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Autore: AlexEinfall    24/06/2015    2 recensioni
[AU] Robert Chase sente di essere diverso; non può vedere il mondo come gli altri, ma un solo colore riuscirà a sconvolgerlo. Gregory House si ostina ad essere diverso; vuole vedere ciò che gli altri ignorano, perché nessuna sfumatura può essere tralasciata. Le loro strade si incontrano, si scontrano, e li trascinano l'uno nell'orbita dell'altro. Farsi sfiorare dall'universo di un altro essere umano può insegnarti a vedere cose che non immaginavi esistessero.
[Chase/House]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Greg House, James Wilson, Robert Chase | Coppie: Greg House/Robert Chase
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Introduzione: [AU] Robert Chase sente di essere diverso; non può vedere il mondo come gli altri, ma un solo colore riuscirà a sconvolgerlo. Gregory House si ostina ad essere diverso; vuole vedere ciò che gli altri ignorano, perché nessuna sfumatura può essere tralasciata. Le loro strade si incontrano, si scontrano, e li trascinano l'uno nell'orbita dell'altro. Farsi sfiorare dall'universo di un altro essere umano può insegnarti a vedere cose che non immaginavi esistessero.
[Storia in tre parti.]

Nota: Qualnque cosa possa sembra offensiva nei riguardi della comunità LGBTQIA, non lo è. Il Triade non esiste, ma è liberamente ispirato a reali locali gay. I personaggi descritti non intendono supportare uno stereotipo, avendo solo scopi funzionali alla trama.


Partecipante al contest It's too cliché indetto da rhys89 sul forum di EFP.



Il dilemma cromatico


I
Uomo esclamativo, uomo interrogativo


   Robert guardava una goccia di acqua affaticarsi per scivolare giù attraverso il parabrezza; chiamava a rinforzo altre piccole particelle di pioggia, per avere il giusto peso e volume in grado di sconfiggere la gravità.
   Davanti al locale qualcuno rideva e spintonava, altri già erano piegati in due arresi all'alcol, chi sosteneva, chi si trascinava, e chi lisciava le braccia di sconosciuti amori di una notte. Lui era lì e si concentrava su quel piccolo particolare. Era difficile per lui distinguere quella piccola, sporca goccia, ancora troppo trasparente e facilmente confusa con lo sfondo.
   Robert aveva fatto della selettività la linea guida della sua vita, come un pettine che sfoltisca il superfluo, o il coltello che smussi tutti quei fastidiosi, appuntiti e pericolosi angoli.
   In piedi all'altro lato della strada, guardava il Triade, affondando le mani nelle tasche della giacca di pelle. Quella destra aveva un filo scucito e lui lo tirava e stuzzicava con l'indice, mentre spostava il peso da un piede all'altro, entrambi infilati in comode scarpe di tela. Il suo abbigliamento non aveva nulla di eccezionale: aveva optato per una camicia scura e un paio di jeans neri. Tutto era pulito, lisciato, addirittura stirato. Ogni bottone era abbattonato, ogni zip tirata, ogni laccio perfettamente stringato, ogni ciuffo della lunga chioma fissato al suo posto con una generosa manciata di lacca. La sua maschera di compostezza gli rendeva più semplice accettare che l'errore e il peccato fossero dietro l'angolo.
   Sapeva cosa gli uomini vedevano in lui e cosa le sue labbra morbide e i suoi occhi brillanti suggerivano, o cosa la sua pelle bianca chiedeva agli sconosciuti, solleticando loro i sensi e lo stomaco. Per questo motivo sceglieva selettivamente di non vedere e non sentire gli sguardi e i mormorii, i pensieri così lussuriosi che emanavano dai corpi come sudore. Ogni cosa al suo posto, in ordine, perfetta. Era più facile così, si diceva. Era più facile concedere a uno sconosciuto di mangiarlo con gli occhi, se il suo corpo era avviluppato in vestiti ben ordinati; avere il controllo, quando in realtà lo cedeva.
  Soprattutto, per lui era più semplice non pensare a Carlos, che aveva bisogno di una casa accogliente e lontana dalla strada; non voleva pensare che la propria incapacità di aiutarlo lo aveva portato lì.
   Robert lisciò ancora una volta gli orli della camicia, controllò che i bottoni al polso fossero al loro posto e si avviò al locale, attraversando con calma la strada.
  Voleva solo rilassarsi dopo una settimana stressante. Nel freddo e silenzioso appartamento che condivideva con se stesso, l'idea di una birra in un bar qualunque lo aveva depresso. Era troppo tempo che si negava, per un motivo o per l'altro, il contatto con un essere umano, non considerando i suoi clienti esseri umani o le loro mani preganti un vero contatto. Come Carlos, appunto. Era un lusso che non poteva permettersi. Doveva scegliere di non farsi trascinare dalle miserie umane.
  Così eccolo a spingere la pesante porta d'ingresso del Triade, per essere accolto dalla musica a tal volume da rendere chiaro che parlare, lì dentro, non fosse una priorità.
  «Hey, carino, perché non ti lasci offrire un drink?»
   A pochi passi dell'ingresso, l'uomo lo investì con il suo odore di muschio bianco e alchol. Non era bello, affatto, ma se Robert si concentrava poteva ignorare i denti un po' troppo grandi, gli occhi troppo piccoli e le orecchie di una forma simile a un triangolo.
   Così sorrise e scrollò le spalle.
   «Perché no?»



