permesso mai tutto ciò? Oh sì, ma stava sbagliando tutto. Viktor stava sbagliando completamente l'approccio. Il suo cuore stava errando.
―Joseph bacia male?― Le sussurrò all'orecchio, la mano salì alla pancia, poi oltre.
―Oh Dio, Viktor lasciatemi!―
―Perciò ritornate sempre da me? Perché Joseph bacia male o perché non vi sa prendere? Non provate quello che state vivendo adesso quando è lui a mettervi la pancia sul ventre, il vostro ventre piatto, e poi su e poi giù―. Singhiozzò.
―Siete ubriaco, ubriaco, ubriaco!― Katherine era ritornata rossa in viso, gli occhi lucidi forse da un pianto che non cadeva via.
Vacillante, Viktor ebbe il coraggio di girarla e il suo corpo ispido e temprato si scontrò con il buon odore e sostanza di Katherine.
―Sarò anche ubriaco ma solo adesso posso dirvi liberamente ciò che penso perché non ne avrei più il coraggio in futuro―. Biascicò.
―Come potrei credervi?― Sussurrò lei.
―Come credete che tutto questo è reale. Come credete che la mia vita e la vostra non sono tanto lontani dall'amore. Vi ho baciato, vi tocco e vi desidero. Vi desidero nel modo più ardente e intangibile che mai avrei pensato di poter provare per una donna, figuriamoci per una ragazzina. Quindi... quindi smettetela, smettetela di far del male a voi e del male a me. Avete il coraggio di baciarmi, milady? Avete il coraggio di dire no a vostro padre? Voi... voi non siete fatta per un matrimonio combinato. Voi dovete vivere la passione e l'affievolimento. Vivetelo con me, vivete bene con me―.
Katherine non aveva più fiato. La stretta morsa del braccio di lui la stava sciogliendo come neve al sole.
―Voi...― tiepida in primavera, ―mi distruggerete―. La mano di Viktor indugiò sullo spazio dai seni poi si allontanò piano stringendola per la vita.
I caldi occhi di Katherine si spensero nei suoi ed abbassò il capo quando l'esili mani si fermavano sulla giacca logora e lo attiravano a sé senza metro di giudizio o di vergogna.
Amare è sinonimo di costanza. Una costanza che nasce con i piccoli gesti nascosti in una miriade di errori. C'era la consapevolezza di non poter ritornare più indietro e quando Katherine alzò di nuovo il viso con coraggio lo avvicinò a quello del suo precettore ed era lì per toccargli le labbra, per lasciar cadere le mani su tutto il suo corpo e sentire l'estasi con lui, decise che forse tutto ciò doveva avvenire in un momento più lucido, più bello.
―Voglio baciarti Viktor, voglio baciarti così come tu mi hai baciata al lago. Ma non adesso, non con tutto quello che sta accadendo, non con te ubriaco, non senza una certezza―.
L'uomo deglutì ed aspirò il buon odore di freddo che lei emanava.
―Ti aspetterò―.
Ci fu un abbraccio dove entrambi sentirono il tepore del futuro ma venne sciolto quando qualcuno bussò alla porta e Katherine si allontanò con il solito viso torvo e accattivante.
Tutto venne celato in una coltre di mistico desiderio quando Kelly entrò a capo basso ed annunciò che Wendy voleva parlare con la sorella.


Spazio scrittrice:
Insomma Vella, dopo quattro mesi aggiorni? Ma stai bene? Minimo un anno!
Insomma, chi vuole lanciarmi i pomodori lo faccia ma non perché io abbia aggiornato dopo una vita, ma perché è riuscito a leggere l'intero capitolo! È tipo... uno dei più lunghi della mia vita AHAHAHAH.
Conoscete bene la mia incostanza ma ricordate che mai e poi mai abbandonerei Cortocircuito che... AVRà UNA FINE! Forse questa estate, forse tra mille altre estati.
Iscrivetevi al gruppo facebook, interagite con me, lasciatemi un pensierino, raggiungetemi su wattpad. Uccidetemi quando supero le due settimane dall'ultimo aggiornamento.
Vi voglio bene e vi ringrazio sempre per il grandissimo sostegno che mi date! Solo con una recensione, un mi piace, un'aggiunta tra i preferiti/ricordate/seguite.
E... cosa ne pensate di questo chapter? é-è *w*

Un paio di avvisi amorevoli:
CORTOCIRCUITO SU WATTPAD! http://www.wattpad.com/story/28432757-cortocircuito
E UN GRUPPO PER VOI LETTORI! (tutte le newsss quiii! Tutti gli spoiler! Tutto, tutto, tutto! Non lasciatemi da sola u.u) https://www.facebook.com/groups/739028276178619/?fref=ts
   
 
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