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Autore: Acquamarine_    06/07/2015    1 recensioni
Dal testo: "Gli era capitato, nel sonno, di perdersi nei meandri smeraldini di un teschio e d'un serpente, che si erano rivoltati contro di lui e lo avevano divorato atrocemente. Si era risvegliato, nel sonno, artigliando disperatamente le lenzuola madide di sudore, col respiro mozzato, il cuore a pezzi.
Aveva smesso di dormire. Era insonne da due giorni. All'erta, in attesa di una nuova chiamata. Solo in mezzo alla sua quiete. Senza alcuna speranza."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Remus Lupin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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La quiete nella non speranza



«Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l'acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver bisogno di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. »

Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia


  Pioveva.
  Il ritmico suono delle gocce di pioggia, via via più aggressive, moriva contro i vetri della finestra. Uno stanco fuoco crepitava nel camino, ormai in procinto di spegnersi, consumando a fatica le ultime cellule disperate dei ciocchi di legno.
  C'era stato un tempo – e non era neanche così lontano – in cui si era sentito
felice. Ma sentirsi felice, forse, non era nelle sue corde: aveva vissuto quella lieta parentesi con la tremenda inquietudine di esserne privato, d'un tratto. D'altro, cos'era la sua vita, se non un susseguirsi di acuto dolore? Non c'erano stati bei tempi: c'erano stati tempi duri e tempi un po' meno duri, e questo era quanto.1
  Con gli anni, si era accorto che quella strana inquietudine era, forse, un monito che la sua buona stella – se poteva concedersi di pensare di averne una – aveva scelto di inviargli. Un monito che, come nella maggior parte dei casi, aveva colto troppo tardi.
  Adesso poteva fare ben poco; si trascinava dietro i giorni che passavano con la stessa assurda resa di un naufrago che smette di nuotare: aspettava invano l'attimo in cui i suoi polmoni si fossero riempiti d'acqua per poter finalmente mettere fine a tutto. Si crogiolava nella quiete nella non speranza. D'altronde, cos'altro avrebbe potuto fare? Era conscio che un giorno – probabilmente molto vicino – sarebbe uscito di casa senza farvi più ritorno, com'era accaduto ai suoi amici, falciati come spighe di grano durante la mietitura, uno dietro l'altro. Uomini e donne di cui restavano solamente polvere e urla nella notte, con ricordi di loro negli altrui cuori che sarebbero sbiaditi assieme al trascorrere del tempo. Un attimo prima c'erano, un attimo dopo il loro attimo era già trascorso.
  Il tempo scorreva inesorabile, ignorante, menefreghista.
  C'era solo quella: la quiete nella non speranza.

* * *


  Sentiva di star perdendo, giorno dopo giorno, ciò che era, ciò per cui aveva lottato per essere. Era un mostro, ma era riuscito a domarsi; era un pericolo, ma era riuscito a contenersi. Eppure, sentiva che si stava sgretolando nell'inutile esistenza che conduceva. Morte e disperazione gli si erano avvinghiati come due uncini e lo trascinavano giù, sempre più giù: e sentiva scivolare via, assieme al tempo, anche parti di sé ogni volta che udiva un altro morto e vedeva un altro cadavere e vedeva nel cielo un altro marchio.
  Gli era capito, nel sonno, di perdersi nei meandri smeraldini di un teschio e d'un serpente, che si erano rivoltati contro di lui e lo avevano divorato atrocemente. Si era risvegliato, nel sonno, artigliando disperatamente le lenzuola madide di sudore, col respiro mozzato, il cuore a pezzi.
  Aveva smesso di dormire. Era insonne da due giorni. All'erta, in attesa di una nuova chiamata. Solo in mezzo alla sua quiete. Senza alcuna speranza.


  Aveva provato a parlarne con Sirius, con James, una volta persino con Peter. Si era quasi spinto a parlarne con Lily, confidando nella sua connaturata discrezione. Ma cosa avrebbe dovuto dire? Avrebbe dovuto dire che aveva paura? Che talvolta, a casa, continuava a controllare ogni stanza, che alzava incantesimi protettivi a cadenza di mezz'ora, che parlava da solo perché aveva paura d'impazzire e che aveva paura d'essere impazzito perché parlava da solo? Avrebbe dovuto dire che non dormiva più per paura di fare incubi, perché sentiva il respiro della morte sul collo e le sue dita su di lui, perché percepiva una bile nera come la pece espandersi in ogni frammento del suo essere, corrodendo tutto ciò che trovava sul proprio cammino? Cosa avrebbe dovuto dire che loro non sapessero già, che non provassero sulla propria pelle, che non apparisse, ai loro occhi, come una sintomatologia perfettamente normale?

  Non c'era nulla da dire, nulla che potesse dire o negare o anche solo pensare. Non c'era nulla che loro potessero dire o fare per farlo stare meglio.


