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Autore: Rosebud_secret    28/07/2015    5 recensioni
Un altro tuono e lui torna a guardare il mare, stringendo un poco quel filo. Gli ricorda qualcosa che ha visto, una volta, ma non riesce a focalizzare.
Un imprecazione soffocata lo fa sorridere, quindi si volta verso il sentiero ed eccolo lì, John, affannato e con il viso rosso di fatica. Non si abituerà mai a vedere quei baffi, ma riconosce che in vecchiaia gli donano. Gli conferiscono un aspetto elegante e distinto. Non glielo ha mai detto, e neppure ha intenzione di farlo. Attende con pazienza che recuperi fiato.
“Io davvero non capisco perché tu debba venire sin qui!”, esclama il dottore, “Ci sono posti più comodi. Come il salotto!”
“Ma non altrettanto belli.”
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John, Watson, Mycroft, Holmes, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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I ricordi sono la cosa più pericolosa.
Possono fare male, come possono rappresentare l’unico angolo felice in un palazzo ormai decadente. Le mura sono piene di crepe, l’edera ha spezzato l’intonaco e, come le dita di un gelido spettro, sta sgretolando quel che resta di ciò che per lui è sempre stato un rifugio.
Le api ronzano attorno all’arnia mentre osserva la sua stessa mano raggrinzita, la guarda, la gira e non riesce a riconoscerla. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che l’ha osservata? Tre decenni? Un mese? Pochi istanti? I sentimenti sono una distrazione potente, al punto che persino la linearità fittizia di uno scorrimento concatenato si perde nei fumi di una memoria ormai sin troppo fallace.
Le spalle gli dolgono, pioverà. Questione di giorni, un paio, poi il dolce tepore dell’estate cederà il posto alle prime piogge dell’autunno. Il cielo terso e una lieve brezza accompagnano la sua solitaria passeggiata, si stringe le mani dietro la schiena incurvata da sin troppi anni. Non aveva fatto granché per garantirsi una lunga autoconservazione. Gli era capitata. Avrebbe dovuto esserne grato, ma la gratitudine non era nella sua natura. Non avrebbe neanche saputo a chi rivolgerla. Alla distrazione di qualche dio? Al fato? Alla genetica? L’aspettativa di vita, in fin dei conti, si stava allungando per tutti quindi era ragionevole supporre che non avrebbe fatto eccezione per lui.
Intraprendere la salita che porta alla cima dell’altura, però, è sempre difficile. Un passo dopo l’altro trascina le sue vecchie gambe nella rigogliosa boscaglia, dove l’ombra gli da non poco refrigerio. L’affanno gli serra i polmoni e ricorda com’era quando la giovinezza ancora permeava le sue membra. Non c’era stanchezza allora, non c’era fame, non c’era fatica, c’era solo il brivido di un’esistenza altalenante tra picchi adrenalinici e baratri di tedio.

La noia… ormai non è più così molesta. È diventata una vecchia amica che lo accompagna e lo consiglia. Gli manca persino, in momenti come quello. Si appoggia ad un tronco per riprendere fiato e poi si asciuga il sudore dalla fronte.
Quanti altri anni ci saranno? Non saprà mai quale sarà l’ultimo e quest’incertezza lo rende sempre più inquieto.
Riprende il cammino, la terra e i sassi rendono scivoloso l’incedere, ma per un po' non dovrà preoccuparsene; poi finalmente scorge la fine della salita, dove c’è quella piccola cascina che ha costruito con tanta fatica, quando ancora il corpo glielo permetteva. Si siede sulla panca di legno, rifugge l’impazienza e, invece di abbassare lo sguardo, lo rivolge verso l’orizzonte. L’oceano è illuminato dai raggi del sole, placido e tranquillo continua il suo moto, ricordandogli la sua esistenza mancata. Il tramonto è ormai prossimo, tanto che non è riuscito a prevederlo.  I suoi occhi restano aridi al ricordo, perché le lacrime sono ormai state tutte versate, o forse non ancora.
Difficile stabilirlo.
Smuove i sassi con la punta delle scarpe ed ecco che lo vede: un piccolo filo, si china con fatica per prenderlo tra le dita. È cotone, cotone scadente. Appena lo tira un poco, però, il filo prosegue, come se fosse sepolto nel terreno. Con lo sguardo segue il piccolo solco che si crea nella polvere, man mano che trae a sé il sottile filo e lo attorciglia sull’indice.

