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Autore: Soqquadro04    16/07/2015    1 recensioni
[Reverse!AU - TimeLady!Rose, Human!Nine | Possibile OOC | 5945 parole | !!! Major Character Death !!!]
Del tutto inaspettatamente, se lo ritrova fra i piedi mentre cerca di impedire a Londra e alla Terra di diventare un magazzino di cibo per la plastica vivente – la Mente Nestene è furiosa, il cacciavite lontano, la Dichiarazione Ombra inutile e lei si dà praticamente per spacciata, fino a quando lui non compare chissà come e da chissà dove e salva la situazione con una botta di fortuna non meglio specificata (fantastico, Rose! È fantastico! - anche quando Rose non era per niente convinta che fosse proprio la parola adatta)
[...]
Una vita dopo, sono di nuovo davanti casa sua.
Hanno parlato e parlato e parlato – gli ha raccontato della TARDIS, delle stelle, dell'universo là fuori e di lei che è un alieno, sì –, e il suo appartamento è soltanto una porta anonima in un condominio anonimo di un quartiere anonimo, e questa volta se è un addio lo sarà davvero – e no, non riuscirà a trovarla nemmeno con un sofisticato giochetto di computer e ricerche su giornali e vecchi libri polverosi di storia e teoria delle trasmittenti.
E, di nuovo,
potrebbe dirlo.
«Potresti venire con me.»
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Doctor - 9, Jack Harkness, Rose Tyler
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Soqquadro04
Disclaimer: non mi appartengono in nessun modo e in nessun luogo, e non ci scrivo su a scopo di lucro - semplicemente mi diverto a farmi del male, evidentemente.
Generi: Angst, Sentimentale, Generale
Avvertimenti: reverse!AU (TimeLady!Rose, Human!Nine), Death, H/C, hints!Nine/Rose
Rating: Giallo (per sicurezza, più che altro)
N/A - Note dell'Autrice:
Buonsalve, lettrici.
Torno sul fandom dopo secoli con questa... avventura, che mi ha portato via un pezzo di cuore - fra l'altro, l'AU in questione mi piace così tanto che penso sarebbe divertente provare a scriverci una serie, anche se non credo accadrà sul serio.
Essendo un po' particolare, ho la bruttissima impressione di aver fatto un disastro con le caratterizzazioni e facendo un mischione terribile, quindi in caso avvisatemi e siete naturalmente autorizzati a tirarmi addosso cose.
Spero che però non sia così tremenda :)

A presto,
la vostra Soqquadro


P.S. Perdonate il banner, ma l'ho fatto io e non ho poi così tante nozioni di grafica... *corre a nascondersi*

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Il viaggio non finisce mai, solo i viaggiatori finiscono.
José Saramago

Are you gonna turn
your back on a blue sky?
Are you gonna play this part
'til there's no tears to dry?
So, who you gonna hold,
when the night is moving on?
And who you gonna blame now
for the aching that you feel?
So, are you gonna stay
in the place where you started,
or do you wanna hold my hand
in the middle of America?
[…]
Are you gonna let go
when the past holds you down?
And how you gonna carry your own weight
when I am not around?
Or do you want to rest your head
in a field in the moonlight?
Or do you want to hold this slave
and let it burn through the night?
[…]
Are you gonna run?
Are you gonna run
'til you can't anymore?
You know it's gonna hurt;
you know it's gonna hurt
with your heart on the floor,
but you want to fall in love.
Do you want to touch
light of morning?
'cause it's you I'm thinking,
it's you I'm thinking of.
Do you want to fall in love?
Run – Thriving Ivory


L'uomo – perché non è un ragazzo, come aveva pensato all'inizio, a vederlo da lontano, forse un caporeparto o qualcosa di simile – non avrebbe un viso facile da dimenticare neppure se lei potesse effettivamente dimenticare.
Ogni tanto le piacerebbe perdere nei meandri di quella mente disordinata qualche frase o particolare o anche semplicemente un nome o due, ma non ci riesce mai – ricorda ogni cosa, e se anche col tempo si fanno più lontane, memorie di altre vite e altri miliardi di mondi, tornano ogni notte.
E, naturalmente, i volti più vividi sono quelli di chi non è riuscita a salvare.

Quindi, anche se preferirebbe non avere altri da ricordare – non più, non dopo... dopo –, sa bene che lasciarlo in balia dei manichini non è un'opzione contemplata. Per niente.
Anche solo per evitare di ritrovarsi ogni notte a fronteggiare orecchie di quel calibro.

Si dà della cinica, perché sa che è molto, troppo più di questo, ovviamente, ma fa troppo male pensarci – perciò si limita ad avvicinarglisi, senza fargliene accorgere, e a prenderlo per mano.
Ha le mani fredde, e quando si volta vede che ha iridi azzurre come il cielo di quel piccolo, rumoroso pianeta.

«Corri.»

 

***

 

Più tardi, studiandolo con la coda dell'occhio mentre spalanca la bocca, sorpreso, davanti alla misura impensabile della sala comandi, è ancora irritata a morte dall'avventatezza che ha dimostrato rifiutando di tornarsene a casa a nutrirsi di crostini. E forse può anche ammettere di avere apprezzato la prontezza di riflessi con cui ha lanciato lontano l'ordigno, mentre lei era troppo impegnata a cercare di seminarlo – un po'.

