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Autore: ChiiCat92    13/08/2015    3 recensioni
"Il mio nome è Axel.
A-x-e-l, got it memorized?
Bene, perché io non riesco a memorizzare niente altro.
Da quando è successo, il mio cervello stenta a ripartire.
Una volta ho sentito un medico paragonarmi al motore rotto di una macchina. E non sempre i motori si possono riparare."
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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Ho scritto questa storia praticamente mandando a loop questa canzone...consiglio a chi ha voglia di metterla come sottofondo per tutta la lettura, rende! 

https://www.youtube.com/watch?v=VwpZjzfiPR4 

 

 

- Stay in Memory -

 

Il mio nome è Axel.

A-x-e-l, got it memorized?

Bene, perché io non riesco a memorizzare niente altro.

Da quando è successo, il mio cervello stenta a ripartire.

Una volta ho sentito un medico paragonarmi al motore rotto di una macchina. E non sempre i motori si possono riparare.

Il mio sembra essere in una situazione critica, tanto da non farmi uscire dall'ospedale neanche per poche ore.

Come biasimare i dottori? Potrei dimenticare di essere ricoverato in ospedale e vagare disperso per le strade di una città che non riconosco.

Axel.

Got it memorized?

Devo ripetermelo in continuazione.

È l'unica cosa che so di me, l'unica cosa che rimane impressa nella nebbia spessa e fitta che mi avvolge i pensieri. Quattro lettere marchiate a fuoco nel tessuto danneggiato dei miei neuroni.

Sono messo così male che non ricordo neanche quanto sono messo male. Alcuni medici, quelli più giovani almeno, provano un inaspettato senso di compassione nei miei confronti, tanto da venire nella mia stanza per cercare di farmi tornare la memoria, o quanto meno di stimolarla, raccontandomi qualsiasi cosa gli passa per la testa. I loro racconti durano nella mia memoria qualche minuto, dopo di che il vuoto torna ad opprimermi e la calma dell'ignoranza prende il sopravvento.

Che la mia mente voglia proteggermi da quello che ero prima di finire in ospedale?

Cos'è successo di così brutto nella mia vita da rendermi impossibile il ricordarmi persino di me stesso?

Axel. Axel.

So che c'è stato un incidente, quello è uno dei pochi, vaghi, sfocati ricordi che mi sono rimasti oltre al mio nome.

E d'altronde, non ci vuole un genio per capire che ho avuto un incidente. Dubito che le persone normali siano come me, senza memoria come gusci d'uovo spaccati in due.

La fascia che mi comprime la testa, il braccio rotto, la flebo continuamente attaccata a quello sano, il lettino d'ospedale, i monitor con il loro fastidiosi bip bip: anche senza memoria lo so che ho avuto un incidente...almeno finché rimango in questa stanza. Non ricordo tutto il resto, ma questo è così lampante che non posso ignorarlo.

Non so quanto tempo fa è successo, non so come è successo, non so se qualcun altro è rimasto coinvolto. Se provano a raccontarmelo lo dimentico qualche istante dopo. Scandisco il tempo grazie alle contusioni e ai lividi che ho un po' dappertutto e che, lentamente, guariscono.

Ogni giorno, il corpo sembra migliorare un po' di più, i tagli si cicatrizzano, i lividi da violacei diventano giallastri, le ossa e i muscoli fanno meno male. È la mente che non vuole riprendersi.

Ci vorrà più tempo, i danni non sono fisici, ma psicologici.” questo lo ricordo, l'ha detto il medico che mi ha in cura. E anche se dovessi dimenticarlo, c'è un post-it appiccicato sul mio comodino che fa da promemoria, e con lui una serie di altri.

Non so chi li ha scritti; visto che ho il braccio destro ingessato immagino di non essere stato io, ma considerato il fatto che non so se sono mancino, destrorso o ambidestro, c'è sempre una possibilità che sia stato io a farlo.

“Axel” è scritto sul primo post-it, più vicino degli altri, all'altezza dei miei occhi quando appoggio la testa sul cuscino. Così è la prima cosa che vedo la mattina quando mi sveglio, e l'ultima la sera quando mi addormento.

“Vittima di un incidente”, “Sei in ospedale”: sono alcune delle scritte nere che spiccano sui foglietti gialli.

Non mi hanno trovato documenti addosso, che io sappia, e non sono riusciti a chiamare nessuno che sapesse chi fossi. Neanche i medici hanno idea di chi io sia e si aspettano che mi svegli un bel giorno e glielo dica io stesso.

Axel, per ora è tutto quello che ho, il mio nome, ed è anche quello che mi ostino a dire ai medici.

Sembra quasi che non mi credano.

Ma d'altronde che posso farci?

Non ricordo nient'altro.

Si sono accertati con diversi esami che il mio cervello non sia contuso o danneggiato, e a parte un trauma cranico non hanno trovato niente che giustifichi la mia totale perdita di memoria, sia a lungo che a breve termine. Tutto quello che è rimasto sono sensazioni, emozioni, reazioni istintive a qualcosa che il mio corpo riconosce ma la mia mente no (che, come dice un post-it, si chiama “memoria sensoriale”), e il mio nome.

Mi sembra di essere un bambino troppo cresciuto in un mondo che dovrei conoscere a menadito, ma che pure mi è estraneo.

Sono brevi flash quelli che mi fanno capire di non essere una completa tabula rasa, che dentro la mia testa c'è ancora qualcosa e che quel qualcosa è solo stato scollegato al resto, come isolato.

Per esempio, all'ora di pranzo, quando sono costretto a mangiare la sbobba dell'ospedale, so per certo di aver già sentito quel sapore sulla lingua e che c'è di molto meglio, ma non ricordo cosa, se provo a evocare un ricordo, va tutto in tilt e dimentico tutti gli avvenimenti della giornata.

È un equilibrio sottile, e non voglio perdere quel poco di coscienza che ho di me stesso.

Non mi è permesso guardarmi allo specchio. Quello del bagno è stato portato via ancora prima che mi svegliassi. A quanto mi hanno detto, guardare la mia immagine potrebbe comportare un trauma aggiuntivo alla mia già fragile mente e non essere di nessun aiuto ai fini del recupero della memoria. Anche questo è diventato un post-it attaccato sul comodino: “Niente specchi finché non guarisci”.

È parecchio frustrante non sapere che aspetto ho, come appaio agli occhi di chi mi guarda. È frustrante perché questo mi fa sentire privo di identità, come se fossi dissociato dal mio stesso corpo.