 
Non dovrebbe trovarsi lì 
È fuori posto.
Tutto sta crollando

 
Resta con me!
 
Un tuono rompe il silenzio ma  non ci sono nubi neppure in lontananza. Piccole gocce di sangue si infrangono sul terriccio arido, le conta.

Una
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette

 
Sette gocce, sette secondi prima di portarsi la mano alla tempia e notare che non sta affatto sanguinando. La sensazione delle rughe sotto i polpastrelli è bizzarra, lo incuriosisce. In fin dei conti non gli importa perché stia tuonando a da dove venga quel sangue. È tutto così sereno, così tranquillo.
 
No! No!
 
Un altro tuono e lui torna a guardare il mare, stringendo un poco quel filo. Gli ricorda qualcosa che ha visto, una volta, ma non riesce a focalizzare.
Un'imprecazione soffocata lo fa sorridere, quindi si volta verso il sentiero ed eccolo lì, John, affannato e con il viso rosso di fatica. Non si abituerà mai a vedere quei baffi, ma riconosce che in vecchiaia gli donano. Gli conferiscono un aspetto elegante e distinto. Non glielo ha mai detto, e neppure ha intenzione di farlo. Attende con pazienza che recuperi fiato.

“Io davvero non capisco perché tu debba venire sin qui!”, esclama il dottore, “Ci sono posti più comodi. Come il salotto!”

“Ma non altrettanto belli.”, ribatte, indicando il sole che comincia a tingere il grande blu di quell’oceano sconfinato.

L’altro sbuffa, prima di raggiungere l’improvvisata panchina. Si siede accanto a lui, incurante di scontrarlo.
“E da quando ti preoccupi della bellezza?”

“Da quando un bastone ha creato il perfetto angolo contro la parete.”

John abbozza e cerca di nascondere quel sorrisetto che lui conosce sin troppo bene. Un’intera vita insieme, e ancora sa come metterlo in imbarazzo.

“Non hai mai lasciato che Mrs Hudson ci togliesse le ragnatele.”

“Erano parte di quell’opera d’arte. Geometria naturale.”

Il buon dottore sbuffa ancora; ma è più un atteggiamento, una facciata, non reale fastidio. Sherlock lo sente appoggiare la testa alla sua spalla.

 
Sherlock!
 
Un altro tuono copre il rilassante suono del vento tra le frasche.
“Hai paura?”, domanda a John, sollevando un braccio per carezzare quella corta chioma argentea.

“Non dovremmo essere qui. Non così.”

Sherlock sussulta un poco, ma non allontana la mano. Chiude gli occhi, sereno, mentre passa le dita tra i morbidi capelli.
“E perché no? Forse non ti piace il posto che ho creato per te? Posso cambiarlo in ogni momento.”
Sherlock solleva le braccia, e le fa scorrere sull’orizzonte, inclinandolo quattro volte. Sposta il sole, facendoselo tramontare nel taschino. Il colore del cielo è cambiato, ed ora si trovano in Baker Street, per come appariva la mattina del tre settembre duemiladodici.
“Va meglio adesso?”

“Non è questo. Ti sei arreso. Devi svegliarti, Sherlock.”

La paura si fa strada dentro di lui, gli serra la gola, le viscere e gli occhi gli si inumidiscono.
“E chiudere il cerchio? Siamo al sicuro, qui. Siamo insieme.”

Non puoi farmi questo! Non di nuovo!
 
“Non lo senti? Non mi senti? Questo non è reale. E non è neanche eterno. Tu puoi fermarlo.”

“Ma questo tramonto è sublime.”, gli risponde con un filo di voce, facendo brillare il sole sul proprio palmo.
Sa che ha ragione. Sa che quella che sta vivendo non è altro che una rappresentazione che lo ha travolto, ma l’illusione di potercisi perdere è svanita ormai.

 
Fa paura
 
“Mi aiuti?”

“Da qui alla fine del mondo.”

“Allora siamo vicini.”

Sherlock solleva la mano con cui ancora stringe quel filo teso verso l'indefinito e John intreccia le dita con le sue. Stanno tremando entrambi, ma c’è risolutezza in loro. Speranza, forse.
Insieme tirano un poco e subito la realtà si infrange. Frammenti di tramonto vorticano attorno a loro, poi anche il salotto di Baker Street si sgretola e precipitano, stretti l’uno all’altro.