Sbuffa, tirando una leva con un po' troppa forza e guadagnandosi un paio di ronzii irritati, prima di voltarsi verso di lui – si appoggia alla console e aspetta che parli, sorridendo internamente mentre si ripete le parole. Sono sempre le stesse, e ogni volta le lasciano la sensazione confortante che l'umanità non smetterà mai di essere splendida.
Lui, ancora una volta, non si comporta come previsto.

«Fantastico!» mormora, ed ha un tono talmente elettrizzato che lei pensa dovrebbe avere un sorriso da un orecchio all'altro, ma in realtà, quando riesce a distogliere lo sguardo abbastanza a lungo da incontrare il suo, lei può leggergli dentro la nostalgia terribile e bruciante per luoghi mai visti. Pensa che potrebbe dirlo, le parole le uscirebbero di bocca senza fatica, così, anche se non sa il suo nome o altre piccole inezie di questo genere, non serve mai. Bastano i suoi occhi – come sempre, sono sempre gli occhi, e forse è semplicemente che è stata sola molto a lungo e che le manca veramente tanto chiacchierare con qualcuno ed avere una risposta (non che la TARDIS non le faccia compagnia, ma ogni tanto si sorprende ad odiare il suono della sua voce che rimbomba nei corridoi, per nessuno eccetto che lei stessa). E poi lui sembra sveglio – e anche testardo e avventato (che non sono proprio pregi ma che per qualche ragione finiscono sempre per diventarlo, a stare con lei), ma quegli occhi non sono gli occhi di un idiota, e quindi sì, potrebbe dirlo.

«Una volta finito qui, potresti venire con me.» potrebbe dirlo, e suonerebbe un po' troppo speranzosa e siccome non ne ha bisogno, non davvero, e sa bene che i rifiuti sono sempre rari e fanno sempre male, aggiungerebbe, «Forse.» e magari lui direbbe anche di sì.
Ci pensa sul serio, però alla fine non lo fa.

Non lo fa, e si dice che è perché la sua vita è pericolosa e non è più sicura di volere che qualcun altro affronti quei pericoli, e meno che mai qualcuno di testardo e avventato – non ora, forse mai più, e in fondo sa che è solo stanca di vederli andar via e va bene così, va sempre bene così.
Quindi sbuffa di nuovo, e non chiede nulla di quello che vorrebbe chiedere, e per annegare i pensieri decide che è ora di sbrigare le formalità.

«Io sono la Dottoressa.» dice, e lo vede inarcare le sopracciglia, confuso.
Non aveva pensato di dirgli anche l'altro – in ogni caso fra non più di due minuti saranno davanti casa sua e questo incontro non sarà nulla più che un buffo contrattempo in una vita monotona –, ma alla fine si arrende.

Le piace scegliere un nome nuovo, ogni volta che cambia volto – questo non l'ha ancora deciso, non quando ha appena ritrovato il suo primo nome, ma le viene in mente all'improvviso, breve e musicale, vedendolo arrossire appena sotto il suo sguardo distratto.
«Puoi chiamarmi Rose, se preferisci.» sorride, e non ricorda da quanto tempo non sorrideva così – Rose le piace, si adatta bene a quel viso da ragazzina che è uscito fuori da non sa dove, non ora che non si è mai sentita più lontana di così dalla sua giovinezza.

Sorride anche lui, sempre più confuso – rivaluta per un secondo il suo giudizio, perché ora non sembra più tanto sveglio, ma forse in fondo è un po' anche colpa sua –, e quando si presenta lei fatica a trattenersi dallo scoppiare a ridere. E infatti non lo fa.
«Nine.» dice, e lei ride anche se sa che non dovrebbe perché non è gentile, ma, andiamo, Nine?

(Non si chiede neppure quale sia il suo vero nome, non lo userà mai, non dopo Nine, perché ne ha sentiti pochi di nomignoli più strani e difficilmente comprensibili).

E lui, del tutto inaspettatamente, ride con lei – mormora di un qualche incidente con delle banane, quando aveva nove anni, e ride di una risata stranissima che è mezza strozzata in gola, come se non lo facesse da secoli (e del resto neppure lei rideva da parecchio tempo, non c'è molto da ridere a stare soli, soli con i propri ricordi che sanguinano e bruciano, Gallifrey brucia ogni notte nei suoi incubi ed è per questo che non può portarlo con sé, è soltanto che non rideva da così tanto tempo).

Quando riesce a riprendere fiato, Rose si volta di nuovo verso la console, gli chiede l'indirizzo e lo scarica davanti alla porta di casa – lui la guarda andar via come si guardano svanire i sogni al mattino, e sul viso (un viso che non è propriamente bello ed è triste di una tristezza che sente troppo vicina per ignorarla sul serio) già il rimpianto, l'idea che sfuma, e riconosce il pensiero perché è lo stesso che le martella le tempie.

Avrei dovuto chiedertelo.

(Ma ora è troppo tardi).

