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Autore: ScleratissimaGiu    14/08/2015    2 recensioni
Il mio nome è Henry, e non sono mai stato bravo a farmi degli amici. Voglio raccontare di come la droga si sia portata via la parte migliore della mia vita.
Dal testo: "«Sono il meglio del meglio,» mi aveva garantito, porgendomi una specie di piccolo cristallo azzurrognolo.
Esitai per qualche attimo, decidendo infine di prenderlo. Volevo che mi vedessero come un loro pari, non come una specie di suora moralista. E quello fu l’inizio di una lenta caduta verso il buio."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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                            "Se ti droghi ti capisco, perché il mondo ti fa schifo;
                              se non lo fai ti ammiro, perché sei in grado di combatterlo"

                                                                     - Jim Morrison


 





«La fratellanza è molto più potente di quel che credi».
Caleb aveva pronunciato quelle parole guardandomi fisso negli occhi, uno sguardo attento e penetrante, che sembrava scrutarmi dentro l’anima.
Aveva gli occhi ridotti a delle fessure, e il loro colore nero si poteva appena percepire; aveva l’aspetto di un ragazzo come tanti, con jeans, scarpe da ginnastica bianche impolverate e una felpa scura come il suo sguardo, come il suo umore.
Sin dall’inizio, Caleb mi aveva incuriosito: non sorrideva mai, anzi stava sempre sul chi vive, e non mi riusciva di capire il perché. Era serio, composto, tenebroso; forse anche troppo, per i miei gusti. Un’altra cosa che trovavo strana in lui erano tutte quelle strane cicatrici che aveva sulla faccia e sul collo, che sembravano quasi buchi. Pensai che dovesse aver avuto un brutto incidente.
Ero fermo davanti alla scrivania, il foglio e la penna che mi attendevano, e mi scoprii stranamente nervoso. Non ero totalmente sicuro di volere firmare.
«Cosa intendi?» chiesi, cercando di assumere un tono disinvolto e quasi disinteressato.
Lui mi guardò, senza parlare, respirando appena.
«Capirai,» disse infine, proprio mentre stavo pensando che non avrebbe risposto «più avanti».
Soppesai quelle parole misteriose cercando di coglierne il senso, ma purtroppo rimasero arcane alle mie orecchie.
Sospirando, mi chinai sul foglio e scribacchiai alla meglio “Henry Grant” sulla riga alla fine della pagina, continuando a ripetermi che tanto era solo una stupida iscrizione ad una confraternita del college, non stavo certamente andando in guerra.
Caleb prese il foglio ed esaminò la firma, poi lo ripose accuratamente in un raccoglitore bianco e mise il tutto sottochiave in un’anta dell’armadio stile antico dietro di sé. Quando si girò a guardarmi, aveva un’espressione più rilassata, anche se non sorrideva ancora.
«Benvenuto nella Fratellanza, Henry» disse, in tono incolore.
Io stirai le labbra a simulare un piccolo sorriso, che però lui non imitò.
«Questa,» continuò, allargando le braccia «sarà la tua casa. Certo avrai la tua bella stanzetta o il tuo bel appartamentino, ma è qui che passerai la maggior parte del tuo tempo al campus.»
Annuii, seguendolo mentre mi mostrava la casa.
«In realtà, in questa casa ci dormono solo i membri più anziani della Fratellanza,» mi spiegò «ma ovviamente permettono a tutti gli altri di unirsi a loro per tutto il giorno.  Una volta finito il loro periodo di permanenza al college passeranno il testimone ai successivi adepti più grandi e così via.  Bene, qui c’è la cucina.»
La prima stanza che mi mostrò era una delle più grandi, assieme al salone e alle camere degli altri ragazzi.  La cucina era perfettamente equipaggiata con ogni elettrodomestico esistente, era luminosa e spaziosa, e il banco al centro ricordava molto i banconi dei bar chic che aveva visto in qualche film.  I bagni non erano nulla di speciale, anzi erano anche più piccoli del suo, mentre le camere dei membri erano come dei piccoli paradisi per ventunenni: ognuna aveva un frigo-bar pieno di alcolici e televisioni collegate a PlayStation oppure Xbox.
Nel salone c’erano tre divani, un mega televisore al plasma e tanti di quei videogiochi che avrebbero fatto sfigurare un negozio d’elettronica.
«In giardino c’è la piscina, ma in questo periodo fa troppo freddo per usarla» concluse Caleb, fermandosi davanti alla porta d’ingresso «presumo che ci vedremo qui stasera, quindi.»
«Certo,» risposi, allungando la mano destra.
Lui mi guardò stranito per qualche secondo, prima di stringerla vigorosamente.
«A stasera.»
 
