La quiete nella non speranza
«Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l'acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver bisogno di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. »
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia
Pioveva.
Il
ritmico suono delle gocce di pioggia, via via più
aggressive, moriva
contro i vetri della finestra. Uno stanco fuoco crepitava nel camino,
ormai in procinto di spegnersi, consumando a fatica le ultime cellule
disperate dei ciocchi di legno.
C'era
stato un tempo – e non era neanche così lontano
– in cui si era
sentito felice.
Ma sentirsi felice, forse, non era nelle sue corde: aveva vissuto
quella lieta parentesi con la tremenda inquietudine di esserne
privato, d'un tratto. D'altro, cos'era la sua vita, se non un
susseguirsi di acuto dolore? Non c'erano stati bei tempi: c'erano
stati tempi duri e tempi un po' meno duri, e questo era quanto.1
Con
gli anni, si era accorto che quella strana inquietudine era, forse,
un monito che la sua buona stella – se poteva concedersi di
pensare
di averne una – aveva scelto di inviargli. Un monito che,
come
nella maggior parte dei casi, aveva colto troppo tardi.
Adesso
poteva fare ben poco; si trascinava dietro i giorni che passavano con
la stessa assurda resa di un naufrago che smette di nuotare:
aspettava invano l'attimo in cui i suoi polmoni si fossero riempiti
d'acqua per poter finalmente mettere fine a tutto. Si crogiolava
nella quiete nella non speranza. D'altronde, cos'altro avrebbe potuto
fare? Era conscio che un giorno – probabilmente molto vicino
–
sarebbe uscito di casa senza farvi più ritorno, com'era
accaduto ai
suoi amici, falciati come spighe di grano durante la mietitura,
uno dietro l'altro. Uomini e donne di cui restavano solamente polvere
e urla nella notte, con ricordi di loro negli altrui cuori che
sarebbero sbiaditi assieme al trascorrere del tempo. Un attimo prima
c'erano, un attimo dopo il loro attimo era già trascorso.
Il
tempo scorreva inesorabile, ignorante, menefreghista.
C'era
solo quella: la quiete nella non speranza.
* * *
Sentiva
di star perdendo, giorno dopo giorno, ciò che era,
ciò per cui
aveva lottato per essere. Era un mostro, ma era riuscito a domarsi;
era un pericolo, ma era riuscito a contenersi. Eppure, sentiva che si
stava sgretolando nell'inutile esistenza che conduceva. Morte e
disperazione gli si erano avvinghiati come due uncini e lo
trascinavano giù, sempre più giù: e
sentiva scivolare via, assieme
al tempo, anche parti di sé ogni volta che udiva un altro
morto e
vedeva un altro cadavere e vedeva nel cielo un altro marchio.
Gli
era capito, nel sonno, di perdersi nei meandri smeraldini di un
teschio e d'un serpente, che si erano rivoltati contro di lui e lo
avevano divorato atrocemente. Si era risvegliato, nel sonno,
artigliando disperatamente le lenzuola madide di sudore, col respiro
mozzato, il cuore a pezzi.
Aveva
smesso di dormire. Era insonne da due giorni. All'erta, in attesa di
una nuova chiamata. Solo in mezzo alla sua quiete. Senza alcuna
speranza.
Aveva provato a parlarne con Sirius, con James, una volta persino con Peter. Si era quasi spinto a parlarne con Lily, confidando nella sua connaturata discrezione. Ma cosa avrebbe dovuto dire? Avrebbe dovuto dire che aveva paura? Che talvolta, a casa, continuava a controllare ogni stanza, che alzava incantesimi protettivi a cadenza di mezz'ora, che parlava da solo perché aveva paura d'impazzire e che aveva paura d'essere impazzito perché parlava da solo? Avrebbe dovuto dire che non dormiva più per paura di fare incubi, perché sentiva il respiro della morte sul collo e le sue dita su di lui, perché percepiva una bile nera come la pece espandersi in ogni frammento del suo essere, corrodendo tutto ciò che trovava sul proprio cammino? Cosa avrebbe dovuto dire che loro non sapessero già, che non provassero sulla propria pelle, che non apparisse, ai loro occhi, come una sintomatologia perfettamente normale?
Non c'era nulla da dire, nulla che potesse dire o negare o anche solo pensare. Non c'era nulla che loro potessero dire o fare per farlo stare meglio.
«Volevi
dirmi
qualcosa?»
«No, nulla. Non
preoccuparti. Ho risolto».
«Sei
sicuro?»
«No».
Era come se non avesse mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici2, come se, d'un tratto, quelle flebili speranze che si erano fatte strada nel suo animo fossero state scacciate come insetti molesti in una sera d'estate. Aveva perso l'uomo che era diventato; era tornato il bambino solo, impaurito, sconvolto e disgustato da se stesso, che guardando nello specchio scorgeva solo una bestia. Non vedeva umanità attorno a sé: solo disperazione. Non sentiva tranquillità: solo dolore.