 

***

 

Del tutto inaspettatamente, se lo ritrova fra i piedi mentre cerca di impedire a Londra e alla Terra di diventare un magazzino di cibo per la plastica vivente – la Mente Nestene è furiosa, il cacciavite lontano, la Dichiarazione Ombra inutile e lei si dà praticamente per spacciata, fino a quando lui non compare chissà come e da chissà dove e salva la situazione con una botta di fortuna non meglio specificata (fantastico, Rose! È fantastico! - anche quando Rose non era per niente convinta che fosse proprio la parola adatta), che è poi più o meno come si risolvono tutte le sue situazioni, ma la cosa la infastidisce comunque perché poteva farcela benissimo da sola. Benissimo.

Questo non le impedisce di ringraziarlo, poi, quando stanno passeggiando per il parco, dove nessuno li nota e la distruzione dei manichini non è così evidente – e anche se soffia le parole fra i denti e specifica che ciò non toglie che sia stato un pazzo, senza confessargli che i pazzi sono sempre i migliori, sa che non è stata solo fortuna; è stato che è un genio, anche se Rose non capisce ancora bene come e in che cosa, ma lo è e lei lo sa perfettamente.

 

Una vita dopo, sono di nuovo davanti casa sua.
Hanno parlato e parlato e parlato – gli ha raccontato della TARDIS, delle stelle, dell'universo là fuori e di lei che è un alieno, sì –, e il suo appartamento è soltanto una porta anonima in un condominio anonimo di un quartiere anonimo, e questa volta se è un addio lo sarà davvero – e no, non riuscirà a trovarla nemmeno con un sofisticato giochetto di computer e ricerche su giornali e vecchi libri polverosi di storia e teoria delle trasmittenti.

E, di nuovo, potrebbe dirlo.

«Potresti venire con me.» potrebbe dirlo, e non le importerebbe poi troppo se suonasse speranzosa, perché forse dopotutto ha bisogno di qualcuno che le impedisca di farsi scoppiare la testa a forza di parlare da sola, ma aggiungerebbe, «Forse.» perché magari lui è spaventato, ora, e magari gli piace la sua vita anonima – Rose non capisce come e non lo capirà mai, probabilmente, ma gli umani sono belli anche per questo.
Ci pensa sul serio, e lei non è certo tipo da perdere le seconde occasioni, quando capitano.

 

Come ogni volta, spera che duri per sempre, quando vede l'emozione in fondo a quei suoi occhi azzurri e brillanti di sogni infranti che ritornano a galla tutti in un colpo, mentre può sentire il lavorio frenetico dei pensieri ingarbugliati e la voce forte di entusiasmo (a lui deve sembrare immenso, incontenibile, se riesce a prendere perfino lei, dopo novecento anni)
«Sì. Sì, per favore.»

(Come ogni volta, spera che duri per sempre, e sa che non sarà così).

 

***

 

Il loro primo viaggio è traumatico sotto molti punti di vista – vedere il proprio pianeta bruciare è doloroso e tremendo e lo sa, ovvio che lo sa, soprattutto se nel mentre ti ritrovi a rischiare di essere fatto fuori da un trampolino bisbetico.
Non è l'idea di divertimento delle persone normali, ma a tornare indietro (sulla Terra, sulla Terra viva e brulicante di gente) ridono ancora. Ridono, e Rose nemmeno si chiede più perché – mangiano patatine e lui è un vero gentiluomo, e ridono.

E desidera solo che possano ridere ancora a lungo.

 

***

 

Quando glielo chiede, è circa un mese che viaggiano insieme.
Rose non si domanda neppure perché non abbia avanzato prima la proposta – il dolore, la paura di fare qualcosa di sbagliato, i ricordi.

Può capire tutto questo, e lui lo sa.

«Si può... Rose, puoi portarmi da mia moglie?» non ci sono lacrime, non ancora, solo la sofferenza devastante e l'assenza e la mancanza, bestia crudele dagli artigli frementi e feroci.
Non ha nemmeno bisogno di rispondergli.

 

Non gliene parla, mentre partono – negli occhi ha lo sguardo distrutto di un uomo in agonia e Rose sa che non riuscirebbe a tenere la voce ferma, ma va bene così, il silenzio va bene, fra loro, basta sempre.

Quando si fermano all'indirizzo che le ha dato, si limita a controllare che la data sia giusta, poi resta ferma accanto alla console, ad aspettare.
Lui la osserva con gratitudine, prima di uscire – non ha provato a seguirlo, sa esattamente quando e dove sono e di certo non pretende di assistere al suo dolore.

Rose sa che forse si sta fidando troppo, perché l'istinto umano è più forte di qualsiasi altra cosa quando si tratta delle persone care – Rose sa anche che Nine non è un idiota e conosce perfettamente le regole.

Tali considerazioni le impediscono di raggiungerlo fisicamente, ma accende comunque gli schermi ambientali per vedere cosa sta succedendo – per sicurezza, si dice, solo per sicurezza (una parte di lei sa che è curiosità e preoccupazione e tante troppe altre cose insieme).
Non restano molto, in realtà – non c'è molto tempo.

Lo vede sedere su una panchina di Regent's Park, fingendo di nutrire i piccioni o qualcosa di simile – vede una donna passargli davanti, i capelli rossi come fiamme, e il suo sguardo discreto sotto un cappello recuperato chissà dove e il giornale di una settimana prima.