Sono Axel, ma com'è fatto Axel?

Lo so e non lo so al tempo stesso.

Sono biondo, rosso, bruno? Di che colore sono i miei occhi? Quanto sono alto quando sto in piedi e non sdraiato in un letto di ospedale? Quanto posso correre veloce, come suona la mia risata, quanto sono intelligente, quali sono le cose che rendono Axel...Axel?

Non lo so, non lo ricordo.

Sono Axel, ma è come se non lo fossi.

Se qualcuno a me caro venisse a trovarmi, lo riconoscerei? Lui o lei riconoscerebbe me?

Mi ricorderei del rapporto tra noi o sarebbe solo causa di emicrania e di annientamento di quel che resta della mia coscienza?

Posso pormi le domande, ma non posso cercare le risposte.

Mi sono perso inevitabilmente nel labirinto contorto che ha creato l'incidente. E nessuno riesce a trovarmi, neanche me stesso.

 

Il dottore che ogni giorno viene a controllarmi è sempre lo stesso, la stessa faccia, gli stessi occhi, gli stessi stinti capelli biondi, ma ogni volta che lo vedo è come la prima. Mi stupiscono i dettagli del suo viso, il suo modo di parlare, mi stupisce la forma esile e nervosa delle sue mani mentre prende appunti su una cartella clinica.

La domanda che mi pone è sempre la stessa:

- Come va oggi? -

E la risposta che gli do è sempre la stessa.

- Come ieri. -

Anche se suona quasi come una barzelletta: non ricordo quasi niente di ieri, e domani non ricorderò quasi niente di oggi.

Il medico prende appunti con un sospiro forse di rassegnazione. Chi non si rassegnerebbe?

Quando il trauma cranico sarà del tutto guarito e avranno la conferma che non è stata la botta in testa ad avermi fatto diventare senziente quanto una zucchina, di certo mi spediranno nel reparto di psichiatria, lasciando la stanza di terapia intensiva per qualcun altro. E ho come l'impressione che mi tratteranno sì come un malato, ma di tutt'altro genere.

- Hai ricordato qualcosa, di qualsiasi genere? -

- Non mi piacciono le verdure. - un baluginio si accende negli occhi del medico appena lo dico. Sentire la mia voce mi spaventa sempre, tanto che sobbalzo senza farci più caso. È così che suona? Indico un post-it attaccato sulla testiera del letto. - Devono avermele date da mangiare. - sul foglietto c'è scritto “Le verdure fanno schifo”.

L'entusiasmo del medico si spegne così come si è acceso, d'altronde non è un ricordo mio, è solo il ricordo dell'Axel che ero ieri, che ha mangiato le verdure e non ne è stato soddisfatto. L'Axel che sono oggi non ricorda che non gli piacciono, pur con un vago senso di disgusto sulla lingua.

- Capisco. -

Lui scrive qualcosa sulla mia cartella clinica.

Vexen. No, non mi ricordo il suo nome, è solo scritto sul cartellino che ha appuntato sul camice bianco.

Quanto meno non ho dimenticato come si legge e come si scrive. Questo mi rende un po'...più avanti di un bambino, no?

- Allora torno domani a vedere se ci sono miglioramenti. -

- Ovviamente. -

Ci vedremo domani per la prima volta, dottore.

Non faccio neanche finta di nascondere il pensiero, tanto lo so che lui l'ha pensato prima di me.

Lo osservo uscire, rigido, dalla stanza. Probabilmente sarò qualcosa come l'unico, grande fallimento della sua carriera a giudicare da come se ne va deluso.

Mi piacerebbe dargli qualche soddisfazione in più ma...

 

Axel.

Got it memorized?

La testa mi fa male, sempre. L'emicrania è il sottofondo continuo della mia giornata. Se c'è una cosa che ricordo è il dolore, perché non mi abbandona mai.

L'ora di pranzo è annunciata da un odore caldo e denso, strano, che proviene dai corridoi. Qualcosa che sa di cibo che una volta era stato commestibile, e che poi, una volta ridotto ad una massa informe, è stato portato nelle cucine dell'ospedale in modo che fosse servito ai pazienti.

Mi chiedo perché nessuno si lamenti.

Bhè, forse qui dentro stiamo tutti troppo male per badare a quello che ci mettono nel piatto.

Io d'altronde domani l'avrò dimenticato.

La signorina che porta il carrello del pranzo è adorabile, il suo sorriso illumina la stanza quando entra. Piccola e biondissima, sottile, mi stupisce che riesca a spingere quel carrello enorme.

- Buongiorno. -

Mi dice, dolcissima, mentre i suoi occhi blu si posano sui miei.

Chissà cosa vede. Chissà se quello che vede le piace.

Ricordo vagamente di averla già vista (ieri, l'altro ieri, tre giorni fa) ma non ricordo niente di preciso.

Il mio sguardo scivola sul cartellino appuntato sul suo petto.

Mi chiedo se dovrò passare tutto il resto della mia vita così, cercando i cartellini coi nomi sui vestiti degli altri per poterli riconoscere, e spaventarmi quando non ce l'hanno.

Naminè.

- Buongiorno. -

Rispondo piano, non vorrei disturbare il mal di testa, casomai capisse di non essere ben voluto e se ne andasse.

Lei mi sorride e poggia sul tavolino il vassoio con il pranzo.

- Non ti ho fatto mettere verdure, contento? -

Oh, qualcuno che ricorda quello che mi piace e quello che non mi piace al mio posto. Confortante.

- Grazie, l'ho scritto anche sul post-it quindi devo proprio odiarle. -

Cerco di sorridere imitando il sorriso di lei. Non sono sicuro di sapere come si sorride, e in ogni caso non so come appare un sorriso sul mio volto, non vorrei spaventarla in qualche modo.

- Sì, l'abbiamo scritto insieme. - è gentile, non ostinata come i medici, e non mi rinfaccia il fatto che non riesco a ricordare niente di niente. Anche se, per qualche ragione, non riesco a trovarla carina. Bhe, carina è carina, ma non carina. È una sottile differenza che non riesco a spiegarmi. - Assaggia quello che ti ho portato oggi, magari scriviamo un altro post-it, che dici? -

- Non male come idea. - sollevo il coperchio che tiene nascosto il pranzo e poi faccio una smorfia. Purè di patate, della carne che so essere carne solo dall'odore, un piatto acquoso di pastina che non ha né odore né colore e una coppetta di frutta tagliata a cubetti. - Bhe, qui mi sa che un post-it non basta. -

Lei ride, portando una mano davanti alla bocca piccola. È carino questo modo che ha di trattarmi come se fossi una persona normale e non un cerebroleso che tra qualche ora si dimenticherà di lei.