Non c'era più un senso, si combatteva in nome della sopravvivenza. Non c'erano più ideali: c'era solo la morte e la disperazione e la paura di morire e la folle, disperata speranza di non essere il prossimo nome inciso sulle pagine del passato.
«È
come se il mondo si fosse svuotato di tutte le cose belle».
«Già,
come se ci fosse solo dolore. È tutto fatto di dolore; il
giorno e
la notte, gli alberi che cadono senza motivo...»
«Siamo
fatti di dolore».
«Di
dolore e morte e bruttezza».
«E
di disperazione».
* * *
Aveva creduto di aver toccato il fondo tempo prima, quando aveva smesso di chiudere occhio di notte – e di giorno –, di camminare da solo per strada, di parlare da solo perché aveva compreso che la morte, qualora fosse giunta, non si sarebbe impressionata. Quando aveva chiesto a Sirius di andare a vivere con lui, perché l'idea di restare da solo lo soffocava, gli toglieva ogni briciolo di coerenza e lucidità. Eppure, non sapeva ancora nulla di ciò che sarebbe successo, di ciò che avrebbe scombussolato irrimediabilmente la sua già tragica quiete (nella non speranza).
* * *
«James
e Lily sono
morti».
«Cosa significa?»
«Sirius li ha traditi».
«Cosa dici?»
«Ora è ad Azkaban».
«Non ti seguo».
«Peter è morto».
«Non
capisco».
* * *
Pioveva.
Pioveva sempre, in notti come quelle, come se il cielo volesse
crollare sotto il peso di tutta quell'acqua. Come se volesse
sommergere quella valle di lacrime e disperazione che era la Terra.
Mentre
il mondo festeggiava, lui restava sotto l'acqua scrosciante, a
guardare il cielo crollargli addosso, incurante del freddo, incurante
di tutto. Cosa
ci fosse poi da festeggiare non lo capiva: forse il sangue che
macchiava le mani di tutti, le anime corrotte che non sarebbero mai
più state purificate, le perdite che avevano subito?
Voldemort era
morto, ma aveva vinto: aveva tolto loro ogni briciolo di
umanità,
ogni minima speranza, ogni gioia di vivere. Cos'erano, se non
involucri vuoti, mere marionette che festeggiavano qualcosa di cui
non gioivano e non potevano gioire? Cos'erano, se non creature
perdute?
Guardò
verso il cielo, con la pioggia che gli frustava atrocemente il viso,
udendo in lontananza i botti e i festeggiamenti.
«Buona
fortuna, Harry. Buona fortuna in questo mondo perduto».
Se
ne andò, camminando sotto la pioggia, trascinandosi dietro
quei
sogni infranti, quelle false speranze, quelle ceneri di una
felicità
fallace.
Non
c'era più nulla: c'era solo Remus, in mezzo a un temporale,
che si
sgretolava sotto il peso del cielo beffardo. Senza meta, senza quiete
e senza speranza.
* * * * *
Angolo Autrice:
1
La
frase originale, attribuita a Charles Bukowski, è
“Ci sono stati
tempi duri, e tempi un po' meno duri”
2
La
frase originale,
tratta dal libro Conversazione in Sicilia
di Elio Vittorini (come la citazione iniziale), è:
“ero
come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai
saputo che
cosa significa esser felici”.
Salve. Era tantissimo che non scrivevo (né sul fandom né altro in generale) ed è stato bello tornare per un po' a casa. Questa prima parte dell'estate è stata una (ennesima) full immersion nel mondo HP e quindi durante un delirio notturno ho partorito questa cosa. Mi auguro vi sia piaciuta, almeno un pochino, perché Remus è un personaggio che adoro profondamente (e chi mi conosce lo sa). Ho voluto mostrare, attraverso di lui (Che mi sembra più adatto) la disperazione della guerra. Si tende a rappresentare sempre la forza, la rigidità dei principi, i buoni che anche se hanno paura combattono, ma io credo che sia necessario affrontare l'argomento anche da parte di chi vacilla, di chi ha paura ed è da esso divorata. Non sto dicendo che Remus fosse un codardo, o che sarebbe stato pronto a venir meno alla sua fazione, non direi mai una bestialità simile: sto solo dicendo che ogni tanto è giusto mostrare che si può crollare, perché siamo umani e... crolliamo, semplicemente. Sto lavorando anche ad una raccolta sull'argomento (Con un altro personaggio) e spero di riuscire ad ultimarla presto. Mi scuso per la lunghezza di queste note ahaha Vi saluto, baci :)