Le verrebbe da ridere, se non sapesse e se non leggesse il dolore in quegli occhi azzurri – quasi sorride, un sorriso frantumato che si spegne quando lui fa un gesto, come per chiamarla, e resta morto anche quando sembra riscuotersi e si rialza, tremando tanto che persino da lì riesce a vederlo.
Vorrebbe uscire per andare a prenderlo – confortarlo, forse –, ma stringe i denti, spegne gli schermi e lo aspetta, lasciandogli il tempo che gli serve.

Quando la porta si riapre, Rose non trattiene più l'istinto di corrergli incontro – non pensa che magari non sia quello che gli serve, lo fa e basta, forse perché è quello che serve a lei.
Nine non la respinge, si limita a stringerla un istante e, quando si lascia guardare in viso, lei non è sorpresa di trovare iridi umide e sofferenti, schegge affilate in un cuore spezzato.

Non gli chiede niente, e va bene così.

 

Più tardi, quando il tè è stato bevuto – il tè rende migliore ogni cosa e se ne rende conto persino lei – e il tremito si è calmato, almeno all'apparenza, Rose ancora non parla. E aspetta.
Aspetta talmente tanto a lungo, fingendo di essere occupata con i comandi, da credere che lui non voglia dirle nulla – si sta già preparando a partire sul serio, quando lo sente prendere un respiro profondo.

«Si chiamava Renée1. Non c'è molto da dire, in realtà – non c'è mai stato molto da dire. La... la amavo, ed è morta.» deglutisce, può sentirlo, ma è solo contenta che non se lo tenga più dentro, stretto ad avvelenargli l'anima come una spina infetta, il lutto (e poi i sogni e i ricordi).
Rose non dice niente.

Allunga una mano dietro di sé, quasi esitante, senza guardarlo – ha l'impressione che non lo voglia, e non desidera forzarlo.
Quando lui la prende, gli stringe appena le dita, e sorride con la sua stessa tristezza negli occhi.

 

***

 

Recuperano Jack Harkness qualche viaggio più tardi – la Terra è di nuovo salva e Rose è sorpresa della sua stessa voglia di compagnia, perché se anche non si può dire che la TARDIS sia affollata (potrebbe facilmente contenere mezzo Universo e forse anche tutto, e una metà potrebbe tranquillamente non incontrare mai l'altra) è vero che non capitava spesso di vedere più di una persona in giro persino ai vecchi tempi (i vecchi tempi in cui Gallifrey era ancora lì da qualche parte e il sonno non faceva così male da farla piangere e gridare nel buio) e ora sono due.

Comunque, Jack è da tenere d'occhio – del resto, pensa sorridendo, aprendogli la porta, il cinquantunesimo secolo e i suoi flessibili abitanti sono da sempre fra i suoi preferiti.

 

***

 

Preme un pulsante a caso – spera che sia quello che riempie la vasca – e regola un paio di schermi senza pensare a cosa sta facendo, l'importante è tenersi in movimento (se ti muovi in fretta non possono prenderti2 – non possono prenderti i ricordi la paura il fuoco la colpa).
Deve muoversi, tenere la mente distratta, le mani occupate, perché altrimenti potrebbe strozzarlo.

Idiota, è un idiota un idiota un idiota.

 

Si ferma di colpo, prendendo un respiro profondo – si appoggia di peso alla console, fissando senza scopo un grafico che non serve più a niente. Si passa le dita fra i capelli, nervosa.

La sala comandi è silenziosa e semibuia, i motori ronzano pigramente seguendo l'orbita di un piccolo pianeta disabitato, e lei trema come trema sempre prima di addormentarsi – Rose ha imparato ad odiare i suoi sogni, perché sono umani e sono incubi e quando non lo sono diventano molto peggio (diventano ricordi di pomeriggi caldi ed erba rossa e risate e volti, tanti, così tanti), e quindi dorme il meno possibile, vagando per ore e ore fra le stanze, lasciando che la nave la conforti come può (basta far comparire o scomparire una porta, a volte).
Questa volta non basterà.

Sa perfettamente che la sua non è una vita tranquilla – lo sa lei, lo sa chi accetta di salire a bordo, se ne rendono conto perfino quelli che aiuta, che lo vedono nella facilità con cui si mette in pericolo, per il bene di chiunque ne abbia bisogno.
Lo vedono e, ogni tanto, quasi mai, capiscono – quelle sono le volte in cui la ringraziano, e anche se la maggior parte del tempo nessuno nemmeno ci pensa va bene così, è sempre andato bene così.

Non fa quello che fa per i ringraziamenti, o gli onori, o qualsiasi altra stupidaggine del genere – lo fa perché le piacciono i guai, e perché non può girarsi dall'altra parte quando la guerra si avvicina, quando un luogo unico nell'universo sta per essere distrutto con tutta la sua gente o quando in generale i mondi vanno a catafascio. Se è l'unica che può impedirlo, lo impedirà, e se fosse solo lei non le importerebbe il costo, potrebbe anche morirne e andrebbe bene così, potrebbe accettarlo, se fosse servito a qualcosa.

Il problema è che non è soltanto lei.

Non è più soltanto lei, ed è in giorni come quello che Rose ricorda perché aveva ricominciato a viaggiare sola – ricorda il terrore che sale, i colpi di fortuna che non sono sempre abbastanza e i pensieri che si ingarbugliano su un uncino feroce di sofferenza, e l'adrenalina e il rischio e i cuori che lanciano fitte (ricorda la gioia e ricorda il dolore).