   "Non puoi girare tutti i locali gay della città finché non trovi il tuo cliente con le mani nel sacco. Non è etico!"
  House aveva sbuffato alle parole di Wilson, giunte alle sue orecchie come un indistinto e noioso blaterare. Aveva ormai desistito dal puntualizzare che il lavoro di investigatore privato non richiedesse alcuna etica; discendere nelle implicazioni della suddetta parola era tutt'altra storia, e lui era certo che nessuna delle sue ragionate spiegazioni potesse scuotere il mondo perfetto di James Wilson.
  Lui, in fondo, aveva il sacrosanto diritto di ficcare il naso negli affari dei suoi clienti, dal momento che loro erano i primi a denudare la propria vita privata in cerca di risposte a domande irrilevanti, quali mio marito mi tradisce? O, ancor peggio, mia moglie mi ama davvero? Nove volte su dieci, l'uomo o la donna che bussavano alla porta del suo ufficio possedevano già la risposta a quella domanda. Molto più interessanti erano le domande che loro non si ponevano e che House era intenzionato a dissezionare.
   Dal giorno in cui un proiettile aveva squarciato la sua divisa da polizziotto, lacerato il muscolo della sua gamba e rovinato la sua esistenza, House aveva acquisito una certezza folgorante: nessun dettaglio può essere dimenticato.
  Seduto al bancone del Triade, colorato e insulso bar gay alla periferia di Princeton, House sosteneva il mento con il palmo della mano, scandagliando il piccolo zoo umano che affollava quelle mura. Tre notti di ricerche avevano già eliminato dalla lista nove locali; il Triade era il decimo, ma sembrava che la numerologia non gli volesse correre in soccorso.
   Cercava un target ben preciso: Hubert Stevens. Era un uomo di trentacinque anni, emergente imprenditore di successo, di bella presenza ma piuttosto nella media, in ogni aspetto. Intelligenza media, umorismo medio, aspetto medio.
   Stevens si era presentato nel suo ufficio, che attualmente era il retrobottega di una clinica veterinaria, reclamando che la moglie, di una bellezza ben sopra la media, lo tradisse. House aveva provato che la donna fosse in realtà così poco affezionata alla vita da non avere né forza né voglia di ingaggiare una storia segreta; non con molta sorpresa, Stevens ne era rimasto chiaramente disinteressato.
  Un indizio in più che ad House non era sfuggito.
  Quindi ora ingollava il terzo bicchiere di whiskey della serata, cercando la risposta alla domanda che Hubert non aveva posto: sono davvero eterosessuale?
  «Hey, papi, cerchi compagnia?»
  House guardò il barista, chiedendosi se fosse più opportuno ricordargli che la moda degli anni novanta dovesse restare nella scorsa decade, oppure che papi fosse la parola più ridicola del mondo.
 «Sì, ma non da te» rispose, strizzando l'occhio.
 L'uomo sembrò fisicamente urtato dalla frase e si allontanò, lasciando House esattamente alla sua condizione abituale: solo.
  Sbuffò e si voltò sullo sgabello, estraendo dalla tasca un foglio stropicciato e una penna. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte ed era certo che Stevens, dovendo render conto a una moglie annoiata e viziata, non sarebbe mai rimasto in giro fino a quell'ora. Quindi, nervosamente, barrò il nome Triade dalla lista, che richiuse e infilò al suo posto nella tasca dei jeans. Nel farlo, fu costretto a stringere i denti, per serrare tra essi un'imprecazione al traditore grido della sua gamba, che reclamava altro Vicodin. La sua scorta era tendente all'esiguo. Resistere alla tentazione non era nelle sue corde. Sapeva di aver bisogno di una distrazione, ma all'interno del locale non trovava altro che banalità.
   Finché qualcosa, all'angolo del suo campo visivo, attirò la sua attenzione.
   La sua testa scattò in quella direzione, prima ancora che la parte razionale del cervello prendesse coscienza del perché. Lì, vicino a un tavolo lungo il muro, tra la folla e i camerieri vestiti in finta pelle, vide qualcosa fuori posto. Un uomo moro, con un orrendo tatuaggio giapponese sul braccio, muoveva le labbra in una concitata chiacchiera con un ragazzo. Quest'ultimo era la fonte dell'interesse di House: biondi capelli ondulati perfettamente in ordine, se non per un ciuffo che continuava a cadergli sul volto; camicia impeccabilmente stirata, da quello che House poteva vedere; pelle al contrasto troppo chiara, rispetto ai corpi palestrati e laccati d'abbronzante tutt'intorno.
  Mentre saggiava con lo sguardo quel piccolo dettaglio fuori posto, quel ragazzo del tutto dissimile alla fauna del locale, qualcos'altro attirò il suo istinto. Vide distintamente tre avvenimenti costellarsi in un microuniverso: il moro tatuato parlare con un cameriere, il suddetto fare lo stesso con il barista, che a sua volta estrasse qualcosa dalla tasca e la lasciò cadere nel bicchiere. Fare due più due fu fin troppo semplice.
  Per un attimo, House esitò, e fu abbastanza perché le labbra rosee del biondo si posassero sull'orlo del bicchiere avvelenato. La stanchezza era innegabile e, quando prese il bastone e toccò il pavimento con i piedi, la sua gamba sembrò decisa a ricordarglielo.
  Quindi, ancora, esitò. Avrebbe dovuto proseguire per la sua strada, oltrepassare quel tavolo e uscire nell'aria fresca di Princeton. Voleva tornare a casa, bere qualche bicchiere e buttar giù un paio di Vicodin, dormire e ricominciare con la sua vita.
   Nonostante tutto, House esitò. Non c'era alcun guadagno in vista, nessun vantaggio personale e neanche la blanda speranza...no, voglia di trovarsi un ragazzo biondo nel letto, colmo di gratitudine.
  Maledicendo se stesso, House strinse le dita intorno al manico del bastone e zoppicò verso la mal assortita coppia.
  «Albert!» gridò nel tragitto, sventolando la mano.
   Stranamente, nessuno dei presenti si voltò.
   Era  ormai alle spalle dei due, quando lo colpì una scia d'odore. Al di sopra dello stantio sentore di sudore e alcol carburato ed emanato dai corpi tutt'intorno, si elevò una nota lieve. Era un misto di vaniglia e menta, che non aveva nulla dei profumi da quattro che usava lui. Sembrava costoso e pregiato.
  «Albert!»
  Il ragazzo sgranò gli occhi in completa e genuina sorpresa. Le pupille cominciavano a dilatarsi. Le labbra erano inumidete da qualunque cosa il barista avesse preparato.
  «E lei chi è?» chiese irritato il moro.
   House spostò lo sguardo su di lui, cercando di reprimere il disappunto quando alle narici gli giunse odore di tabacco e wiskey. Scrutò il tatuaggio, ponderando quanto fosse vantaggioso per la propria mascella puntualizzare che sesso non fosse in giapponese sinonimo di amore. Resistette alla tentazione, annotando mentalmente di meritare una pillola in più di Vicodin per tutte le sue rinunce.
   Abbatté il bastone sul tavolino, di fatto dividendo i due. Il biondo sussultò appena, all'angolo del suo campo visivo.
  «Sono suo padre.»
  Infilò la mano libera nella giacca, estraendo il suo distintivo falso. Lo aprì e richiuse velocemente, ma abbastanza per permettere agli occhi del moro di spalancarsi.
  «Esatto, sono un agente di polizia, anche. Ora, posso romperti le gambe e sbatterti dentro con l'accusa di tentato stupro, a meno che non prendi quel bicchiere con qualunque cosa ci hai messo dentro e corri via.»
  La fuga del moro fu repentina.
  House lo seguì con lo sguardo, sospirò compiaciuto e ritirò il bastone. Un fastidioso senso di giustizia gli pizzicava lo stomaco. Doveva fare qualcosa per rimediare alla sua buona azione.
  «Immagino tu non ti chiami davvero Albert, e ho una sorpresa per te: non sono il padre che sicuramente ti ha abbandonato lasciandoti con una madre ossessiva e-» la sua tirata morì nell'aria e ogni traccia di divertimento lasciò la sua voce. Del ragazzo biondo non c'era più traccia.
   Si guardò attorno nel locale, ma ormai non credeva di avere molte chance di ritrovarlo. Sbuffò e batté la punta del bastone a terra, sentendosi improvvisamente molto più vecchio e stanco.
  «I ragazzi d'oggi non hanno gratitudine.»


  Robert doveva scappare.
  Nella primordiale indecisione tra combattere e fuggire, lui aveva scelto la seconda, sempre. Era certo che se fosse stato un animale avrebbe avuto un paio di zoccoli e denti da ruminante.
  Barcollando in un mondo di sfumature di blu e suoni, con le gambe pesanti e la testa pulsante, cercò di trovare un punto fermo in quella che doveva essere una strada, ma appariva un'insensata giungla. Dal momento che una droga da stupro gli annebbiava la mente, era difficile riconoscere i contorni delle cose. La genetica, d'altronde, non gli veniva in soccorso: la sua vista difettosa rendeva ogni luce un'esplosione. Poggiò pesantemente la spalla a un palo, così forte da saggiare oltre i sensi intorpiditi la puntura del dolore. Ogni cosa vorticava e il suo unico desiderio era dormire; desiderava più di tutto tornare a casa, rifugiarsi ed essere al sicuro nella sua tana.
  Aprì gli occhi, il tanto che bastava per vedere attraverso una piccola fessura lo spazio che lo circondava. Riconosceva il rombo dei motori, le chiacchiere dietro le sue spalle e da qualche parte oltre i palazzi le sirene di un'ambulanza. Non era certo di dove andare, ma nel suo stato mentale "dritto davanti a te" gli sembrava la cosa più logica.
  C'era a pochi metri di distanza una luce accesa, forse la forma di un uomo. L'ultimo brandello di coscienza gli diceva si trattasse di un semaforo per pedoni. Anche lucidamente, gli sarebbe risultato difficile comprenderne il colore. Prima ancora di poter usare altri indizi per desumerlo, si ritrovò a incamminarsi verso quella luce.
  Tutto avvenne troppo velocemente perché lui potesse comprenderlo. Avvertì lo stridere di gomme e la pressione di qualcosa di duro che gli avvinghiava il braccio. Tutto vorticava intorno voci, rumori e luci. L'ultima cosa che registrò coscientemente fu di essere a terra. Al di sopra di lui non c'era il cielo, ma due iridi di un blu così potente da sconvolgerlo. Fu quasi certo di schiudere le labbra, ma non era certo di riuscire a parlare.
  Un volto accigliato lo guardava al rovescio, facendogli sentire l'insana urgenza di ridere.
  «Non riesci proprio a non morire, stanotte?» disse la stessa voce graffiante di prima.
  Quegli occhi sembravano aprirsi come due soli a ogni battito del proprio cuore. Forse fu l'emozione, forse fu lo shock, ma Robert sentì di essere trascinano nell'unico colore impossibile da non vedere: il nero.
  «Un'ambulanza, idioti!»