 
Il mio appartamento era abbastanza piccolo, ma poco mi importava: ci vivevo da solo, non avevo bisogno di grande spazio. E, dato che non sapevo bene come si stesse in cucina, quella sala era praticamente inutilizzata, quindi era anche un vantaggio quando arrivava la domenica mattina, che dedicavo sempre alle pulizie.
La scelta di unirmi alla Fratellanza mi era balenata appena arrivato qui, e dopo molti ripensamenti ero finalmente riuscito a bussare alla loro porta. Non socializzavo da molto tempo, quindi per me non si era rivelata un’esperienza semplice. Tuttavia, sentivo che la parte più complicata sarebbe arrivata quella sera.
Mi presentai alla porta della mia nuova Fratellanza vestito con jeans, scarpe da ginnastica e camicia nera, per non sembrare uno troppo fissato con la moda ma nemmeno uno trasandato.
Caleb venne ad aprirmi, sempre con la sua indecifrabile espressione, e mi condusse nel salone, dove feci la conoscenza dei cosiddetti “membri anziani”.
Il primo che mi venne presentato era un ragazzo alto quasi due metri, dai capelli castani, gli occhi blu e un accenno di barba che gli dava una leggera aria vissuta; si chiamava Curtis Clayton, e mi disse che stava studiando legge perché «mi è sempre sembrato che ‘Curtis Clayton’ fosse il nome perfetto per un avvocato. Non trovi?».  Trovai il ragazzo simpatico e, in qualche maniera, mi ritrovai a pensare che passare del tempo con lui dovesse essere un’esperienza affascinante.
Dopo di lui, si avvicinò un ragazzo sbarbato di fresco che somigliava molto a Caleb, il quale mi confermò che erano fratelli; si chiamava Matthew Phillips, ed era nato appena un anno prima del suo tenebroso fratello, e credetemi non potevano apparire più diversi.  Oltre alla somiglianza nel volto, i due non condividevano altri caratteri comuni: mentre Caleb si vestiva in maniera molto casuale, Matthew indossava una camicia bianca sotto un maglione a scacchi e pantaloni blu scuro dalla piega perfetta.
«Sto studiando chimica,» mi spiegò, sistemandosi i grandi occhiali sul naso «in realtà, ormai sono all’ultimo anno, e dopo la laurea mi piacerebbe conseguire una specializzazione, anche se devo ancora decidere in cosa».
Caleb, infine, mi introdusse all’ultimo ragazzo rimasto, un tipo anonimo che era vestito quasi come me e aveva tratti somatici asiatici.
«Io sono Nathan Moore» disse, porgendomi la mano, con un mezzo sorriso sul volto «studio arte»
«Piacere di conoscerti»
«Sono sicuro che Caleb ti ha fatto vedere la casa»
«Sì, oggi pomeriggio»
«Vieni, ti mostro il giardino»
Lo seguii senza fiatare, anche perché da subito notai come tutti gli altri si erano zittiti non appena Nathan si era presentato, e avevo capito subito che era lui quello che comandava, quindi avrei fatto meglio ad ubbidire ai suoi ordini senza troppe lagne, se volevo rimanere nella Fratellanza.
Io non ho mai avuto molti amici, né alle scuole elementari né in quelle successive.  E no, nemmeno una ragazza.
Ricordo che alle scuole medie, dopo cinque anni di elementari in cui parlavo solo con le mie maestre, riuscii finalmente a farmi un amico; si chiamava Jackson, ed era l’unica persona con cui parlavo di tutto, l’unico che potessi davvero considerare un amico. Quando arrivammo al liceo, all’inizio dell’ultimo anno lui si trasferì, il che mi riportò alla situazione che avevo vissuto quando ero solo un bambino.  Passai molto tempo solo. Troppo tempo.
Io e Nathan uscimmo sulla veranda, mentre il tramonto illuminava coi suoi ultimi bagliori il giardino e la piscina.
«Dunque,» cominciò Nathan, chiudendosi la porta scorrevole alle spalle «ti piace questa Fratellanza?»
«Beh, devo ancora conoscervi bene, ma per il momento sono molto contento di essere entrato a farne parte.»
«Risposta onesta» valutò lui, scrutandomi «hai dei fratelli? Sorelle?»
«No, figlio unico»
Lui annuì, come riflettendo su ciò che gli avevo detto.
«Spero che tu capisca, ad ogni modo, che anche se non siamo legati da parentele di sangue noi siamo i tuoi fratelli maggiori»
Aggrottai la fronte, senza capire dove volesse andare a parare.
«Voglio dire,» continuò, mettendomi un braccio attorno alle spalle e camminando verso la piscina «che se tu dovessi avere bisogno di qualcosa noi ci saremmo sempre, e la cosa deve essere reciproca»
«Oh, certamente»
«Benissimo, Henry. Vedo che mi capisci. Ma devi anche capire che la Fratellanza è un organo, possiamo dire, molto potente all’interno del campus.»
«Anche Caleb l’ha detto, ma non riesco a capire cosa voglia dire questa frase»
Nathan sorrise a mezza bocca, come aveva fatto quando si era presentato, togliendo il braccio e guardandomi dritto negli occhi.
«Significa che facciamo quello che vogliamo, quando vogliamo. Ecco cosa vuol dire. E ci preoccupiamo ben poco delle conseguenze.»
Rimasi in silenzio, ponderando ciò che aveva appena detto.
Il tono che aveva usato era stato categorico, secco, e avevo capito che stava per aggiungere qualcosa.
Mi mise una mano sulla spalla, sospirando.
«Tu hai firmato, Henry» disse in tono grave «ma sei ancora in tempo per cambiare idea, sai? Lo puoi ancora fare, se non ti senti sicuro. È ok.  Ma ci sono due cose che devi sapere: la prima, è che se accetti di diventare membro della Fratellanza non potrai più tornare indietro. La seconda, è che se abbandoni adesso, ti verrà difficile trovare un’altra Confraternita, all’interno del college, che sia disposta ad accoglierti: ormai sanno che eri con noi, e penseranno che sei un voltagabbana oppure che vuoi solo sabotarli in Dio sa che maniera.  La scelta è tua, Henry.»
Lo guardai attentamente.  Volevo degli amici, li volevo disperatamente. I miei genitori erano preoccupati per me, e io ero solo, lo ero sempre stato. Era stato difficile per me arrivare lì e dire che volevo unirmi a loro, e non avrei certamente gettato tutto all’aria in quel momento.
«Io voglio far parte della Fratellanza»
Nathan sorrise, rilassandosi.
«E allora benvenuto in famiglia, Henry»
 