Se ricordassi com'è avere degli amici potrei dire che lei è mia amica, ma non ne sono del tutto sicuro.

- Mi spiace, se cucinassi io non ti arriverebbe questa robaccia, giuro. -

- Scommetto che cucini benissimo. - e scommetto che questa discussione l'abbiamo già avuta, lo leggo sul viso di lei che all'improvviso cambia, si fa più triste. Di conseguenza mi intristisco anch'io. - Scusa, te l'avrò detto un migliaio di volte. -

- Oh, non fa niente. - torna a sorridere, ma ormai è fatta: la tristezza ha raggiunto i suoi occhi e so per istinto che non è una buona cosa - Lo scriviamo su un post-it. -

- Finirà che questa stanza sarà sommersa dai post-it. Post-it al posto dei muri, post-it al posto del letto. Anch'io diventerò un post-it! Anzi, guarda. - stacco il foglietto giallo con su scritto “Axel” dal comodino e me lo attacco sul petto - Fatto. -

A quel punto scoppia a ridere in modo così spontaneo e sincero che in automatico sento gli angoli delle labbra che si tendono all'insù.

Scuote la testa e i capelli biondo platino seguono il movimento.

- Quando sarai guarito e te ne andrai, mi mancherà parlare con te. -

- Tranquilla. - mi picchietto la tempia con un dito - Qui dentro ancora non funziona niente, la guarigione è piuttosto lontana. -

Si zittisce all'improvviso. Non c'è tristezza nei suoi occhi, quello che vedo è un sentimento che non riconosco.

Senso di colpa” è il suggerimento improvviso del mio cervello, cosa che scatena una fitta di dolore dritta alle meningi.

Perché prova senso di colpa? Perché adesso? A che proposito?

Sto per chiederle “Tutto bene?” ma lei mi prende la mano e la stringe, così, di colpo. Il contatto fisico quasi mi fa venire un brivido. Nessuno mi tocca in questo modo...confidenziale. I medici mi tastano come se fossi un pupazzo e non una persona.

- Ascoltami...c'è una persona che tu devi assolutamente incontrare. E non puoi, non puoi dimenticartene. -

- Di cosa stai... -

Ahi. La testa. Il dolore è tanto insopportabile che mi sembra di perdere i sensi.

Naminè mi guarda, accorata, e mi infila tra le mani una fotografia consumata, strappata agli angoli come se fosse scampata ad un brutto incidente.

Un ragazzo dalla folta chioma rossa, occhi verde intenso, e uno più piccolo, biondo, con occhi blu. Si abbracciano, sorridono alla macchina fotografica. Sembrano felici.

- Ti prego. Devi ricordati di lui, non lasciarlo andare. Ricordati di lui! -

Più i miei occhi vagano sulla foto, più mi sento scivolare nel nulla, come se il terreno mi stesse ingurgitando, trascinandomi verso il basso.

Ricordati.

È facile dirlo.

Ricordati di lui.

Il dolore è accecante, come il sorriso del ragazzino biondo, come la felicità negli occhi del rosso.

Come i fari della macchina in controsenso che mi viene addosso.

Risate.

Promesse bisbigliate all'orecchio.

Quella confusa e delicata sensazione che prende tutto il corpo quando si bacia per la prima volta.

Axel.

Got it memorized?

Poi un rumore assordante, devastante, mi squarcia i timpani.

Qualcuno urla. Sono io?

Stridore di metallo, un dolore atroce, e buio.

Buio, buio, buio.

Cado giù, giù, giù.

Sempre più giù, sempre più in basso, tocco il fondo di un baratro pieno di ombre che si contendono la mia coscienza.

E all'improvviso non c'è più niente.

 

*

 

Il mio nome è Axel.

A-x-e-l, got it memorized?

Bene, perché io non riesco a memorizzare niente altro.

Non so da quanto tempo sono ricoverato in ospedale, però mi hanno appena tolto il gesso.

Quanto tempo ci mette un osso a guarire? E un cuore?

Il mio braccio destro non è più uguale al sinistro, o almeno, ai miei occhi appare così. Sembra così magro e pallido rispetto all'altro, come se appartenesse ad un'altra persona.

Ho due braccia, e solo uno mi sembra il mio, ma quale?

Il medico, stamattina, mi ha chiesto se mi sentivo triste. Non ricordo com'è sentirsi tristi, quindi ho risposto di no. Non mi sembrava convinto.

Mi chiedo come si sentirebbe lui a stare tutto il giorno sdraiato in questo letto, senza potersi quasi alzare e muovere, mentre tutta la sua vita è stata succhiata via dal suo cervello. Gli chiederei io, a quel punto, se si sente triste.

Se sentirsi tristi è questa sensazione scura e opprimente che schiaccia il cuore e il respiro e rende la testa pesante, allora sì, mi sento triste.

Perché mi sento tanto triste?

Non solo per l'amnesia, perché altrimenti avrei dimenticato in fretta di esserlo.

C'è qualcos'altro, qualcos'altro mi rende triste.

Piove, non è una brutta giornata solo per me. Il suono della pioggia è l'unica cosa che copre sia i miei pensieri che il bip bip delle macchine.

Devono continuamente controllarmi il cuore. Forse vogliono cogliere il momento in cui tornerà intero, sano, guarito al suo posto, oppure quello in cui cadrà definitivamente a pezzi, schiacciato da questa tristezza.

Mi piace pensare che i medici vogliano il mio bene, anche se è così difficile farlo. Però qualcuno che ci mette tanto impegno per tenermi vivo non deve essere così senza cuore, no?

Scosto piano le coperte e scendo dal letto, troppo alto per me, e quando poggio i piedi a terra mi sembra quasi di non riuscire a reggermi dritto, per questo mi appendo al muro per un attimo, il tempo che la stanza smetta di girare.

Sotto il pigiama di tela che mi hanno dato, so che il mio corpo è estremamente magro. Credo di essermi rifiutato di mangiare negli ultimi giorni, anche se non lo ricordo è il mio stomaco a mandare chiari segnali: gorgoglii sommessi e borbottii di qualcuno davvero arrabbiato.

Giuro, se sapessi perché non mangio te lo direi, stomaco, ma a quanto pare non c'è verso di ricordare neanche questo.