   Nella luce bianco-azzurra, Robert credette di essere morto. Non avvertiva il caldo nel petto o il freddo alle estremità del proprio corpo, il quale avrebbe potuto non avere alcun confine. I contorni delle cose cominciavano a defilarsi nell'opacità che sostituiva il primo bagliore, ma non bastò a farlo sentire reale. Chiuse gli occhi quando il bip del monitor giunse alla sua coscienza.
   Fu un risveglio lento e lattiginoso. Passò appena ventiquattro ore in ospedale, in seguito a una poco piacevole lavanda gastrica, che gli lasciò in bocca un sapore amaro per diverso tempo. Alle infermiere aveva chiesto dell'uomo con il bastone, la barba incolta e i modi sgraziati -accennare alle iridi blu gli parve stupido.
   Nessuno lo aveva visto.
   Robert conosceva due leggi dei rapporti umani: mentire e guadagnare. Questo era ciò che gli era stato insegnato, per cui non riusciva davvero a capire quale fosse lo scopo di quello sconosciuto. Possibile si trattasse solo un atto di mera cortesia umana?
   Quell'uomo gli aveva salvato la vita con modi rudi e sgraziati. Cercando di riportare alla mente gli avvenimenti della sera prima, la sua memoria si bloccava e si avvolgeva su se stessa. Ciò che ricordava distintamente era il volto dell'uomo e la sensazione che non fosse esattamente sano di mente.
   Un medico anziano e annoiato gli chiese cosa fosse successo. Robert raccontò di essere stato drogato. non menzionando dove e perché, e di aver fatto confusione con il semaforo dei pedoni. Il medico stupidamente chiese se fosse dovuto al suo daltonismo. Robert avrebbe voluto roteare gli occhi: come se questo facesse la differenza.
  All'ottava ora in ospedale, cominciò a ricordare ogni dettaglio di quegli occhi blu. Lui poteva vedere ogni sfumatura, ogni pagliuzza, ogni minimo riflesso. L'unico colore che conosceva nella sua esperienza visiva esplodeva in quelle iridi.
  Sapeva che sarebbe svanito tutto: il bastone, gli occhi blu e la barba incolta, e quella voce così profonda, in grado di pizzicargli la nuca e colpirgli qualcosa dentro che non sapeva davvero fosse lì.
   Il ricordo svarì, in un modo o nell'altro. Forse non del tutto, perché rimase agli angoli delle caselle perfette e immobili della sua mente. Ogni cosa era al suo posto, ogni pensiero con i suoi confini. In questo modo, era più semplice non perdersi nel rumore della vita. Lui che alienato da tutto e tutti, mai abbastanza dentro le cose per essere apprezzato, per condividere. Eppure sentiva, in fondo alla mente, che con un paio di iridi blu anche lui sarebbe bastato. Avrebbe voluto guardare in esse per sempre, perché non mentivano nel loro colore e non lo facevano sentire difettoso.

   Quando uscì dall'ospedale, rise dei propri pensieri e della debolezza che, in uno stato mentale offuscato e vulnerabile, lo aveva aggredito.
   Si gettò la giacca di pelle sulla spalla e si incamminò verso la fermata dell'autobus, con il sole tra i capelli e di nuovo ogni pensiero al suo perfetto posto.
   Quell'uomo sarebbe rimasto un fastidioso punto esclamativo in una costellazione di punti fermi, ma eventualmente lo avrebbe dimenticato. Come ogni altro barlume di speranza.


   House non aveva più pensato al ragazzo biondo.
   Questo si ripeteva ogni volta che i suoi pensieri giungevano a quella sera.
   Nella sua mente razionale, ogni cosa aveva un ordine e un senso, ogni dettaglio era parte di un puzzle da completare. Quel piccolo, insignificante incontro continuava a non trovare un posto o un senso.
  Chi era quel ragazzo o, più importante, che significato aveva quell'ultimo sognante sguardo che gli aveva rivolto? Steso sul suo divano, si chiedeva cosa quel ragazzo avesse visto in lui. Nessuno, che lui ricordasse, lo aveva mai guardato in quel modo. Nelle iridi blu-verdi era passato un barlume di sorpresa e ammirazione, che per House non avevano alcuna spiegazione.
   Se fosse stato più incline a concedersi il lusso di simili pensieri, avrebbe dovuto ammettere che quel corpo e quel viso avevano suscitato in lui un fascino ancestrale. Sembravano l'esatto specchio di ciò che lui era, e rappresentavano ciò che il tempo e la vita gli avevano tolto per sempre. Allora avrebbe avuto il coraggio di chiedersi dove fosse quel ragazzo, ora, e se fosse infelice come lui.
   Non se lo chiese mai.
   Inevitabilmente, le ore divennero giorni e infine mesi, e quel piccolo brandello di domanda rimase sospeso tra le altre irrisolte nella sua vita. La lasciò cadere sul fondo della coscienza, lì dove c'era ciò che se focalizzato avrebbe fatto vacillare l'intero sistema della sua mente. Lì rimase, quel giovane punto interrogativo.
   Altre cose arrivarono, come una notifica brillante sulla sua scrivania. Wilson gliela aveva lasciata e, da buon coscienzioso ebreo, non l'aveva aperta.
   Risultò che il rispettabile signor Stevens nascondeva fin troppi scheletri nel suo armadio. Oltre ad essere evidentemente omosessuale, aveva una certa passione per ragazzi più giovani, disperati e squattrinati. House avrebbe riso dell'ironia della situazione: c'erano fin troppe persone, nel mondo, a credersi così furbe da non temere nessuno smascheramento. Ma capiva il gusto insito nella sfida, e lui l'aveva accettata -oh, eccome.
   La notte in cui finalmente era riuscito a sollevare il tappeto delle menzogne di Stevens, la fortuna non era stata dalla sua parte; non che lui ci credesse davvero. House avrebbe dovuto fotografare ogni cosa per sicurezza, ma aveva dimenticato la sua attrezzatura, senza contare che il suo telefono era prodigiosamente scarico. Mai aveva commesso un simile errore, nemmeno sotto l'effetto di Vicodin e alchol. Davvero non voleva pensare che era passata una settimana esatta dall'incontro con il giovane punto interrogativo.
   I suoi occhi avevano catturato la verità dietro il velo di menzogne di Stevens. La soddisfazione personale era stata sufficiente; o almeno lo sarebbe stata, se Stevens non lo avesse preso con le mani nel sacco.
   Ora una bella notifica lo informava che il signor Stevens lo denunciava di invasione della privacy, abuso di potere -e quale, poi, se non quello da lui stesso conferito ad House?- e diffamazione. Stevens in qualche modo aveva convinto la moglie a testimoniare a favore delle sue menzogne.
   Ah, i misteri della mente umana!
  «Brutte notizie?»
   House alzò lo sguardo dalla stupida notifica per puntarlo sulla stupida espressione addolorata di James Wilson. Oltre le spalle del veterinario, proveniva il distinto odore di urina di gatto, bava di cane e altre cose che ad House non piacevano, compreso il piagnucolio capriccioso di un cucciolo.
   «No, un invito per una festa privata. Ti porterei con me, ma guarda,» rispose indicando con un dito la lettera, «c'è solo il mio nome, qui! Nessun accompagnatore.»
  «House, devo ricordarti che non hai un avvocato?» constatò Wilson, per nulla colpito dalla sua ironia.
   «Devo ricordarti che non hai una moglie?» lo scimmiottò.
  Allo sguardo annoiato del veterinario, House rispose scrollando lespalle. Si alzò dalla sedia, ignorando quanto la gamba in quella giornata uggiosa bruciasse più del solito.
   «Me ne farò prestare uno dalla schiera di sbarbati liceali che sputano fuori dalle facoltà di giurisprudenza» disse, passandogli accanto e afferrando la giacca di pelle abbandonata su una sedia. «Almeno faranno pratica.»
   «Se ti attenessi a un regolamento, uno qualunque, non accadrebbero queste cose.»
   House si voltò e spalancò lo sguardo in finta offesa.
  «Ma dai, Wilson, e dove sarebbe il divertimento?»




   House non si aspettava nulla di meglio che una tazza di caffé già freddato e una stanza gelida e spoglia. Doveva attendere il famoso avvocato di ufficio scelto a caso per lui, dal momento che la sua richiesta di difendersi da solo era stata rigettata.
   Gli era stato permesso, non senza riluttanza, di lasciare il bastone fuori dalla porta, sulla quale sostava un ufficiale che non sembrava intenzionato a passarglielo. I suoi appelli alla propria infermità non lo avevano neanche smosso, o almeno spinto a guardarlo negli occhi quel tanto che bastava per risvegliarne l'umanità. House sbuffò, considerando quanto sovrastimata fosse quella parola. L'umanità, lì, non c'entrava nulla. Quel trattamento speciale, intriso di paranoia e abuso di potere, era legato solo e unicamente al suo nome e alla sua fama.
   Il frusciare di vestiti e voci sussurranti attirarono la sua attenzione.
   Tacchi di suole mediocri ticchettarono appena, la porta si richiuse e una voce sottile disse: «Sono Robert Chase, può chiamarmi Chase, e sono il suo rappresentate.»
   Fu allora che tre cose accaddero e cambiarono l'intero status della situazione. House sgranò lo sguardo, il ragazzo spalancò gli occhi chiari e la sua voce si ruppe.
  «Oh.»
  Era lui.
  House non avrebbe mai pensato di rivederlo. Ma era lì ed era reale.
  Il ragazzo si bloccò e lo guardò confuso, quindi accennò un saluto impacciato con un cenno del capo.
  House dovette reprimere un sorriso e ignorare l'improvviso guizzo del proprio cuore.
  «Wow. È proprio il caso di dire chi non muore si rivede» mormorò House, prima di impegnarsi nella miglior imitazione di un cipiglio. «Aspetta, tu sei il mio cosa? Non credo tu sia in grado di difendere neanche te stesso.»
   Il biondo si accigliò, poi sembrò capire il tono sarcastico del cliente. L'imbarazzo che gli imporporò le guance fu per House fonte di immensa soddisfazione.
   Chase sistemò la ventiquattrore sul tavolo di metallo, si sedette e aggiustò la cravatta. Una cravatta che, House non poté non notare, era di un orribile arancione pallido che stonava con la camicia a strisce blu e viola.
 