«Volevi dirmi qualcosa?»
«No, nulla. Non preoccuparti. Ho risolto».


«Sei sicuro?»
«No».


  Era come se non avesse mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici2, come se, d'un tratto, quelle flebili speranze che si erano fatte strada nel suo animo fossero state scacciate come insetti molesti in una sera d'estate. Aveva perso l'uomo che era diventato; era tornato il bambino solo, impaurito, sconvolto e disgustato da se stesso, che guardando nello specchio scorgeva solo una bestia. Non vedeva umanità attorno a sé: solo disperazione. Non sentiva tranquillità: solo dolore.

  Non c'era più un senso, si combatteva in nome della sopravvivenza. Non c'erano più ideali: c'era solo la morte e la disperazione e la paura di morire e la folle, disperata speranza di non essere il prossimo nome inciso sulle pagine del passato.


«È come se il mondo si fosse svuotato di tutte le cose belle».
«Già, come se ci fosse solo dolore. È tutto fatto di dolore; il giorno e la notte, gli alberi che cadono senza motivo...»
«Siamo fatti di dolore».
«Di dolore e morte e bruttezza».
«E di disperazione».


* * *

  Aveva creduto di aver toccato il fondo tempo prima, quando aveva smesso di chiudere occhio di notte – e di giorno –, di camminare da solo per strada, di parlare da solo perché aveva compreso che la morte, qualora fosse giunta, non si sarebbe impressionata. Quando aveva chiesto a Sirius di andare a vivere con lui, perché l'idea di restare da solo lo soffocava, gli toglieva ogni briciolo di coerenza e lucidità. Eppure, non sapeva ancora nulla di ciò che sarebbe successo, di ciò che avrebbe scombussolato irrimediabilmente la sua già tragica quiete (nella non speranza).


* * *


«James e Lily sono morti».
«Cosa significa?»
«Sirius li ha traditi».
«Cosa dici?»
«Ora è ad Azkaban».
«Non ti seguo».
«Peter è morto».
«Non capisco».

* * *

  Pioveva. Pioveva sempre, in notti come quelle, come se il cielo volesse crollare sotto il peso di tutta quell'acqua. Come se volesse sommergere quella valle di lacrime e disperazione che era la Terra.
  Mentre il mondo festeggiava, lui restava sotto l'acqua scrosciante, a guardare il cielo crollargli addosso, incurante del freddo, incurante di tutto. Cosa ci fosse poi da festeggiare non lo capiva: forse il sangue che macchiava le mani di tutti, le anime corrotte che non sarebbero mai più state purificate, le perdite che avevano subito? Voldemort era morto, ma aveva vinto: aveva tolto loro ogni briciolo di umanità, ogni minima speranza, ogni gioia di vivere. Cos'erano, se non involucri vuoti, mere marionette che festeggiavano qualcosa di cui non gioivano e non potevano gioire? Cos'erano, se non creature perdute?
  Guardò verso il cielo, con la pioggia che gli frustava atrocemente il viso, udendo in lontananza i botti e i festeggiamenti.
«Buona fortuna, Harry. Buona fortuna in questo mondo perduto».
  Se ne andò, camminando sotto la pioggia, trascinandosi dietro quei sogni infranti, quelle false speranze, quelle ceneri di una felicità fallace.
  Non c'era più nulla: c'era solo Remus, in mezzo a un temporale, che si sgretolava sotto il peso del cielo beffardo. Senza meta, senza quiete e senza speranza.

* * * * * 

Angolo Autrice:

1 La frase originale, attribuita a Charles Bukowski, è “Ci sono stati tempi duri, e tempi un po' meno duri”
2 La frase originale, tratta dal libro Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (come la citazione iniziale), è: “ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici”.


Salve. Era tantissimo che non scrivevo (né sul fandom né altro in generale) ed è stato bello tornare per un po' a casa. Questa prima parte dell'estate è stata una (ennesima) full immersion nel mondo HP e quindi durante un delirio notturno ho partorito questa cosa. Mi auguro vi sia piaciuta, almeno un pochino, perché Remus è un personaggio che adoro profondamente (e chi mi conosce lo sa). Ho voluto mostrare, attraverso di lui (Che mi sembra più adatto) la disperazione della guerra. Si tende a rappresentare sempre la forza, la rigidità dei principi, i buoni che anche se hanno paura combattono, ma io credo che sia necessario affrontare l'argomento anche da parte di chi vacilla, di chi ha paura ed è da esso divorata. Non sto dicendo che Remus fosse un codardo, o che sarebbe stato pronto a venir meno alla sua fazione, non direi mai una bestialità simile: sto solo dicendo che ogni tanto è giusto mostrare che si può crollare, perché siamo umani e... crolliamo, semplicemente. Sto lavorando anche ad una raccolta sull'argomento (Con un altro personaggio) e spero di riuscire ad ultimarla presto. Mi scuso per la lunghezza di queste note ahaha Vi saluto, baci :)

   
 
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