A piccoli passi raggiungo il bagno, ho solo bisogno di sciacquarmi il viso. Tornare a usare il braccio destro è così strano che devo forzarmi di farlo, immagino che questo voglia dire che ho tenuto il gesso per un bel po'. Ma quant'è “un bel po'”?

Io non ho più il senso del tempo. Un'ora, un giorno, un mese, per me sono solo parole, non è quantificabile. Se mi dicessero che sono stato in ospedale per tutta la vita gli crederei, perché non ricordo altro. Se mi dicessero che sono stato portato qui solo ieri sarei incredulo per poco, poi la mia mente danneggiata me lo farebbe accettare.

Axel.

A pensarci bene è un nome semplice, banale. Penso a mia madre e mio padre, penso a quando hanno deciso di chiamarmi così, penso a cosa possa averli spinti a farlo, penso a perché non abbiano cercato il loro Axel in tutti gli ospedali, in tutti i ricoveri, in tutte le cliniche. Penso a perché mi hanno abbandonato qui da solo.

Nessuno sente la mia mancanza?

L'acqua fresca sul viso non migliora il mio umore, ma blocca la nausea scaturita dal mal di testa, che era alla fine quello di cui avevo davvero bisogno.

L'inaspettato desiderio di camminare mi prende mentre sto tornando al mio letto. Ma sì, un paio di passi in corridoio che male potranno farmi.

Lentamente, mi appoggio alla porta della stanza.

L'ospedale è come un mondo nel mondo, un piccolo microcosmo ben organizzato nel suo trafficato via vai di persone, medici, malati, parenti.

È facile distinguere chi se ne va, chi resta, e chi può scegliere se andarsene o restare.

I medici e gli infermieri, vestiti con i loro camici e divise, bianchi, blu o verdi, sono quelli che possono decidere: c'è chi rimane, c'è chi va via, un ricambio continuo e confuso.

I parenti e gli amici dei malati, con i loro vestiti informali, sono quelli che se ne vanno. Portano fiori, regali, parole di conforto, e poi corrono via, di solito in maniera frettolosa, come per non essere infettati dal dolore e dalla sofferenza dei loro cari.

E poi ci sono i pazienti, con i pigiami di stoffa scadente, che sono costretti a rimanere. C'è sui loro visi la stessa identica espressione, un misto di rassegnazione e forza di volontà. D'altronde, nessuno di loro passerà qui tutto il resto della loro vita , o almeno, è quello che sperano. Quello che spero anch'io.

Mi tiro dietro la flebo, attaccata alla stampella con le ruote che cigolano e vanno in tutte le direzioni possibili tranne quelle che interessano a me.

Rimango rasente al muro per evitare che la folla di medici e visitatori mi travolga. Deve essere orario di visite, in altri momenti questo posto non è così pieno di vita. Tutt'altro.

Forse guardo con un po' di invidia quei momenti felici tra le famiglie. C'è una madre che stringe forte al petto la figlia malata, un bambino che si getta sulla gamba del fratello più grande, un'innamorato che consegna adorante un mazzo di fiori ad una ragazza magrissima.

C'è amore disperato, forte, nei loro occhi, un amore che desidera esistere, che non desidera uscire da quel posto da solo ma con la persona che si è andati a trovare.

Non c'è quel genere di amore per me, non c'è nessun genere di amore.

Possibile che io sia una tale brutta persona da non meritarmi neanche una visita, neanche un fiore, neanche un biglietto?

Possibile che io abbia dimenticato tutte le persone che sono venute a trovarmi? Possibile che oltre alla memoria qualcuno abbia portato via le tracce di chi è passato?

No, lo escludo. Chi potrebbe essere così crudele da negarmi il conforto di un oggetto portatomi da una persona a me cara?

Eppure, il dubbio si insinua, corrosivo, nei miei pensieri.

È più tollerabile pensare mi sia stato portato via tutto, piuttosto che pensare che nessuno abbia niente da portarmi.

Percorro il corridoio lentamente, la stanza 13 è la mia, cerco di non perderla di vista. In ogni caso il braccialetto che ho al polso aiuterebbe i medici a riportarmi indietro qual ora dovessi dimenticarmi dov'è.

I miei piedi seguono un percorso tutto loro, suggerito non dalla mente, ma dal cuore, stranamente agitato. Sono felice di non essere attaccato ad una macchina, perché lo sentirei correre. Forse mi sto affaticando troppo, dovrei tornare indietro.

Ma non voglio.

Cammino ancora, le stanze che si aprono sul corridoio si alternano, a destra le pari, a sinistra le dispari.

Cosa cerchi? Cosa stai cercando, Axel? Cosa speri di trovare?

Terapia intensiva non è un reparto molto grande, saranno una ventina di stanze in tutto. Tra i tanti pazienti credo di essere uno dei pochi in grado di andarsene in giro autonomamente, e i dottori lo sanno come lo so io: presto non avrò più bisogno di stare qui.

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Mi fermo, anzi, sono i miei piedi a fermarsi, improvvisamente incollati al pavimento da una forza magnetica incontrastabile, tanto intensa da fare quasi male.

Alzo gli occhi per sbirciare il paziente della stanza 8, ma è tutto buio, le persiane sono abbassate, si scorge solo una sagoma sdraiata sotto le coperte.

Non c'è nessuno neanche per lui.

Mi guardo intorno, nessuno sta facendo caso a me (chi lo farebbe in ogni caso?) quindi scivolo dentro la stanza, vinto dalla curiosità: i miei piedi prima incollati mi permettono di andare in quell'unica direzione.

L'oscurità fresca della stanza è rischiarata dal monitor dell'elettrocardiogramma. Il cuore del paziente della stanza 8 batte regolare, la sua pressione sanguigna è perfetta, la saturazione di ossigeno altrettanto, sembra un individuo perfettamente sano. Eppure giace su quel letto, in silenzio, addormentato in un sonno simile alla morte. Tutto il viso è coperto da garze e fasciature che lasciano solo intravedere la curva del naso e delle labbra, gli occhi sembrano tumefatti.

- Non te la passi tanto bene, eh? -

Mormoro, tirando una sedia accanto al suo letto. Non riesco più a stare in piedi, tutto qui.

Lo osservo dormire per un po' e la prima cosa che noto è che il mal di testa è sparito. Sembra quasi che il buio e la tranquillità di quella stanza abbiano fatto sparire il dolore. È bello liberarsene, anche se questo non dissipa la nebbia nei miei ricordi.