   Era lui.  
  Appena quegli occhi blu si erano alzati su di lui, aveva saputo che era lui l'uomo con il punto esclamativo, la dissonanza nella sua vita perfettamente liscia, l'inscrespatura sulla superficie delle caselle della sua mente.
   Rimase pietrificato e la sua mente si bloccò nell'attimo più lungo che ricordasse. Forse lo immaginò o forse lo desiderava più di quanto credesse, ma in quelle iridi, per un attimo ipnotico, vide l'ombra di un uomo vulnerabile, sorpreso, esposto.
   Subito tornò l'uomo che gli agenti gli avevano descritto e che la sua fedina penale sosteneva: cinico, bastardo manipolatore.
   Neanche schiarirsi la voce servì a freddargli il volto da quel rossore che desiderava non si notasse, ma che quelle iridi blu promettevano di non lasciar inosservato. L'uomo, che ora sapeva chiamarsi Gregory House, ricordava; se da una parte ciò gli istillava un ingenuo senso di sollievo e felicità, dall'altro lo metteva estremamente a disagio nella sua mal assortita uniforme. Non dare nell'occhio era il suo mantra, ma quegli occhi...non sembravano essere disposti all'inganno. Aveva l'assurda sensazione di essere lui sotto una lente di ingrandimento, che somigliava più a un microscopio: zoom dopo zoom, gli occhi blu lo dissezionavano.
   Allora Robert fece quello che aveva sempre fatto: pretese non gli importasse. Sollevò le sopracciglia e impostò la voce, mascherando il suo turbamento dietro un superficiale disprezzo.
   «Non pensavo di rivederla in una situazione simile» disse con l'accenno di un sorriso.
   Si ritrovò a corto di parole. Sapeva di star mantenendo lo sguardo dell'altro troppo a lungo per essere confortevole, eppure non riusciva a guardare null'altro. House non batteva ciglio, sembrando letteralmente capace di non chiudere mai le palpebre.
   Robert non poteva dire di che colore fosse la sua t-shirt, né tantomeno se i capelli fossero grigi o castano chiaro. L'unica cosa che riusciva a vedere erano gli occhi.
   La risata di scherno lo fece sobbalzare.
   «Divertente.»
   «Cosa...cosa sarebbe divertente?»
   «Io so che tu sai che io so...» mormorò House con un gesto della mano. «E via discorrendo. Sai, io non credo dimenticherei una lavanda gastrica.»
   Distogliendo lo sguardo, Robert sentì che il suo mondo tornava in ordine. Il tavolo di metallo sotto le sue dita sembrava molto più sicuro da osservare.
   «E immagino lei sappia di cosa parla.»
   «Oh, è un trattamento speciale per veri uomini.»
   Robert, contro ogni volontà, si ritrovò a sorridere. Fu solo un secondo, prima di ricomporsi.
   «Dunque, tutto quello che ci diremo rimarrà tra noi» disse, indicando con un cenno del capo la porta chiusa alle sue spalle.
   «Certo, mammina non saprà che hai alzato un po' il gomito.»
   Ancora una volta, Robert ignorò il commento.
  «Le telecamere sono spente, nessuno ci guarda o ci sente» aggiunse, aprendo la valigetta ed estraendo i documenti del caso. Non lo guardava, ma sapeva che quegli occhi erano su di lui. «Lei ha precedenti penali per disturbo della quiete pubblica, ricatto e tentata estorsione. Sono accuse piuttosto gravi.»
  «Ho pagato per i miei crimini» disse House in tono drammatico.
  «Ed è stato congedato dalle forze dell'ordine per condotta contraria al regolamento. Inutile che le dica che tutto questo non è assolutamente a suo favore.»
   «C'è qualcosa che lo sia?»
   «Mi vuole dire come sono andati i fatti?»
   «Così potrà ripagare il suo debito, avvocato?»
   «Debito?»
   «Qualcuno potrebbe dire che le ho salvato la vita» disse House, infilando una mano in tasca ed estraendo un flacone di pillole.
   Lo aprì e ne depositò una sul palmo della mano.
  «A proposito, come fa un avvocato d'ufficio ad avere così tanta fiducia nelle persone?»
  Ingurgitò una pillola e i suoi occhi, quei dannati specchi blu, si chiusero per un attimo di piacere.
Robert inclinò la testa, con un lieve cipiglio sul volto.
  «Quello cos'è?»
  «Le mie vitamine» rispose noncurante House. «Allora, quanto ci vorrà per tirarmi fuori? Ho un amico con molti soldi. È ebreo» disse strizzando l'occhio.
  Robert ignorò il commento e portò lo sguardo sulle sue carte.
  «Ora mi dirà la sua versione dei fatti e io cercherò un accordo con l'avvocato dell'altra parte. Sarà fortunato se non dovrà vendere casa. E, in ogni caso, io non ho alcuna fiducia nelle persone» disse guardandolo negli occhi. «Tutti i miei clienti mentono.»
   Fu nel silenzio lasciato dalle sue parole che quel ghigno tornò sul volto di House. Ma questa voltà era di una qualità diversa e, se Robert fosse stato meno in guardia, avrebbe pensato fosse di approvazione. In quel momento odiò quel piccolo sinistro sorriso, perché gli fece desiderare di sentire che in quell'uomo ci fosse qualcosa che combaciasse con lui.