Non è sempre pericolosa, la sua vita, e non è sempre sicura – tende all'entropia come ogni altra cosa in questo infinito universo, ed è più spesso incerta e mortale che a prova di essere umano (gli esseri umani che possono fare tutto e che sono così fragili, così predisposti alla rottura, così splendidi).

Ancora un respiro, la calma che non arriva, le dita che vibrano impercettibilmente.
È talmente tesa che non sente i suoi passi, e quasi grida quando la voce di lui spezza il silenzio.

«Stai bene? Rose?» si volta di scatto, spaventata, e la prima cosa che vede sono quei suoi occhi troppo azzurri e troppo facili da capire – le sono sempre piaciuti, gli occhi azzurri – e la sua espressione impensierita
Non dovrebbe preoccuparsi, lui – ci ha quasi rimesso la pelle, dovrebbe essere a letto, non di certo a preoccuparsi per lei, è tanto tempo che nessuno lo fa più.

Non gli risponde neppure, si limita a scuotere il capo – potrebbe essere un sì oppure anche un no, non importa. Sospira.
«Forza, torna a dormire.» sembra molto giovane, nella penombra delle luci soffuse che la TARDIS usa in notturno – molto giovane, più di quello che è realmente, e troppo testardo.

Sente la rabbia risalire di nuovo, e anche qualcos'altro che le stringe la gola – paura, forse la stessa tristezza cattiva che si porta addosso da secoli.
Forse è rimorso, prima gli ha urlato addosso cose che non pensava e non si è scusata perché in fondo se le meritava – l'obbiettivo non è farsi uccidere, l'obbiettivo è aiutare e tornare a casa, dopo, almeno per lui (sa che l'obbiettivo in realtà sarebbe scoprire l'intero, vasto cosmo e le sue meraviglie, ma non è mai stata proprio brava a mantenere le promesse).

Qualunque cosa sia, comunque, la prende alla gola come il morso di un cane, feroce e improvviso – lo sguardo le scivola involontariamente sulla gamba destra, le dita che si stringono e le unghie che si piantano nei palmi.

Non si vede nulla, ovviamente, ha dei pantaloni del pigiama alquanto ridicoli – ancora banane, a quanto pare – e troppo pesanti, dentro la nave fa più caldo di quanto si potrebbe pensare, ma Rose sa che la ferita è lì perché l'ha vista solo poche ore prima, quando lei e Jack l'hanno trasportato di peso in infermeria prima che il veleno di un antipatico abitante di Iridea gli sciogliesse i tessuti molli.
Gliel'aveva detto, di starsene fermo.

Lui non l'aveva ascoltata e non l'ascolta nemmeno adesso, anzi, probabilmente le sue parole hanno peggiorato la situazione – le si pianta davanti come un soldatino di stagno, ignora il dolore (lei non può ignorare la sua smorfia – fitte di sensi di colpa come spilli che le pizzicano la pelle), e la trattiene con dolcezza dal protestare, le mani quasi esitanti che le si poggiano sulle spalle, un contatto inusuale.

«Cosa c'è?» sente dal suo tono che sta cercando di aiutarla, e questo non fa che gettare benzina sulla sua furia perché non c'è niente che possa fare per cancellare quel che è successo e nemmeno lei può fare niente, il che è ancora peggio.
«C'è che sei quasi morto, perché è questo che succede a non ascoltarmi mai e girovagare e fare esattamente il contrario di ciò che ti dico anche quando specifico che non devi, non devi farlo – non parlo a vanvera, c'è sempre un motivo, ed è sempre più che valido. Ma tu continui a fare di testa tua come se non esistessi, come se non sapessi, come se fossi tu a dover proteggere me.» si allontana di scatto da lui, impedendosi di soffermarsi sul suo sguardo ferito quando si sottrae al suo tocco.

Vorrebbe parlare ancora, e spiegare e lasciare andare tutta quella rabbia – non è solo rabbia ed è proprio quello il grande problema, la cosa che la rende ancora più furiosa (è preoccupazione e angoscia e il suo battito asimmetrico e angustiato, quei due cuori che vanno fuori tempo per la prima volta da molti anni, perché vuole semplicemente che tutti vivano, solo questo, non chiede tanto ma nessuno l'ascolta) – allo stesso tempo desidera soltanto chiudere il discorso e mandarlo a dormire, perché sicuramente non gli fa bene stare in piedi a litigare con lei – ovviamente, Nine non è dello stesso parere.

«Quando ho deciso di seguirti sapevo che sarebbe stato pericoloso – la prima volta che ti ho incontrato abbiamo rischiato di saltare in aria, Rose, direi che è stato più che sufficiente per capire che non ci saremmo comportati da turisti.» ora la sua voce è più dura, la contrasta con fermezza per impedirle di controbattere – perché lo sa che muore dalla voglia di farlo, e sa anche che all'occorrenza è capace di tirare fuori argomentazioni sensate quanto inutili. «E non ho bisogno di essere protetto. Non sono giovane e ingenuo.»

«Sì che lo sei.» lo dice senza pensarci, le parole le escono di bocca senza che nemmeno ci rifletta – non si era neppure resa conto di esserne convinta fino a quel momento. «Ho novecento anni, Nine.» deglutisce, distogliendo lo sguardo.
Nove secoli che viaggia di continuo, nove secoli che dice addio, e trova ancora la forza di ricominciare – si chiede dove la prenda, si risponde che non ha molta importanza.