“Come ti chiami?” vorrei chiedergli “Perché sei solo? Che cosa ti è successo?”, ma poi penso che sia stupido parlare con qualcuno che non può rispondere e al contempo chiedere qualcosa a cui io non saprei dare una risposta.

Semplicemente godo in silenzio la sua presenza. Mi fa sentire meno solo essere solo in compagnia di qualcun altro.

Anche il suo comodino è sgombro, non ci sono fiori, non ci sono regali, non ci sono pensierini di parenti e amici venuti a fargli visita.

- Nessuno sente la tua mancanza? -

Forse lo chiedo più a me stesso che a lui, visto che non può sentirmi.

Sono così stupido.

Che ci faccio qui?

All'improvviso mi sembra che l'amnesia aggredisca un'altra volta il mio cervello e per un attimo l'idea di ritrovarmi in quella stanza senza sapere chi sono mi terrorizza a tal punto che mi si gela il sangue nelle vene.

Ma poi passa, così com'è venuto.

Sono ancora Axel. Sono ancora ricoverato in ospedale. So ancora qual è la mia stanza e so perché sono uscito.

Mi alzo e mi avvio alla porta e proprio in quell'istante 8 mormora qualcosa. È un sussurro rauco, come se avesse urlato per giorni e giorni fino a perdere la voce. Non capisco. Mi avvicino un po', magari mi sono sbagliato, ho scambiato per parole quelli che sono solo i rantoli di un malato.

- Hai detto qualcosa? -

Sotto le palpebre chiuse, scorgo i suoi occhi avere un leggerissimo fremito. Le sue labbra si schiudono ancora, si muovono, ma esce solo un breve, debole filo di voce che non mi permette di comprendere niente.

Forse dovrei chiamare un medico, forse dovrei avvertire qualcuno, ma tutto quello che c'è fuori ha perso importanza nell'esatto momento in cui capisco cos'è che sta dicendo.

- R...o...x...a...s... -

Un nome.

Roxas.

Sto per chiedergli di ripetere ma le macchine impazziscono d'un tratto, il battito cardiaco schizza alle stelle e lui annaspa alla ricerca d'aria. Suona una sirena, passi concitati nel corridoio annunciano l'arrivo dei dottori.

Piatto. L'elettrocardiogramma diventa piatto. Il bip continuo e la linea retta sullo schermo mi inchiodano come se fosse il mio cuore ad essersi fermato.

Lo sto guardando morire.

- Non morire. - i medici sciamano dentro la stanza, accendono le luci, mi spingono da una parte e per poco non cado - Non morire. - li guardo mentre tirano fuori un defibrillatore e lo appoggiano sul suo petto e guardo la sua schiena inarcarsi, il suo corpo percorso dall'elettricità - Non morire, ti prego, non morire. - non riconosco neanche la voce che sta supplicando. È la mia? È la voce di Axel, di certo, ma non la riconosco. - Non morire, non morire! -

Vuoto. Qualcosa dentro di me ha deciso di spegnere tutto. Spegnere i sensi, la conoscenza, la voce. Spegnere me.

Sento la vista appannarsi sempre più e per la prima volta ho paura. Paura di dimenticare il paziente 8. Paura di dimenticare di andarlo a trovare. Paura di dimenticare che non c'è nessuno per lui. Paura di dimenticare che non è morto.

Paura di dimenticare.

Mi prendo la testa tra le mani, forse spero che così nessun ricordo scapperà via, stretto tra le mie dita.

Prima ancora di cominciare a combattere sono già stato sconfitto.

 

Axel.

Got it memorized?

Mi tiro su a sedere, lentamente. La testa mi fa più male che mai. È così pesante che quasi fatico a tenere dritto il collo.

Per un po' stento a riconoscere quello che ho attorno poi piano piano i contorni di una stanza si fanno più concreti, vividi.

Con lo sguardo leggo gli altri post-it appesi sul comodino e sul muro dietro il letto.

“Vittima di un incidente.”, “Sei in ospedale.”

Poi ne incontro un altro, uno che la mia memoria sensoriale indica come estraneo. Non dovrebbe essere lì, perché prima non era lì.

“8”.

C'è scritto solo questo. 8. Il numero è tracciato quasi con disperazione sul foglietto.

Chissà che vuol dire.

- Oh, ti sei svegliato. -

Quando alzo la testa verso la voce mi trovo davanti un medico che ho l'impressione di aver già visto. “Vexen”, è scritto sulla targhetta, e il senso di familiarità mi costringe ad assumere un'espressione cordiale.

- A quanto sembra. -

Mi ritrovo a rispondere, un po' sarcastico. Lui si appunta tutto sul blocchetto di fogli che ha tra le mani, probabilmente la mia cartella.

- Hai avuto una crisi molto grave due giorni fa. Ricordi niente? -

Una crisi? Dottore, io ricordo a malapena chi sono.

Evito di dirlo, ma sembra proprio che nei miei occhi si legga chiaramente, data l'espressione perplessa del medico.

- No signore, non ricordo. -

- Niente? Non ricordi cosa stavi facendo nella stanza 8? -

8. Ancora quel numero. Un brivido freddo mi percorre la schiena. Il mio corpo mi sta dicendo qualcosa...ma cosa?

- No, niente...non ricordo di essere mai uscito di qui. - il medico annuisce e continua a scrivere sul foglio. Dio, come vorrei strapparglielo di mano per vedere che sta scrivendo - Chi c'è nella stanza 8? -

Lui alza i suoi occhi verde ghiaccio su di me, mi scruta, lentamente, come se stesse valutando qualcosa, dopo di che sospira. Forse ha capito che qualsiasi cosa mi dirà non potrà ridurmi peggio di come sto.

- Un paziente vittima di un incidente stradale. Ha riportato gravi ustioni ed era in coma farmacologico. -

- Era? -

Perché il cuore mi batte così forte adesso? Perché mi sento schiacciare da un peso tanto grande che potrei anche finire in pezzi?

- Sì, ha avuto un'inaspettata reazione ai farmaci, è andato in arresto cardiaco. -

Il silenzio opprimente che segue mi fa sentire perso, molto più di quest'amnesia, molto più del nulla che ho nella mente, molto più di quello che ho dimenticato, molto più di tutto.

- È...morto? -

- No. - quell'unica parola mi fa tirare un sospiro di sollievo. Sembra quasi che il mio cuore si fosse fermato nell'attesa e ora sia ripartito. - Ma abbiamo bisogno che tu ricordi che cosa ci facevi lì e che cosa hai visto. -

- Farò del mio meglio. -

Mormoro.