II
La casa errante


   
   Robert Chase era certo che le voci riguardanti Gregory House, investigatore privato, ex polizziotto, fossero più che lusinghiere a confronto con la realtà della sua persona. House non mancava di ricordarglielo, entrando nel suo ufficio con tutta sicurezza, sedendosi sulla poltrona di pelle e prendendo a sfogliare un giornale qualunque. Non aveva alcun rispetto per le norme sociali. Robert aveva finito col desistere dal lasciarsi infastidire da questo.
  Si ritrovò, suo malgrado, a storcere le labbra se passava l'intera giornata senza quella rude irruzione nella sua vita.
   «Sarei occupato» mormorò Robert, sventolando il plico di fogli che stava esaminando.
   Alla sua destra, sulla scrivania ordinata, c'era una pila di moduli da firmare, rapporti da consultare e casi da prendere in esame. Il lavoro non gli era mai pesato. In fondo era il suo dovere e lo svolgeva al meglio; ma per qualche motivo, appena House metteva piede e bastone nel suo ufficio, tutto il resto gli appariva grigio e inutile.
  «Oh, non badare a me» disse House, alzando gli occhi dalla rivista.
  Robert roteò i propri e cercò di concentrarsi sul rapporto della polizia di Princeton nel caso della Contea contro- «E comunque, io sarei un tuo cliente, in carne e ossa. E tu sei occupato» commentò tra i denti House, prima di sbuffare. «Poi ci lamentiamo degli avvocati d'ufficio.»
   Robert lasciò andare i fogli e massaggiò la base del naso con due dita. Era ormai un mese che si occupava del caso Stevens contro House, ben più del tempo necessario. Questo perché House continuava a ritrattare le sue deposizioni, cambiare versione dei fatti, e, cosa per Robert incocepibile, non presentarsi agli appelli.
  «Ti diverte trovarti in un'aula di tribunale, o semplicemente ti annoi?» chiese, voltando la sedia e guardandolo, ormai del tutto disinteressato alle sue carte.
  «Dovrei chiederlo io a te.»
  «Bhe, è il mio lavoro.»
  «Anche il mio» disse House strizzando un occhio.
  Poggiò i piedi sul tavolino e congiunse le mani dietro la nuca. Guardò Robert con quel ghigno che ormai lui aveva imparato a conoscere.
  «Perché lo fai?» chiese alla fine il biondo. «Cosa vuoi ottenere?»
  «Mmm» mormorò House, fingendo di cercare la risposta nell'intonaco del soffitto. «Magari ho solo bisogno di più tempo.»
  «Cos'è? Stai per morire?»
  «Non siamo un po' tutti in punto di morte?»
  «Filosofia spicciola, sul serio? Vuoi passare così il tuo tempo? C'è qualcuno là fuori che paga per farti stare qui.»
  «Come se ti interessasse da dove vengono i soldi che intaschi» borbottò House, prima di fissarlo intensamente. «Hai una proposta migliore per passare il tempo?»
  A quelle parole, un dubbio si insinuò nella mente di Robert. Una domanda sgusciò tra i bordi perfetti delle caselle della mente, sfiorando ogni pensiero e percezione nel suo fluido scivolare. Quel pensiero, così ingenuo, così subdolo, sembrava adattarsi a pennello agli occhi di House.
  E se volesse qualcosa da me?
  Non gli era accorso troppo tempo per codificare i moventi dell'uomo, e aveva ormai capito che nulla di ciò che faceva era privo di un tornaconto personale.
  Nel mese frenetico passato a occuparsi del suo caso, Robert aveva avuto molte volte la sensazione che alcuni sguardi fossero troppo lunghi, alcune parole troppo maliziose e alcuni gesti troppo invasivi. Nella sua concezione di vita, aveva deciso di ignorare tutti i piccoli indizi che potessero alimentare le sue speranze. Era un ragazzo del tutto nella norma, con nulla di speciale se non uno stupido difetto genetico. House amava l'intrigo, la novità e le sensazioni forti. Robert era certo che nessuna di queste tre qualità fossero in lui.
   Non era certo del perché volesse l'attenzione di House. Se lo avesse chiesto a uno dei suoi ex, si sarebbe sentito dire che era la ricerca continua di approvazione. Un professore di giurisprudenza gli avrebbe detto che il motivo era la sua continua voglia di avere successo, anche se significava usare gli altri. La terapista, alla quale si era rivolto in gioventù, gli avrebbe risposto che i suoi problemi con la figura paterna lo portavano a cercare l'ammirazione di uomini irraggiungibili.
   Robert guardò la sua scrivania ordinata e, all'angolo del suo campo visivo, le scarpe da ginnastica di House sul suo tavolino. Nessuna di quelle risposte gli sembrava giusta.
   «Oh, e levati quella stupida espressione dal volto» disse House, riportandolo alla realtà. «Hai una bella bocca, non c'è bisogno di riempirla di mosche.»
  Robert serrò le labbra e si voltò, tornando alle sue carte.
  Non poteva essere vero.
  L'uomo esclamativo, che era diventato il suo cliente, che si stava trasformando semplicemente in House, stava gradualmente entrando nella sua vita. I continui disagi apportati al caso, che ormai Robert cominciava a considerare del tutto voluti, gli impedivano di dormire tranquillamente. Il sarcasmo riempito di cinismo, le acute osservazioni e la totale mancanza di una minima dimostrazione di umanità, pervadevano ogni percezione di Robert. Era come un veleno che entrava subdolo attraverso una piccola ferita aperta, e pian piano si faceva strada in tutto l'organismo. Dal momento in cui apriva gli occhi e prendeva il caffé, fino a quello in cui li chiudeva e spegneva la luce, Robert continuava a pensare a House, a pensare come House.
  Fu una rivelazione bruciante, che per un attimo gli serrò lo stomaco: Robert era attratto da quell'uomo come mai lo era stato da null'altro.
  Alzò lo sguardo e incrociò quello di House, attraverso la scrivania e le assenti foto della sua famiglia. In quel momento, sorrise. Non poteva fare a meno di pensare che quel veleno era la cosa meno tossica della sua esistenza.



   Robert Chase era un cliché vivente. Era ricco, bello e affabile. Suo padre era stato un grande avvocato, sua madre una bella attrice Australiana. La sua famiglia era finita divisa, sua madre sciolta nell'alchol e suo padre assorbito dalla carriera. Lui aveva scelto giurisprudenza; come linea di principio quadrava.
  House girò il bastone tra le mani, seduto sul suo divano.
  Robert Chase doveva essere un assoluto cliché: un avvocato omosessuale cinico e disinteressato, che vive di soldi e di fama. Se poi fosse stato un assassino seriale, House non ne sarebbe rimasto sorpreso.
  Un Cliché.
  Peccato non lo fosse. C'erano qui è la delle sbavature nel quadro complessivo, partire dalla sua scelta di essere un qualunque avvocato d'ufficio. Forse anche questo poteva essere altamente prevedibile: i bravi ragazzi figli di papà famosi tendono a vendicarsi in modi ben poco fantasiosi.
  Il dvd di Criminal Minds scorreva inesorabile sullo schermo, e House guardava il soffitto del suo salotto. C'era qualcosa in Robert Chase che non quadrava, per quanto lui tentasse di spostare il focus.
  C'era il punto A, ma la strada che portava al punto B era del tutto imprecisa. Mancava qualcosa.
  Non avrebbe dovuto essere brillante, ma lo era. Lo nascondeva, come fosse una vergogna, come se l'arguzia mentale e il pensare oltre gli schemi lo spaventassero, come se non volesse attirare l'attenzione.
  Non avrebbe dovuto essere odiato dai suoi colleghi, ma lo era. Nessuno aveva un valido motivo per trattarlo male, ma House aveva visto nei loro occhi il disprezzo, il disinteresse e la sfiducia. Chase sembrava impiegare tutte le sue energie per tenere le persone a distanza, nella fredda bolla dell'indifferenza reciproca.
  C'era qualcosa oltre la maschera. House era intenzionato a smascherare il nucleo di quel qualcosa. Nella sua mente si era già formata un'ipotesi, che rendeva Robert molto vicino a lui, forse anche troppo. Non soffrire, non curarsi, giocare al gioco delle pretese per tirarsi via dalla vita senza realmente abbandonarla; e ancora, selezionare cosa vedere, cosa sentire e cosa vivere. Tutto quadrava. Se si fosse trattato di qualunque altro puzzle, House avrebbe già esultato di vittoria.
  Sorrise mentre il campanello suonava, contando i secondi di testarda attesa del suo ospite.
  Non avrebbe mai ammesso che il mistero era risolto, e forse non era stato neanche dei più difficili e intriganti. Perché avrebbe dovuto dire che la presenza di Robert nella sua vita cominciava a diventare una dipendenza.



   Robert non oltrepassava mai le soglie delle case dei suoi clienti, eppure si ritrovò a dieci minuti dalle nove di sera a sistemarsi la cravatta e tossire nervosamente, adocchiando con sospetto il numero dell'appartamento di House. D'altronde, il più delle volte i suoi clienti non avevano neanche il suo numero di cellulare, poiché lui si limitava a lasciare quello dell'ufficio. Malgrado ciò, meno di mezzora prima il suo cellulare aveva squillato e la voce graffiante di House aveva chiesto, o meglio ordinato, di discutere del caso. Robert aveva avuto appena il tempo di cambiarsi e fare un salto in una piccola tavola calda cinese, per non presentarsi a mani vuote.
   Quando House aprì finalmente la porta con uno sguardo annoiato, girandosi poi e incamminandosi senza bastone fino al sofa, fu chiaro a prima occhiata che la sua gamba non era messa male come aveva annunciato. In più, House non fece nulla per nascondere la sua bugia.
   «Credevo non riuscissi neanche ad alzarti dal letto» commentò Robert, entrando e liberandosi delle scarpe.
  Appese la giacca al piolo dietro la porta e poggiò la busta fumante e un po' unticcia sul tavolino.
  In tutta risposta, House allungò un braccio e afferrò il bicchiere, già mezzo colmo di uno di quei liquori americani ai quali Robert non riusciva davvero ad abituarsi.
  «Per l'esattezza, ho detto che non potevo alzarmi dal divano. Ero certo avresti portato qualcosa da mangiare, anche se speravo ci aggiungessi un drink» risposte House, sollevando la gamba sinistra e poggiandola sul tavolo, con poco riguardo della vicinanza dei suoi calzini con la loro cena.
   «C'è Criminal Minds in tv» aggiunse, come se questo effettivamente spiegasse ogni cosa.
   Robert guardò lo schermo, poi House, poi ancora lo schermo e sospirò, scuotendo leggermente la testa. Aveva ormai capito che cercare di ragionare su un piano normale e civile con quell'uomo era uno spreco di energie che lui, onestamente, non possedeva.
   «Non è carino usare la tua disabilità come scusante per avere cibo gratis.»
  House roteò gli occhi all'angolo del suo campo visivo, sistemandosi più comodamente sul divano.    Di riflesso, anche Robert cercò una posizione più comoda, poggiando la nuca ai cuscini di pelle.
   «Tu hai desunto fosse per la mia gambe. E, a proposito, non è carino ricondurre tutto alla mia infermità.»
   «E immagino tu non c'entri nulla con questa mia desunzione.»
   House non rispose, ma Robert poté vedere il piccolo ghigno stirargli le labbra. Sorrise anche lui, non così palesemente da svelare il proprio strano apprezzamento, ma abbastanza da non sfuggire all'altro uomo.
   Non sapeva perché, o cosa ciò suggerisse su di sé, ma in qualche modo l'ironia sottile e il sarcasmo cinico e macabro di House lo divertivano.
   In realtà, Robert era consapevole del perché la presenza di House lo facesse sentire così sereno, malgrado tutto: il cinico e misantropo uomo esclamativo sospendeva ogni giudizio morale, abradeva ogni spigolo, increspatura e bozzo della morale, livellando tutto e tutti allo stesso livello. La sua fede cattolica, così radicata, aveva fin dai teneri anni da chirichetto fatto presa sull'appreso senso di colpa che la madre e il padre gli avevano instillato. La presenza di House era la mano che scioglieva la briglia. Robert si sentiva normale anche nei suoi pensieri più torbidi, con House accanto.
   Guardò l'uomo. I sui occhi non si staccavano dallo schermo mentre inforchettava i noodles che, a intermittenti esclamazioni di sorpresa, pendevano dalle labbra.
  Alla vista, Robert sorrise debolmete. House si voltò e colse quel piccolo accenno di compiacimento. Increspò le labbra e sulla fronte comparve un cipiglio di domanda.
   Robert scosse la testa e distolse lo sguardo, pretendendo di seguire lo show in tv.
  Negli anni era diventato un assiduo praticante dell'arte di ignorare, ma non poté archiviare la sensazione che in quel momento gli afferrava lo stomaco. Semplicemente nella sua mente e nel suo cuore non esisteva una casella apposita con il nome House scritto a caratteri cubitali.
 