“No, ti prego! Non lasciarmi!”, geme, mentre anche il viso dell’amato compagno inizia a disgregarsi in polvere.

John sorride e posa sulla sua bocca un bacio intangibile.
“Sarò dall’altra parte…”

 
Promesso?
Promesso. Croce sul cuore, potessi morire

 
Sherlock! Ti prego!
 
Le palpebre si spalancano e il dolore dell’aria che torna a riempirgli i polmoni lo sconvolge. Tossisce, prima di mettere a fuoco il filo del colletto sgualcito della camicia di John e poi il suo volto. Può leggere il panico nei suoi occhi trasformarsi in improvviso sollievo.

“Sei qui…”, gli sussurra, stringendo la sua mano.
Essere disteso tra le sue braccia lo rassicura, lo fa sentire bene, nonostante l’acuto dolore alla tempia e il freddo. Sebbene si sforzi non riesce a richiamare alla memoria quali avvenimenti li abbiano condotti lì, ma non gli interessa.

“John…”

“Devo portarti fuori di qui. Sei quasi affogato e hai sicuramente un trauma cranico.”, lo interrompe il dottore, guardandosi intorno, preoccupato.

Qualcuno li bracca, il pericolo è tutt’altro che passato. Sherlock lo sa, lo legge sul suo viso. Stringe la mano ancora un poco, cercando di ignorare la fede sul suo anulare. Non vuole pensare a questo adesso.

“Io ti amo…”

John, concentrato a guardare un punto alla sua sinistra, volta il capo di scatto, sconvolto.
“Cosa?!”, esclama.

E Sherlock vorrebbe rispondergli. Sta per farlo, sta per ribadire il più difficile e, al contempo, il più semplice dei concetti umani, quando un’ombra li sovrasta entrambi. Non ne vede il volto, ma riconosce la pistola. Un grido gli muore in gola, ma non l’avrebbe udito lo stesso, sovrastato dal fragore dello sparo.
Il cervello di John schizza nell’aria, può seguire le gocce, smette di contarle solo quando il corpo dell’altro gli crolla addosso.

“Questo è per Jim.”, sente, insieme a passi che si allontanano.

Non sa quanto tempo stia passando. Non ha le forze di muoversi, né quelle per pensare. Il dolore è totale e lui è spezzato. Non ha paura che l’assassino lo uccida, anzi lo desidera. Non può andare avanti.
Non adesso.
Non così.
Non da solo.
Ha perso la partita.
Eppure non c’è traccia del killer di cui non riesce neppure a rammentare il nome, e le sue forze sono sempre meno.
D’improvviso qualcuno solleva John, il cadavere di John. Lui però se ne accorge troppo tardi.

“N-no..!”, geme, cercando di aggrapparsi ad una mano fredda.
Non vuole separarsi da lui. Non vuole più essere solo, ma non ha energie per opporsi e tutto si fa buio.



“Come sta?”, Mycroft lo chiede, ma gli basta guardare il viso del fratello, al di là del vetro, per avere una risposta.
Ascolta, infatti, distrattamente le parole del medico.

“... ma potrebbero esserci dei margini di miglioramento.”, lo sente concludere.

“No.”, mormora, “Adesso c’è solo una panchina spalancata su un orizzonte vuoto…”



N.d.A.: Erano eoni che non scrivevo qualcosa per il fandom di Sherlock, devo ringraziare Koa e il suo contest amichevole su Facebook per questa one-shot. Gli obblighi erano piuttosto semplici, la storia doveva ispirarsi alla fan-art che ho usato come banner (che era pulita, senza mastruzzi grafici), essere angst, comprendere il death!character e non superare le 2500 parole di tetto massimo. Mi sono divertita molto a scriverla e spero che ci saranno altre occasioni. Quindi, ancora grazie, Koa ^^!
Ringrazio, inoltre, i miei fidi revisori di testi: Orlando e Miele_e_Cianuro che si propinano con pazienza ogni cosa mi salti per la testa. Vi adoro, ragazzi <3! Sorry-not-so-sorry for Jawn, Miele (LOL) *A distanza s'ode ancora l'eco dei suoi NOPE*.
In conclusione, ringrazio anche tutti coloro che hanno letto questa one-shottina senza impegno e chi la recensirà.
Un bacione,
Ros.

 
   
 
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