È vivo. Non so chi sia, non ricordo neanche di esserci stato, di averlo visto. Ma è vivo. Perché mi rende così assurdamente felice?

- Molto bene, allora ripasserò più tardi. Riposa. -

- Certo. -

Non sono neanche sicuro di essere stato io a dire quella parola, non sto guardando il dottore, è come se non fosse già più qui.

È vivo. 8 è vivo. Devo assolutamente andare a vederlo.

Aspetto che il medico lasci la mia stanza, dopo di che salto giù dal letto tirandomi dietro la flebo.

Axel. È tutto quello che mi ricordo, tutto quello che so, tutto quello che sono e credo di essere. Ma ho la sensazione, forte, vivida, dolorosa, che posso trovare delle risposte nella stanza numero 8 e in chi la occupa.

Non so neanch'io se risposte e domande coincidono, se voglio conoscerle, se mi piacerà quello che scoprirò. Ma devo provarci.

Sento di non essere mai stato così vivo da quando sono qui, e devo esserci da davvero tanto tempo.

Percorro il corridoio strascicando i piedi nelle pantofole di stoffa, non riesco a correre con le gambe deboli e esili che mi ritrovo.

Il silenzio è così denso e spesso. Non c'è nessuno, a parte i medici. L'orario di visita deve essere passato da un pezzo.

La stanza 8 è quasi in fondo al corridoio, quando arrivo ho il fiatone e il cuore mi batte come un tamburo nel petto.

Varco la soglia socchiusa spingendo appena la porta, che poi mi chiudo rapidamente alle spalle. Mi viene istintivo farlo e non ho neanche voglia di chiedermi il perché.

Cosa nasconde la figura addormentata in quel letto che io ho così disperatamente bisogno di scoprire?

Niente. Non mi dice niente. È solo una persona sconosciuta come tante altre che avuto un brutto incidente e adesso cerca solo di guarire.

E allora perché non riesco a smettere di stare qui, come in presenza di una qualche reliquia?

Il silenzio è rotto solo dal suo respiro e dalle macchine che affermano che è vivo e che sta solo dormendo.

Le mani sfuggono al mio controllo mentre apro il cassetto del comodino e cerco...cosa, non lo so. Non so neanche perché sto frugando nei suoi effetti personali con così tanta nonchalance.

Stai diventando anche paranoico, Axel? Così non migliori la tua situazione.

Nel cassetto non c'è niente degno di nota, anzi, sono quasi sicuro che nessuno di quegli oggetti è roba sua.

Allora passo all'armadio che spalanco senza ritegno.

È vittima di un incidente stradale, se hanno portato qui il suo corpo è già qualcosa.” sento la mia stessa coscienza bisbigliare, ma non gli do retta.

Sul fondo dell'armadio qualcosa, però, c'è. Una vecchia borsa, tanto consumata da sembrare sul punto di cadere a pezzi, strappata in diversi punti e bruciacchiata. Come il suo proprietario sembra sopravvissuto a qualche sorta di incidente.

È qui dentro che devo cercare.

Faccio scorrere la zip e poi le mani trovano la strada per l'interno. Un cellulare, il vetro è rotto e non si accende; un'agendina rossa tutta consumata, impossibile capire anche solo una parola; chiavi di casa che fanno un rumore infernale quando le tiro fuori e...una foto.

Tremo quando la tiro fuori e mi avvicino al comodino per osservarla alla luce.

Io...ho già visto questa foto.

Un ragazzo dalla folta chioma rossa, occhi verde intenso, e uno più piccolo, biondo, con occhi blu. Si abbracciano, sorridono alla macchina fotografica. Sembrano felici.

Ugh, la testa.

Stringo la foto al petto con il desiderio di volermela imprimere sulla pelle, farla rimanere come un marchio indelebile sul mio corpo in modo da non poterla dimenticare, da non dimenticare niente di quel momento. Inutilmente.

Perché? Perché non posso ricordare? Perché non posso tenermi solo questo, piccolo, minuscolo ricordo?

Prima di perdere i sensi, ancora come la prima volta, volgo lo sguardo a 8, sdraiato nel suo letto.

I suoi occhi sono aperti, mi sta guardando.

 

*

 

È una bella giornata.

Mi hanno detto che ha piovuto tutta la settimana, quindi immagino di dover aggiungere altri sette giorni di degenza in questo ospedale.

Però, è cambiato qualcosa. Adesso, accanto al post-it con il mio nome scritto sopra, c'è anche una foto.

Nessuno ha saputo dirmi da dove viene e quando è stata appesa lì, però mi piace guardarla, mi regala una qualche strana sensazione di conforto. In un primo momento mi provocava un'emicrania fulminante e rischiavo di perdere i sensi, adesso il dolore è soffuso, come se mi fossi abituato alla presenza di quei due volti sorridenti.

Ho già sentito due medici chiedermi “chi sono quei due?”, ma non ho saputo dare una risposta. Per quanto ne so sono due perfetti sconosciuti, ma la loro felicità è contagiosa e faccio sempre in modo che sia quella la prima cosa che vedo la mattina e l'ultima la sera.

Mi piace fantasticare su di loro. Provo a immaginare chi siano e cosa stessero facendo quando è stata scattata la foto. Non si vede molto alle loro spalle, potrebbe essere una città come una spiaggia, è tutto oscurato alla vista dai capelli rosso fuoco del ragazzo più grande, sparati al cielo come fiamme ardenti.

Il loro abbraccio è molto intimo, forse sono più che amici? E se fossero fratelli? Nah, non si assomigliano.

- Buongiorno! -

Quasi salto in aria, preso alla sprovvista nel bel mezzo delle mie fantasie. Forse arrossisco, chi lo sa come appare il mio viso, fatto sta che Naminè sta ridendo.

C'è qualcosa di dolce e amaro nel suo viso mentre si avvicina con il vassoio del pranzo, ho come l'impressione di non averla vista per molto tempo, tanto che mi è quasi sconosciuta nonostante sia dolorosamente familiare.

È sempre lei a portarmi il pranzo?

- Buongiorno a te. -

Ricambio il suo saluto e con un mezzo sorriso scruto con aria critica il vassoio del pranzo. Tra i post-it nuovi ce n'è uno che afferma che odio il cibo dell'ospedale.

Gli occhi blu della ragazza vagano su di me come per accertarsi che io stia bene, poi si ferma sulla foto che ho appuntato sul comodino e sussulta.