Lui la guarda, un'espressione strana, e capisce immediatamente che vorrebbe interromperla, ma non gliene lascia il tempo.

«Ho visto molte persone morire, e tutti erano troppo giovani – si è sempre troppo giovani. Sempre. Quindi smettila di fare perennemente di testa tua, perché ho promesso che ti avrei riportato a casa, un giorno.» nel silenzio, può ancora immaginare le grida dei bambini – quindi che non le venga a dire che non dev'essere protetto, lui che deve vedere ancora così tante cose (anche lei morirà, un giorno, e sarà giusto – lei che avrebbe dovuto andarsene tanto tempo fa).
Si rende conto in ritardo di aver parlato troppo – come di consueto, in fondo.

Lui aggrotta la fronte, confuso, e le si avvicina ancora, ignorando il suo ritrarsi nervoso.

«Promesso a chi?» Rose l'ha giurato, ma lui non capirebbe – l'ha promesso a se stessa, che l'avrebbe riportato indietro e sarebbe stato salvo, se solo fosse stato troppo.
Ma Nine non capirebbe, non davvero, perché ancora prima di conoscerlo veramente abbia sentito il bisogno di tenerlo al sicuro – è così stanca di vedere le persone andare via e scivolarle fra le dita, acqua corrente e fumo e voci di fantasmi.

Quindi sorride appena, notando che è ancora troppo vicino, e si rifugia nel sarcasmo perché può rispondere al fuoco col fuoco, quando vuole.

«Al tuo capo. E ora dormi, domani andremo alle terme di Palateo o qualcosa del genere.» sospira, indecisa – non sa proprio come comportarsi, sotto quel suo sguardo chiaro.
Alla fine, vedendo che non pare intenzionato ad ascoltarla – di nuovo –, gli accarezza un avambraccio, come per scusarsi – non le piace farlo a parole, sembra sempre troppo poco.

Poi si volta verso i comandi e inizia ad armeggiare per impostare le coordinate, lanciandogli solo un'occhiata fugace da sopra la spalla – lo vede esitare, e la prima cosa di cui si rende conto dopo è il corpo stretto al suo, il profumo fresco di sapone e pulito che la rilassa quasi istantaneamente, le sue braccia attorno alla vita.
E alla fine davvero non hanno bisogno di parole, per chiedersi scusa, e Rose non lo scaccia neppure quando restano abbracciati troppo a lungo per i limiti imposti dall'amicizia e dei loro stessi contatti – il tempo è relativo, sulla TARDIS, è solo la tua percezione che lo rende importante, e a nessuno dei due importa davvero.

Non si allontana, quando lui seppellisce il volto nell'incavo del suo collo, fra i capelli biondi – non si allontana, ma nemmeno si avvicina. Resta immobile, e aspetta.
Aspetta fino a che i cuori prendono di nuovo un ritmo normale, fino a che i pensieri tornano a organizzarsi con un disordine-ordine in cui solo lei può trovarli, fino a che non è tempo di partire.

Per una volta, invece di correre, Rose resta immobile.
E si stupisce di quanto possa essere bello.

 

***

 

Non ne parlano più, poi – Jack ovviamente si è sprecato in battute, quando non hanno fatto in tempo ad allontanarsi l'uno dall'altra prima che si svegliasse anche lui, ma alla fine Jack è Jack e quindi Rose non si fa troppi problemi.
Lui ogni tanto l'ascolta, ora – non spesso, certo, ma è già un miglioramento –, e Rose si chiede quanto abbia davvero compreso, in quei loro secondi minuti ore rubati alla clessidra e alla sua sabbia implacabile – quanto abbia capito anche di quello che non ha detto, e quanto bene possa dire di conoscerla.

Poi il pensiero passa e sfuma come tutte le cose, lui le sorride e ci sono solo miliardi di altri luoghi da scoprire e dove sorridersi ancora.

 

***

 

Succede non molto tempo dopo.

(Lei non piange e non grida, confusione e le risate di chi è vivo e il dolore il dolore il dolore di chi rimane).

 

***

 

Avrebbe voluto che durasse una vita intera.
(Raramente l'Universo è così clemente con lei.)

 

Una volta, una cartomante aveva cercato di leggere la sua mano.
Era quasi impazzita.

(Una salvatrice di mondi, portatrice di disgrazie.
L'Ultima, viaggiatrice dagli occhi antichi, colei che frantuma vite credendo di fare del bene.
E la Morte che ti segue, tua unica eterna compagna).

 

A volte, si chiede se non abbia vissuto troppo a lungo.
Se non sia troppo vecchia e troppo stanca, a dispetto di quel suo viso da bambina, perché quante volte ancora si potranno spezzare, quei suoi cuori esausti, prima che sia una volta di troppo?

 

Forse in fondo l'aveva sempre saputo – forse era per questo che aveva esitato, prima di chiedergli di andare.

 

Aveva le mani fredde, la prima volta che le aveva strette fra le sue, ma ora lo sono troppo – le sfiora ancora una volta, in ginocchio sul ferro gelido del pavimento, e le scappa un verso strano che potrebbe essere un singhiozzo, se sapesse ancora cosa significa piangere.