   «Fotosensibilità, scarsa acuità visiva, insensibilità ai colori.»
   Robert alzò lo sguardo dalla scrivania e guardò interrogativo il bicchiere di caffé fumante davanti a sé.
   «Monocromatismo» disse House, sedendosi soddisfatto sul divanetto dell'ufficio.
   «Hai fatto i compiti» rispose Robert, studiando il caffé e chiedendosi se non fosse avvelenato.
   «Wikipedia» fu la secca risposta.
  House lo stava ancora fissando con quello sguardo serio e profondo, e Robert si sentì a disagio seduto sulla sua sedia. Esitò sull'orlo del bicchiere, incerto su cosa dire. Bevve un piccolo sorso, pretendendo di non essersi scottato la lingua.
   «Sei davvero bravo come dicono» scherzò, guardando nel bicchiere.
   «Che vuoi ti dica, sono un buon osservatore.»
   House ticchettò la punta del bastone a terra, poi disse: «Le tende sono troppo pesanti e scure, tieni la luce bassa anche di notte e non hai quelle stupide piante grasse che tutti mettono in ufficio, perché non entra abbastanza luce. Ergo, fotosensibilità. Usi lenti a contatto troppo a lungo, e spesso i tuoi occhi sono rossi per questo.»
   Robert congiunse le mani sull'addome e mimò un'espressione di assorto interesse.
   «Illuminami, Sherlock, come deduci che sono cieco ai colori?»
   House alzò lo sguardo e fece una smorfia.
  «O questo o hai un gusto pessimo nel vestirti.»
  Il biondo si guardò la camicia e storse le labbra.
  «Immagino che tu non abbia nessuno che ti aiuti a scegliere gli abiti, e sei troppo orgoglioso per chiedere alle commesse di che colore sia quello che stai per comprare.»
  L'avvocato scrollò le spalle e sorseggiò il caffé, notando con sollievo che si era raffreddato.
  «Hai perso un particolare.»
  House corrugò la fronte, confuso, quasi oltraggiato. Il senso di potere che Robert percepì fu sufficiente a farlo continuare.
  «Io vedo solo il blu.»
  Vide l'uomo spalancare gli occhi, poi distogliere lo sguardo e stringere le labbra in una linea dura. Qualunque riflessione lo avesse colto, lo spinse ad alzarsi e uscire con un magro saluto.
  Robert lo seguì con lo sguardo, incerto su cosa pensare.






   Wilson ripeteva spesso un concetto semplice e scontato, che sembrava più una credenza popolare che scienza: gli animali sentono la morte e la malattia. Aveva raccontato, in passato, di un cane anziano ormai sul punto di morte e del cucciolo nel gabiotto accanto, che attraverso le sbarre gli aveva leccato il muso.
  House roteava gli occhi al racconto di Wilson. Immaginava che quel tipo di storie dovessero far presa sulle donne sole e disperate, che il veterinario raccattava e portava a casa come altri fanno con i randagi.
  Eppure quella piccola storia, in una serata piovosa, acquistò un senso e solleticò l'interesse di House. Sul tavolo della piccola sala operatoria, un cane nero dai liquidi occhi marroni guardava nel vuoto, le fauci spalancate e la lingua pensoloni. Ansimava e rantolava, mentre il petto si abbassava ed alzava ad un ritmo per nulla conciliante con la vita.
  House, poggiato al suo bastone, osservava il manto ingrigito e spento, le gengive esangui e la zampa gonfia lì dove un nastro teneva ferma la flebo.
   Inclinò di lato la testa, come se questo potesse dare un senso al mondo. Quando sentì Wilson entrare, improvvisamente non ebbe voglia di dar fiato a tutte le battute che gli venivano in mente.
  «Sta morendo» disse James. «L'unica cosa che posso fare è alleviare le sue sofferenze.»
   Si tolse i guanti e poggiò la mano sul petto del cane, il quale come unica risposta abbassò le orecchie e chiuse per un attimo gli occhi.
  Rimasero in silenzio, mentre Wilson guardava il cane ed House, quasi fossero qualcosa di molto simile, l'uno lo specchio del futuro dell'altro.
  House pensava a quel cucciolo del racconto di Wilson e per qualche motivo l'immagine si sovrapponeva a quella di un essere umano; occhi verde-blu, labbra rosee e pelle bianca.
  Ignorando il lieve incrinarsi roco della propria voce, House chiese: «Cosa sai del monocromatismo dei coni blu?»
  Wilson alzò lo sguardo con un cipiglio sul volto, apettandosi qualche tipo di macabro sarcasmo. L'espressione si addolcì quando negli occhi di House non vide traccia di scherno.
  «È una rara mutazione genetica. La maggior parte dei coni dell'occhio ha un deficit, tranne quelli del colore blu. La persona può esperire fotosensibilità, nistagmo e miopia. Riesce a vedere essenzialmente solo le sfumature di blu.»
  House strinse le labbra.
  Guardò gli occhi marroni del cane puntarsi su di lui.
  «Le cose blu» disse sottovoce. «Loro possono vederle meglio?»
  «Bhe, non è proprio così» rispose Wilson, imitando il suo tono, quasi per non disturbare il cane sotto le sue mani. Carezzò lievemente il pelo ispido.
   «Dato che la loro vista è specializzata in quel tipo di colore, è possibile che le cose blu per loro abbiano più sfumature.»
  House non poté fare a meno di pensare al cucciolo e al vecchio cane che moriva in silenzio.
  Si drizzò e allungò una mano a sfiorare il muso del cane. L'animale, sempre più ansimante, sempre più spento, lo guardò ancora e la sua folta coda ebbe un sussulto. House capì che stava scodinsolando solo qua fu fuori dalla sala operatoria.



   Robert era così concetrato sulle sue carte da non notare l'ingresso dell'uomo nel suo ufficio. Sobbalzò quando il bastone si abbatté sulla sua scrivania, stropicciando i fogli che stava leggendo.
  «Diamine, House!»
  «Dovresti chiudere la porta» disse l'altro, sedendosi di fronte a lui.
  «E perché mai? Aperta o chiusa, entri senza permesso.»
  House, impassibile alle sue lamentele, gli posò davanti agli occhi un cartoncino colorato.
  «Cosa vedi?»
  Aprì il flacone di Vicodin e ingurgitò una pillola.
  Robert si accigliò e, pur sapendo che si sarebbe pentito di avergli dato corda, afferrò il cartoncino.
  «Allora?» pressò House.
  Il biondo alzò sull'uomo uno sguardo confuso. Dalla sua espressione capì che dalla sua risposta dovesse dipendere l'esito di qualche linea di riflessione, anche se House pretendeva di essere del tutto disinteressato e che quello fosse solo l'ennesimo gioco. Non era raro che scherzasse sul suo difetto di vista.
  Robert guardò ancora il foglio e il suo stomaco fece una fastidiosa capriola. Sul cartoncino era stato incollato un collage di quadrati, tutti raffiguranti un solo soggetto in diverse angolazioni. Non c'era la pupilla o altro indizio, ma Robert seppe immediatamente di cosa si trattasse.
  «Non vedo nulla» disse. Poggiò sulla scrivania il cartoncino e risitemò le carte sconvolte dall'arrivo di House.
  Si sarebbe aspettato tutto, ma non la mano che gli circondò il polso.
  Alzò lo sguardo e vide negli occhi di House un'espressione cupa, forse anche combattutta.
  La scarica elettrica di quel tocco gli congelò ogni capacità di ragionamento. Come se quell'energia si fosse trasmessa tra loro, pungendogli i polpastrelli, House lasciò andare la presa e si alzò.
  «Per essere un avvocato, menti da far schifo» disse, prima di uscire.
  Robert lo guardò zoppicare lungo il corridoio. Prese di nuovo il cartoncino e avvertì ancora quel palpito nelle viscere.
  Sapeva benissimo che il soggetto del collage erano le iridi stesse di House, ma non sapeva cosa significasse.