- Quella dove l'hai presa? -

Non mi stupisce tanto la domanda, quanto il modo accorato che ha di porla, come se avesse paura che qualcosa di brutto possa succedere da un momento all'altro. Mi volto verso la foto e mi riscopro a sorridere.

- Non lo so, ma è qui ormai. -

- E...sai chi sono quei ragazzi? -

Scuoto piano la testa ma non ho perso il sorriso. Non riconoscerli non è così male, mi da modo di immaginare tante vite per loro, tante quante io non posso viverne, chiuso qui dentro.

- Mi piace solo tenerla qui. Forse l'ha persa qualcuno dei visitatori e l'ho raccolta e poi ho dimenticato di averlo fatto. - mi stringo nelle spalle come a dire che non è un problema e che non deve perdere tempo a provare pietà per me. Cerco il suo sguardo e quando lo trovo è pieno di lacrime che non riesce a versare. - Va...va tutto bene? Ho detto qualcosa di sbagliato? -

La sensazione è che lei sta per rovesciarmi addosso un fiume di parole che potrebbe travolgermi, schiude le labbra per parlare ma non riesce ad emettere neanche un suono.

- Naminè. - è una voce profonda che la richiama e i miei occhi si posano sul viso di un dottore che non penso di aver mai visto, o che semplicemente non ricordo - Non ti è bastata la sospensione? I patti erano che avresti dovuto svolgere il tuo lavoro senza interferire. -

- Sì, dottor DiZ. - mormora lei, tremando tutta da capo a piedi mentre le lacrime lasciano i suoi begli occhi blu e le gocciolano sulle guance - Perdonami...Roxas. -

È come se mi avessero dato un pugno dritto allo stomaco. Vedo Naminè correre via piangendo e il medico muovere le labbra come a rallentatore ma non sento le sue parole né tanto meno mi interessano.

Roxas. È una parola nuova ma ho già sentito pronunciarla innumerevoli volte.

Mi gira la testa, tanto che devo aggrapparmi al letto, e sono quasi sicuro di stare per svenire e perdere tutto ancora. E invece non succede. Il giramento passa. E Roxas rimane impresso nella mia mente, dolorosamente.

Il dottore si è avvicinato e mi guarda come si guarderebbe una cavia in laboratorio.

- Ormai sei fisicamente guarito, domani ti dimetteremo dalla terapia intensiva. - non si è accorto del mio malessere evidentemente. Odio già quest'uomo, e non so cosa mi trattenga dal dirglielo, tanto tra poco l'avrò dimenticato, perché di lui non voglio ricordarmi. - Ti sposteremo in psichiatria finché non avrai recuperato la memoria o quanto meno fin quando non ti giudicheremo abbastanza guarito da non nuocere a te stesso o agli altri. Buona giornata. -

Mi sta dicendo che mi chiuderanno in una cella imbottita come un pazzo, e che mi faranno uscire di lì solo quando sembrerò meno pazzo di adesso.

Quello che più mi sconvolge però è che Naminè sa qualcosa, e non ha voluto dirmelo.

Devo andare via di qui. Prima di dimenticare perché voglio farlo.

 

Aspetto l'orario di visita, non perché spero che qualcuno venga a trovarmi, ma perché spero che la confusione aiuti a nascondermi.

Non ho niente da prendere con me se non la foto e i post-it che tappezzano la stanza. Li raccolgo uno per uno, in una pila ordinata, lasciando in cima quelli più importanti.

Ne scrivo uno nuovo.

“Sei scappato dall'ospedale.”

Li accartoccio e li infilo nell'elastico del pigiama. Li sento grattare contro la pelle, il che è un bene: se dovessi perdere la memoria, quel fastidio me li farà trovare subito.

Il vociare delle persone là fuori nasconde il bip preoccupato dei monitor quando stacco tutto, compresa la flebo.

Mi sembra di essere rimasto tanto a lungo in questo posto da non sapere più com'è fatto il mondo là fuori.

Se questo tentativo di fuga dovesse fallire, non me ne ricorderò, quindi poco male in fondo.

Sgattaiolo fuori, camminando il più normalmente possibile per non attirare l'attenzione su di me. Dovrò prendere in prestito qualche vestito se voglio riuscire ad andarmene. L'idea di stare facendo una cosa tanto pericolosa e tanto...stupida quanto eccitante mi fa battere fortissimo il cuore.

Non so cosa mi aspetta oltre il reparto terapia intensiva, non sono mai uscito di qui prima. Non so cosa ci sia là fuori e il pensiero rende il mio respiro veloce e irregolare.

Sono quasi all'uscita quando i miei piedi si inchiodano sul pavimento, immobili, come immersi nel cemento fresco.

Alzo lo sguardo e quasi non mi stupisco di scoprire dove mi sono fermato: proprio sulla soglia della stanza 8.

C'è un 8 sui miei post-it.

Non ci penso molto, solo mi infilo dentro. È più forte di me, ho bisogno di farlo, anche se non so perché.

É uno sguardo allarmato quello che mi accoglie, lo sguardo del paziente sdraiato in quel letto.

Il suo viso è coperto di fasciature ma nonostante questo è familiare.

- Roxas. - dico all'improvviso, senza pensarci - Ti chiami Roxas? -

Immagino che sotto tutto il bendaggio lui stia aggrottando le sopracciglia, perplesso. Scuote pianissimo la testa, ma sembra quasi che voglia farlo con forza.

Allora chi diamine è questo Roxas?

Perché Naminè mi ha chiesto scusa e mi ha chiamato in quel modo?

E perché io sono entrato nella stanza di questo sconosciuto e l'ho chiesto a lui?

Confuso, mi avvicino al letto, un passo incerto dopo l'altro.

Sono le mia mani che decidono per me mentre prendono la fotografia piegata in due nell'elastico del pantalone e gliela mostrano.

I suoi occhi dapprima sembrano stupiti, poi diventano grandi di lacrime e finalmente si poggiano sui miei.

Sono occhi verdi, verdi come gli smeraldi, puri e cristallini tanto che potrei giurare di potermi specchiare al loro interno.

Una mano, tremante, cerca la mia e quasi restio lascio che la prenda.

- Tu. - sussurra, la voce rauca mentre le lacrime scivolano giù sul suo viso, bagnando le fasciature - Tu sei Roxas. -

Il rumore che fa il mondo quando si incrina è lo stesso di un cuore che si spezza.