Svegliati.

I motori gemono e paiono volerle parlare, rumore assordante in quella quiete spaventosa, il pianto della nave che riecheggia il suo dolore silenzioso.
Se ne accorge solo lei, ma la TARDIS risponde a ogni addio.

Svegliati.

 

I Dalek si stavano avvicinando, non c'era più speranza e lui doveva tornare a casa, perché Rose l'aveva promesso.
Lui non avrebbe mai accettato, non questo – non gliel'avrebbe permesso, ma non c'era soluzione.
Ricorda che aveva pensato ai suoi occhi, prima di mandarlo via, trattenendo con rabbia un singulto – accusatori, azzurri come un cielo che non avrebbe più visto, forse persino tristi (per lei, solo un'ultima volta).

Ma l'aveva promesso.

 

Non doveva andare così.
Non doveva.

Lui sarebbe dovuto essere salvo, nella sua casa, nel suo tempo, nel luogo che gli apparteneva – al sicuro, vivo e consapevole di esserlo, capace di andare avanti e ricominciare la sua vita come avrebbe voluto viverla.
Lontano, sembra molto lontano, sente bussare alla porta – non è riuscita a partire, lui è caduto, il mondo si è frantumato in un'esplosione di cocci e tormento e la TARDIS li ha chiusi dentro, protettiva, in attesa.

Non sa chi sia, e non importa – non importa più nulla, non adesso, forse mai più (lo dice ogni volta – mai più – e il dolore torna sempre, fedele, quando si ritrova incapace di rispettare la sua parte del patto).

 

Non voleva crederci, quando era tornato – non voleva credere che l'avesse fatto davvero, che non l'avesse ascoltata nemmeno quella volta, nonostante avesse fatto l'impossibile per metterlo in salvo.
Eppure era così.

Era stato il suo colpo di fortuna, l'unica cosa in grado di salvare la situazione, la scintilla di speranza, il fuoco della sua vita.
E Rose si era chiesta se non le avesse fatto anche lui una promessa, molto tempo prima, e non se ne fosse mai resa conto.

 

Solleva lo sguardo, spaesata, quando i colpi alla porta si fanno più insistenti – la voce di qualcuno che la chiama (Dottoressa, non Rose, non più – si chiede se potrà ancora farsi chiamare così, un giorno).
Non può affrontare chiunque ci sia lì fuori – non ora, non in questo modo.

Si alza, a fatica, tanto malferma sulle gambe che crede di non riuscire a reggersi in piedi – proprio lei, che sulle sue gambe fa affidamento più che su qualsiasi altra cosa (correre, correre via, lontano – scappare dal buio).
Imposta una destinazione e un tempo completamente a caso, sperando che la nave la porti solo via.

Poi torna a inginocchiarsi accanto al suo corpo freddo, attende qualcosa e trema appena nel silenzio.

 

Dopo – quando la sorpresa e il panico erano passati in secondo piano e i Dalek erano stati spazzati via come briciole da una tovaglia –, Rose aveva provato.
Un bacio – serviva solo un bacio, e lui sarebbe stato salvo, come in una fiaba.

Lei sarebbe stata bene – non sarebbe più stata lei, ma sarebbe stata bene.
Gli si era avvicinata con urgenza, prendendogli il volto fra le mani – familiarità e gratitudine e affetto –, e aveva
provato ad aiutarlo.

Lui si era scostato di colpo e lei l'aveva guardato come se fosse impazzito – dritto in quegli occhi che non erano più azzurri, fuoco e potere e qualcosa di incomprensibile e immenso.

«Lascia che lo faccia – starò bene.» lo aveva pregato – lei che ordinava e decideva e affermava, proprio lei –, lo aveva pregato.
«Non è così che deve finire.» aveva risposto lui (Nine dal nome incredibilmente comune, rivelato una notte a porte chiuse – il grande Lupo Cattivo sempre dietro di loro, sempre a vegliare sul loro sonno), e le aveva sorriso con la disperazione celata dietro le labbra dischiuse.

«Non te ne andrai oggi, Rose

 

Atterrano malamente, ovunque siano finiti – abbastanza da scuoterla dal torpore dei suoi pensieri anestetizzati (ci sono tante cose pratiche da sistemare e lei non riesce a concentrarsi su nessuna di esse, non può e basta e si chiede cosa succederà, poi, senza trovare risposte neppure da quella sua mente geniale e- inutile, non è riuscita a salvare lui, è tutto così inutile, perché Rose aveva promesso).

 

L'aveva riportato dentro, dopo – quasi a forza, prendendolo per mano senza lasciarsi intimidire dalla sua pelle che non era mai stata così calda (si era trattenuta dal mormorargli di correre, come aveva fatto tanto tempo prima, così tanto).
Non appena entrati la TARDIS aveva richiuso la porta alle loro spalle, e lui era caduto.

Era caduta con lui, Rose, tenendo il suo capo in grembo, dispensando carezze per alleviare il suo dolore, l'angoscia che le induriva i lineamenti, mentre lo cullava (come un bambino – solo e impaurito e oh, anche lei aveva paura).