   House sarebbe rimasto impassibile di fronte alle accuse e persino alla vittoria di Hubert Stevens. Avrebbe sbuffato e riso di quel piccolo brandello di sconfitta, perché in fondo sentiva di aver già vinto, nel momento esatto in cui i suoi occhi avevano catturato la mano adornata di anelli infilarsi nei jeans di un ragazzo. Lo avrebbe fatto, sarebbe tornato alla sua vita, avrebbe pagato e "tanti auguri per la sua infelice vita di menzogne, Signor Stevens", se non fosse stato per quel piccolo e meschino sorriso.
   Era un giorno qualunque quando House incontrò Stevens nei corridoi della centrale. Chase era al suo fianco e blaterava senza sosta sui pro e contro di dichiararsi colpevole, pagare la somma irrisoria proposta da Stevens e chiudere la faccenda. Poi accadde: nel suo costoso e raffinato abito su misura, Stevens lo guardò dritto negli occhi e sorrise. Un sorriso che per House voleva dire solo una cosa: "io ho vinto, io vincerò." Era una sfida che non poteva lasciare non raccolta.
  Stevens passò loro accanto, trascinando il suo profumo costoso lungo il corridoio. House si voltò e fissò Chase negli occhi, serrandogli la bocca con lo sguardo.
  «Cosa?»
  «Come te la cavi con le effrazioni?»
  Lo sguardo che il ragazzo gli rivolse regalò ad House il primo genuino sorriso di quella giornata.  


   Robert era cosciente di quanto sbagliato fosse tutto ciò.
   Gli passavano per la mente mille regolamenti, varianti e casi, visi dietro le sbarre, il suo viso dietro le sbarre, saponette, docce, agenti che perlustravano ogni orifizio del corpo, e ancora letti pieni di cimici, punture di insetti, sporco, e un gabinetto accanto al cuscino.
   Guardò la moto di House parcheggiata lungo la strada -oh, ovviamente non poteva possedere una semplice auto- e ogni dubbio svanì. Non era certo del perché gli fosse impossibile dire di "no", ma era una realtà che era disposto ad accettare.
   Le arterie si gonfiavano di adrenalina come un filo di rame attraversato da troppa elettricità. Aveva una strana sensazione di eccitamento lì dove nessun avvocato dovrebbe, nessun rappresentante della legge. Mentre camminava guardingo e un po' tremante verso la moto, non sentì di star commettendo il grave errore che sapeva.
   Stevens viveva nella menzogna ed era disposto a rovinare gli altri pur di mantenerla. Chase aveva vissuto nella menzogna, che aveva rovinato ogni suo rapporto sociale. C'era una somma che non riusciva a tirare, un'incognita in questa equazione che gli sfuggiva, ma in qualche modo sapeva che c'entrava House. Da un mese a questa parte, tutto riportava ad House.
  «Stai scherzando?» borbottò House da dietro il casco, dal quale spuntavano solo gli occhi blu.
  Robert lo guardò interrogativo, mentre l'uomo lo squadrava.
  «Sei vestito di nero, diamine. Ma non vi insegnano niente alla facoltà di legge? Se volevi essere più sospetto, potevi indossare una calza a rete.»
   

  House, davvero, non credeva che Chase avrebbe acconsentito.
  Seduto sulla sua moto, con il calore del motore tra le gambe, sorrise mentre seguiva la figura snella tinta di nero svanire in una finestra. Chase sapeva come disabilitare un allarme, come muoversi in una villa, dove i ricchi nascondevano i propri segreti e dove i meno ricchi sbagliavano nel cercarli. Tutto questo Chase glielo aveva detto la notte prima di fronte a un caffé nel suo ufficio, gli occhi bassi dietro una tenda di ciuffi biondi, e per qualche motivo ad House era sembrato triste.
  Ma Robert Chase, ad ogni respiro, si allontava dal cliché che presentava al mondo. E questo, per House, era fonte di un immenso divertimento.


   Stava commettendo un crimine.
   Robert Chase era un criminale.
   Si fermò nel mezzo del lussuoso salotto, colpito da quella verità. Sotto braccio aveva il computer di Hubert Stevens e nella tasca dei jeans scuri alcune lettere, firmate da una calligrafia giovanile e certamente maschile.
   Spostò lo sguardo nella fioca luce che appena ridimensionava gli spazi, incapace di distinguere alcunché. Era difficile concentrarsi sui mobili, le cornici e le sculture che adornavano quella che doveva essere una bella villa.
   Tutta la sua vita, in quel preciso istante, gli parve concentrata intorno a sé. Respirava il suo passato da ragazzino ricco, con le camicette firmate e i pantaloncini sempre puliti, le ginocchia linde e il sole dell'Australia riflesso nella piscina sull'oceano. Vedeva le scarpe mondate dall'erba pulita del giardino, il sorriso triste di sua madre oltre le tende e le lenzuola di seta, così pallide su quella pelle chiara. Poteva immaginare tutti i colori che lui non aveva visto e che erano solo nomi di cose, mentre il cielo e l'acqua erano sempre stati impossibili da dividere. Ricordava quando era sulla tavola da surf, la pancia contro la superficie, e poi si voltava e la schiena surriscaldata dal sole bruciava. Guardava il cielo e l'oceano, e gli sembrava si perdersi e confondersi, perché era lì che si sentiva meno solo. Era lì che i confini tra il suo corpo e il tutto divenivano labili, perché il sole era forte e gli bruciava gli occhi, perché tutto si acquietava in un'unico immenso blu. Lì cessavano anche i bordi della sua vita, quella fatta di silenzi e distanze, quella in cui un abbraccio era un solitario gesto di rude affetto.
   Una luce improvvisa saettò lungo una vetrata, lampeggiando. Era un segnale.
  Scalvalcò la finestra e corse lungo il recinto, uscendo in silenzio dal cancello, ormai unitule barriera tra la vita e il microcoscmo della villa. House era sul ciglio della strada, in sella alla sua moto, con il bastone agganciato al fianco della vettura. Aveva il casco tra le mani e le sue labbra si muovevano in quello che sembrava un rimprovero, o acute offese alla sua lentezza da ragazzo ricco.
   A Robert non importava. L'unica cosa che i lampioni gli rimandavano erano le pozze blu di quelle iridi. In esse distingueva ogni cosa e, ancor più, in esse vedeva il futuro. In esse sentiva i suoi confini, i suoi muri e le sue solitudini svanire. Prima che potesse dar retta alla voce che gli urlava di fermarsi, prese il volto di House tra le mani e lo baciò.
   Non si era mai sentito più libero.


   Giovane, imbarazzata, triste e genuina volontà di vita passò attraverso quel bacio. House la accolse e accomodò le proprie labbra a quelle di Chase. Quando si staccò e lo guardò negli occhi, per la prima volta lo chiamò Robert. Non per l'ultima volta, sentì di avere qualcosa che valesse la pena difendere.