Mentre tutte le mie certezze vanno in frantumi ed io perdo me stesso, la mano del paziente numero 8 mi tiene insieme.

Immagini, suoni, sensazioni, emozioni, tutto è troppo, troppo intenso, troppo forte, semplicemente troppo.

La fotografa mi sfugge di mano, i volti sorridenti mi fissano. Gli occhi verdi del ragazzo rosso, sono gli stessi, sono i suoi. E quelli blu?

Il mio nome è Axel.

A-x-e-l, got it memorized?

 

*

 

C'è profumo di estate nell'aria, anche se il caldo tarda ad arrivare. Le giornate sono un piacevole preludio a quello che sarà, ai gelati, al mare, ai falò sulla spiaggia, alle conchiglie trovare tra i sassi. Chissà se potrò andare al mare quest'anno.

Mentre salgo le scale sbircio il cortile. Alcuni pazienti passeggiano con i parenti e gli amici, altri in carrozzella vengono spinti dagli inservienti. I bambini in grado di farlo, quelli meno malati del reparto pediatria, corrono su e giù come dei pazzi facendo sbraitare mamme e infermiere. È una vista quasi rasserenante.

Stringo il mazzo di fiori come se fosse una bomba a mano. Non avrei dovuto scegliere una cosa così, era meglio comprare dei cioccolatini.

La stanza è sempre la stessa, il numero sempre uguale, e i miei piedi sanno dove dirigersi mentre il cuore mi sale in gola e sento la tensione stringermi lo stomaco.

Toc toc, non ho mai bussato prima, non so perché lo faccio adesso.

- Avanti. -

La sua voce mi fa quasi vibrare la pelle, come se potessi sentirla addosso al pari di una carezza.

È seduto, vigile, mi aspettava.

È strano vederlo senza tutte quelle fasciature sul viso. Mi è ancora così estraneo eppure familiare.

- Ciao Axel. - gli mostro il mazzo sgangherato di fiori male assortiti che ho tra le mani - Ti ho portato dei fiori. -

Lui, visibilmente, trattiene una risata. Mi indica il vaso che ha sul comodino e so di essere arrossito: c'è lo stesso identico mazzo di fiori mal messo in quel vaso.

- Oh...scusa...non mi ricordavo... -

Non mi lascia finire.

- Non preoccuparti. Mi piacciono i tuoi fiori, vieni siediti. -

La sua voce è ancora rauca, probabilmente a causa dell'incidente, ma sembra stare meglio.

Mi avvicino alla sedia accanto al letto e mi accomodo come ho fatto tutti i giorni in quest'ultimo mese.

Mi trovo un po' in imbarazzo accanto a lui. Mi imbarazza sentire il cuore battere, il respiro farsi corto.

È una sensazione così strana e nuova.

La nostra fotografia è sul comodino, in bella mostra.

- Come ti senti oggi? -

È una frase fatta, ma non riesco a dire altro.

Lui sbuffa e mette su una specie di broncio.

- Male, perché sei in ritardo di ben quindici minuti. -

Mi prende in giro, ma quando guardo l'orologio mi rendo conto che ha ragione e non posso non arrossire.

- Scusa...la seduta è durata più del previsto, ho fatto più in fretta che... -

La sua mano si appoggia sulla mia guancia, mi accarezza piano, una scarica elettrica mi attraversa il corpo.

- Va bene, adesso sei qui. - poi prende i fiori e li aggiunge a quelli che gli ho portato ieri - Allora, ti va di continuare? -

- S-sì. -

Dallo zaino tiro fuori il quaderno a spirale. Ormai sta quasi per finire, mancano poche pagine.

- Dove eravamo rimasti? -

 

Il mio nome è Roxas.

R-o-x-a-s.

L'estate scorsa mentre stavamo tornando dal mare, un pazzo alla guida ci ha coinvolti in un incidente frontale in autostrada.

A rimanere ferito gravemente non sono stato solo io, ma anche la persona che guidava.

Axel. Il mio ragazzo.

Al pirata della strada non è andata meglio, è morto sull'ambulanza mentre lo portavano in ospedale, mentre io ed Axel siamo stati in fondo più fortunati.

Nell'incidente ho battuto forte la testa, cosa che ha causato un trauma cranico e una grave perdita di memoria, anche se i medici non hanno mai voluto confermare un diretto collegamento tra l'uno e l'altra, relegando il mio problema ad un livello puramente psicologico, mentre Axel ha riportato ustioni gravi che hanno costretto i medici a tenerlo in coma per diverso tempo.

In totale, sono stato in ospedale undici mesi. Sono stato dimesso esattamente un mese fa. È passato un anno dall'incidente.

Naminè è una nostra amica comune che di punto in bianco un giorno si è ritrovata ad averci entrambi in terapia intensiva. Aveva ordine di non dirmi niente, perché i medici temevano che sarebbe stato deleterio per la mia psiche, ma lei mi ha comunque portato la foto di me ed Axel. Pare che l'avessimo entrambi nei rispettivi portafogli.

Ho ancora problemi di memoria, per questo sono in cura da uno psichiatra da cui sono costretto ad andare ogni giorno.

Ma dopo ogni seduta vengo qui, nella stanza numero 8, da Axel.

Non ricordo ancora tutto di noi, non ricordo della nostra amicizia e poi del nostro amore, non ricordo tante cose di lui che vorrei ricordare, ed è per questo che mi racconta tutto quello che può mentre lo appunto sui quaderni.

Ne ho già riempiti otto.

A volte dimentico di avergli già portato i fiori, come oggi, a volte dimentico cosa ci faccio ancora in ospedale, ma c'è una cosa che rimane sempre nella mia memoria

 

- Axel? -

- Mh? -

Appoggio la penna, mi trema la mano, non riesco quasi a respirare.

Lui sembra allarmato mentre si sporge verso di me. So che cosa sta pensando. “Lo perderò di nuovo?”.

- Mi sono appena ricordato di una cosa importantissima. -

Anche la voce, come la mia mano, trema, trema tutta come se fosse scossa da un terremoto.

- Cosa? -

- Ti amo. -

 

Axel.

A-x-e-l, got it memorized?

Non si dimentica il nome dell'amore.

 


The Corner 

E così, a mezzanotte quasi spaccata, eccoci qua.
Questa piccola storiella la dedico al mio piccolo grande amore,
che anche se fa tanto la burbera e fa finta che non gli importi
non ha mai dimenticato il nome dell'amore,
e va bene così <3 
Ti amo piccola, buon akuroku day 

   
 
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