«Lascia che ti aiuti.» gliel'aveva mormorato sottovoce, la pena che le distruggeva l'anima, «Lascia solo che ti aiuti – andrà tutto bene. Starò bene, dopo – non... non sarò proprio io, ma starò bene, e potremo andare... potremo andare da qualche parte, qualche bel posto.» prende un respiro profondo e tremante (anche le mani le tremano, quando lui le prende fra le sue).
Continua, non si lascia distrarre nonostante non ci sia più tempo – sabbia, è come sabbia che scorre.

«Potremmo... Barcellona. Andremo su Barcellona. Il pianeta, non la città – hanno dei cani senza naso. T'immagini?» ride, lei, una risata sull'orlo dell'isteria che non porta niente di buono – la cosa più assurda, in realtà, è che ride anche lui.

Anche se sta morendo fra le sue braccia e non lascia che lei lo salvi – anche se può farlo, può farlo, perché è questo che fa, Rose, salva la gente (e a volte non ci riesce) –, ride.

Un'ultima volta (per lei).

 

Alzarsi la prima volta è stato difficile, ma farlo una seconda è quasi impossibile – ci prova comunque, perché deve vedere dove sono finiti, deve capire, potrebbero essere in pericolo (potrebbe, potrebbe, non c'è più un noi, non c'è più lui), e alla fine ci riesce.

Vuole affacciarsi solo un secondo, solo un istante, ma quando apre la porta, la sofferenza la colpisce come un fendente di spada.
Non vorrebbe crederlo, ma quando solleva lo sguardo al cielo e lo vede indaco, non ha più molte speranze.

Il cielo di Barcellona è splendido, con le sue tonalità di viola.

 

Aveva immaginato che sarebbe stato simile a una rigenerazione – violento e improvviso e pericoloso.
Non lo era – era stato graduale, silenzioso, altrettanto doloroso.

Era stato quel qualcosa di immenso e incomprensibile, quella luce, quel fuoco, che piano piano si... si scioglieva, come neve, se ne andava, e lo lasciava sempre più se stesso e sempre meno sveglio.
Era stato come vederlo addormentarsi.

Gliel'aveva chiesto un'ultima volta, pensando di farlo comunque – pensando che questa volta non avrebbe potuto tenerla lontana o obbligarla in nessun modo, che era troppo debole (che forse non c'era più niente da fare).

«Lascia che ti salvi. Ti prego.» lui aveva socchiuso le palpebre – era stanco, lo vedeva, Rose, e ne era terrorizzata.
Eppure le aveva sorriso – le aveva sorriso, come fosse stato un giorno come gli altri, come se quello fosse un sorriso come gli altri.

I suoi occhi erano di nuovo azzurri.

«Rose, prima di andare... volevo solo dirti che sei stata fantastica. Assolutamente fantastica. E sai una cosa?» la guarda fisso negli occhi, e il sorriso si fa un po' più ampio, anche se gli legge dentro la sofferenza bruciante, anche se... anche se non c'è quasi già più.
«Lo sono stato anche io.3»

 

Rimane a osservare il cielo per quelli che le paiono giorni e forse sono secondi – un tempo molto lungo, crede, e nemmeno si rende conto di essere uscita, di aver posato i piedi sulla sabbia (ci sono mari rossi come il fuoco, su Barcellona).
Si riscuote molto più tardi, l'indaco è già diventato un profondo blu di Persia che di viola non ne ha quasi più – si volta, solo per tornare indietro e trovare la sala comandi vuota.

Lui non c'è più – la TARDIS ha provveduto a portarlo chissà dove, chissà come, e Rose non vuole soffermarsi sui modi e le modalità, non vuole capire perché (se ci provasse impazzirebbe – del tutto, questa volta).

Non gli hai detto addio, pensa, confusamente.
E non l'ha fatto davvero.

 

Si lascia scivolare contro la porta, rannicchiandosi, le ginocchia strette al petto, la testa reclinata per non vedere – non vedere la sala vuota, non pensare che la sua nave è di nuovo troppo grande per una persona sola, non ricordare il suono della sua voce che rimbomba per i corridoi senza risposta, non riportare alla mente l'azzurro (non potrà più guardare il cielo della Terra senza pensare a lui).

E, dopo molto tempo – dopo molto, moltissimo tempo –, Rose rammenta cosa si prova a piangere davvero.


 

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Note tecniche:

1 Avrei voluto chiamarla come la nonna di Susan, ma il nome è impossibile da trovare.
Poi anche l'idea di chiamarla come la moglie di Eccleston si è rivelata impraticabile - non per bashing o altro, non sapevo che pesci prendere.
Perciò mi sono arresa e ho preso Renée, che è un mezzo gioco di parole perché in francese è il participio passato femminile di “renaître”, “rinascere” (che a sua volta viene dal latino “renatus”, “rinato”, da cui derivano i nostri Renato e Renata). Uno volendo potrebbe vederlo come un accenno alla rigenerazione di Rose, un nuovo inizio dopo la Guerra, oppure a una rinascita metaforica di entrambi.

2 Frase ricorrente di Amelia Sachs, personaggio creato dalla mente contorta di Jeffery Deaver. Deaver e il Dottore non c'entrano l'uno con l'altro nemmeno per sbaglio, ma questa mania di Amelia mi ha sempre fatto pensare a lui, perciò eccoci qui.

3 E io sono stata crudele, ma non potevo non farlo. *perdonatemi, se potete*

   
 
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