 
   Nel sistema di vita di Gregory House l'amore era una parola come un'altra, come verde o blu o quadrato. Non c'era amore, ma convenienza. Due persone si incontravano e scoprivano nell'altro bisogni da soddisfare. Era come la legge del mercato: crea un bisogno e diventa la soddisfazione di quel bisogno. Così era convinto che l'unico modo per evitare questo triste valzer, che inevitabilmente portava all'esaurimento delle risorse proprie e altrui, fosse non creare quel bisogno e non permettere che altri lo proiettasserso su di lui.
   Gregory House si bastava da sé: il suo lavoro gli dava la giusta dose di adrenalina e puzzle da risolvere, James Wilson era sufficiente come rapporto sociale, e una squillo ogni tanto poteva colmare anche il suo letto. Il Vicodin gli dava sollievo e l'alcol, soprattutto combinato a un giro in moto, il giusto eccitamento.
   Gregory House non era una di quelle persone che vagavano per il mondo con un vuoto nel petto da riempire.
  Guardò il corpo snello addormentato tra le sue lenzuola, il volto rilassato e le labbra gonfie di baci ancora. Pensò che fosse triste che mai Robert avrebbe potuto sapere quanto belli fossero i suoi occhi, di quel delicato colore tra oceano e prato; House non avrebbe mai potuto descriverglielo.
  Ora sapeva, dal momento in cui l'aveva sentito gemere tra le sue braccia, che Robert aveva un vuoto nel petto da riempire, e che avesse deciso di non vederlo, di non curarsene, di non soffrirne, pretendendo di espanderlo a tutta la sua persona. Robert era un bisogno che cammiva e parlava in un bel corpo.
  House sfiorò la sua fronte, spostando un ciuffo morbido dalla pelle. Seppe, in quel preciso momento, che Robert aveva creato un bisogno che House non avrebbe mai pensato fosse lì in lui. Ma c'era, forse c'era sempre stato, e ora era impossibile tirarsi indietro. Immaginare di tornare ora alla sua vita piena e soddisfacente, ma in solitudine, era sufficiente a impedirgli di fuggire. Si sdraiò al fianco del ragazzo e ne annusò il lieve aroma. Prima che potesse assefuarsi, si era già addormentato, e la bottiglietta di Vicodin rimase dimenticata sul comodino.





III
Il velo blu della verità


Presente

   Lo sguardo sconfitto di Hubert Stevens è una gioia immensa per Chase. Non si è mai lasciato affascinare dalla sottile arte della vendetta e della gratificazione per la caduta altrui, ma Stevens ha meritato ogni brandello del suo sorriso soddisfatto. House sorride in modo diverso, poggiato al suo bastone. In fondo per Robert è ovvio: l'uomo ha sempre saputo di poter vincere.
  «Toglimi una curiosità» dice House, attirando la sua attenzione. «Come sei riuscito a farlo accusare?»
  Chase sorride e scrolla le spalle.
  «C'era un ragazzo che aveva bisogno di una casa accogliente e sicura, e un programma di recupero per ragazzi vittime di abusi.»
  «Impari in fretta.»
  House ghigna, visibilmente soddisfatto. Chase pensa a Carlos, che ora avrà un tetto e una vita migliore. Mentire, in fondo, non vuol dire sempre non dire la verità.
  «Schadenfreude» dice House, la schiena poggiata alla parete del corridoio, mentre gli agenti arrestano Stevens.
  «Cosa?»
  House apre gli occhi e lo guarda intensamente.
  «Il piacere che si prova per il fallimento altrui.»
  Robert riflette guardando le scarpe da ginnastica di House, poi alza lo sguardo e sorride.
  «Schadenfreude.»



  «Fai sul serio?»
  House guarda Wilson, seguendo la sua traiettoria fino alla sedia di fronte alla propria scrivania.
  «In generale, risponderei di no» dice, reclinando la schiena contro la soffice pelle della poltrona. L'unica cosa di valore nel suo ufficio, eccetto il computer.
  «Ma per evitare il tuo ebraico giudizio, credo di doverti chiedere: a proposito di cosa?»
  «Chase» sillaba James, ignorando l'ennesimo commento razzista.
  «Oh.»
  «Oh?»
  «Oh.»
  James sospira pesantamente e si passa una mano sul volto.
  «Okay, ascolta. Lui è giovane e vulnerabile, solo...ti prego, cerca di non essere troppo te stesso con lui.»
  House sbuffa, ma tiene per sé il proprio ghigno. Oh, quanto Wilson si sbaglia su Robert.



   Steso di pancia sul materasso, perfettamente a suo agio con la propria nudità, Robert rigira tra le mani una cartella. Alza lo sguardo su House, seduto con la schiena contro la testiera del letto e le lenzuola intorno alla vita.
  «Cos'è?»
  «Voi ragazzini ricchi non avete alcuna curiosità.»
  Robert inarca un sopracciglio, ma non risponde.
  House ingoia una piccola di Vicodin e mormora: «Aprila, idiota.»
  E lui obbedisce, di riflesso. All'interno della cartella trova un plico di fogli che, immediatamente, ancor prima di leggerne l'intestazione, riconosce.
  «Un contratto d'assunzione?» chiede allibito.
  È un po' sospettoso, perché è decisamente da House prenderlo in giro.
  «La paga è una miseria, il lavoro è sfiancante e devi trattare con persone del tutto noiose» dice House, ed è davvero da lui abbassare le aspettative degli altri, fingere che non gli importi.
  Robert si alza sulle ginocchia e si china su di lui.
  «Vuoi che io sia il tuo Robin?»
  «Pensavo più a Watson, anche se lo zoppo sono io.»
  House sorride e si lascia baciare. Lascia che Robert creda di essere importante per lui, che lui lo consideri all'altezza, che House possa davvero non farne a meno nella sua vita.
  Perché tutti mentono, ma House no, non questa volta.


  Quando Robert si trasferisce da lui, lo fa con la caratteristica e sorniona grazia di un gatto. House sorride quando nota che la prima cosa che Robert porta con sé non è lo spazzolino, ma una piccola cornice. All'interno c'è un cartoncino.
  «Alla fine hai capito, o vuoi appenderlo finché non ci riesci?»
  Robert gli circonda la vita, ignorando il grugnito irritato di House. Sa che è solo una recita.
  Gli poggia le labbra sul braccio e sorride.
  «Potevi chiedermelo e basta.»
  House non risponde.
  Robert decide che il giorno in cui House gli chiederà cosa ha visto nei suoi occhi, allora lui sarà sincero.
  Ho visto la libertà, dirà.
  Robert gli pizzica la pelle con i denti, e sa che quella conversazione non arriverà mai. Il giorno in cui verrà posta quella domanda, lui dovrà dire che lo ama. Entrambi sanno che non sorgerà mai quell'alba, e va davvero bene così.
   In fondo amore è solo una parola, non diversa da blu.



FINE




Grazie a chi ha letto, in fretta o con calma, che voglia commentare o meno.
Ora un po' (ehm) di note.
Note di punteggiatura e gestione dialoghi: Quindi, sono un po' fissata su questo punto. Sto cercando di trovare lo stile che mi viene più semplice e visivamente mi soddisfa. Per i dialoghi scelgo i caporali («»), con la punteggiatura all'interno; per i dialoghi immaginati, ricordati o all'interno del dialogo, le virgolette (""); per i pensieri il corsivo.

Riferimenti: Non sono mai stata un'avida lettrice di AU, tantomeno un'assidua scrittrice di questo tipo di storie. Tuttavia, negarmi una nuova esperienza non mi piace, quindi ho pensato di approfittare di un momento di ispirazione e stendere questo testo. Una cosa che apprezzo molto quando leggo una AU sono i riferimenti a eventi o dettagli dell'universo originale del Fandom. Per questo, ne ho inseriti alcuni nel testo.
  *Nella serie Wilson e House lavorano nello stesso luogo, così ho deciso di trasporre questo legame anche all'interno del testo. Wilson si occupa di veterinaria, lavoro che per qualche motivo mi sembra fatto per lui. Non ho esplorato molto il loro rapporto, più per non divagare e uscire dal nucleo della storia che altro (infatti, mi dispiace di averlo trascurato).
  *Nella prima parte, House fa un'osservazione sul tatuaggio di un uomo, che rappresenta alcuni idiogrammi. È un riferimento a ciò che si sa sull'infanzia di House nella serie, cioè che il padre lo portava in giro per le basi militari nelle quali stazionava, tra cui alcune in Giappone.
  *Perché House investigatore privato e Chase avvocato d'ufficio? Per il primo, ho pensato che fosse un mestiere ben combaciante con il bisogno di emozioni forti e puzzle tipico di House; per il secondo, un po' è esigenza della trama, un po' è ribadire il cliché del figlio che segue le orme del padre, anche se ne devia un tantino, pur non cadendo mai lontano dall'albero.


   Note di verosomiglianza: Non sono un avvocato e non sono un medico. Assodato ciò, ogni riferimento alle procedure penali è soggetto a varianze rispetto al reale, per cui ho cercato di non essere troppo specifica. Sul versante medico, il monocromatismo dei coni blu esiste davvero, ed è una forma rara di acromatopsia, con i sintomi che ho riportato. Non ho esplorato la condizione suddetta quanto avrei voluto, ma avevo anche limiti di spazio e di trama. L'ho inserito per due motivi: il primo è che mi piace mettere questi particolari nelle storie, studiarmeli e provare a capirli meglio mettendoli nei personaggi; il secondo è che ha un suo senso all'interno della trama, poiché è una sorta di punto che unisce l'interesse di House in Chase e viceversa.
   Come spesso dico quando tratto di ambiti nei quali non sono esperta, per qualunque discrepanza o assurdità, fatemelo notare.














  
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