Del resto di quella sera ricordo poco, come del resto ricordo veramente pochissimo di quelle che seguirono (e furono parecchie). Scoprii ben presto che quella fratellanza non era niente di quello che avevo sperimentato al liceo; pensavo che l’alcool e qualche canna fossero il massimo della trasgressione per noi adolescenti, almeno io e Jackson non eravamo mai andati più oltre durante le nostre serate tra film di supereroi e videogames, ma il college mi spalancò le porte su un nuovo, eccitante, terrificante mondo.
Curtis fumava più marijuana di Bob Marley, e la considerava una quantità ancora da principiante.
«Ho ridotto molto in questo ultimo periodo,» mi spiegò una sera, non ricordo quale, mentre faceva evaporare una nuvoletta di fumo verso il soffitto «insomma, non fa molto bene al mio portafoglio. Sai, credo che il caro vecchio Matt abbia trovato la soluzione migliore di tutte. Il nostro bel chimico!»
Mi voltai. La stanza era avvolta da una sottile, a malapena percettibile nebbiolina, in cui i ragazzi si muovevano come se fossero figure astratte. Ebbi l’impressione di ritrovarmi in uno di quei film di fantascienza girati davanti ad uno schermo verde.
Matt mi era sembrato il ragazzo più serio di tutti, ma egli stesso mi confidò che grazie alle sue conoscenze chimiche poteva produrre da sé le droghe che spacciava per tutto il campus.
«Sono il meglio del meglio,» mi aveva garantito, porgendomi una specie di piccolo cristallo azzurrognolo.  
Esitai per qualche attimo, decidendo infine di prenderlo. Volevo che mi vedessero come un loro pari, non come una specie di suora moralista. E quello fu l’inizio di una lenta caduta verso il buio.
«Vedrai, ti piaceranno» commentò Matt soddisfatto, mettendo gli altri che aveva in mano nella tasca «credimi, nessuno può resistere ai miei bambini»
«Ehi, Meth-Head, vieni qui!»
Nathan, affacciandosi alla porta della sala, chiamò a gran voce il ragazzo, che accorse.
Mi chiesi quali potessero essere le conseguenze di quel che avevo appena fatto, ma proprio mentre stavo per iniziare a darmi delle risposte l’effetto cominciò.
Ricordo vagamente di essere stato molto felice, davvero molto euforico, e continuavo a ridere. Dopo poco, anche Caleb iniziò a ridere con me, e trovai la cosa molto affascinante perché non l’avevo mai visto farlo.
Dopodiché, qualcuno entrò con dei cartoni di pizza, ma nessuno dei due voleva mangiare, anzi ci eravamo appartati per stare un po’ tranquilli; nessuno dei due riusciva a rimanere fermo, e riuscimmo ad addormentarci dopo circa due ore passate tra convulsioni anche piuttosto violente e tremori.
Quando mi svegliai, avevo un gran mal di testa e mi sentivo parecchio strano.  Realizzai quasi immediatamente che ci eravamo addormentati sulla veranda, ed era ancora notte.  Sentii all’interno delle chiacchiere, e decisi di andare dagli altri abbandonando fuori Caleb che ancora dormiva.
«Già di ritorno?» mi chiese Nathan, fumando qualcosa che poteva essere tutto tranne che una regolamentare sigaretta.
«Cosa?» risposi, confuso. Sentii il mio cuore battere molto velocemente, e non riuscivo a capirne il motivo.
«Avrete dormito mezz’ora, al massimo»
«Non riesco a capire come avete fatto ad addormentarvi» commentò Matt, incrociando le braccia e appoggiando la schiena contro il divano rosso «quella roba non è fatta per dormire, è fatta per stare svegli»
«Non pensarci troppo, Meth-Head. Capita» intervenne Curtis, alzandosi e andando a frugare nel suo zaino.
«Ne voglio dell’altra» mi ritrovai a dire, senza sapere bene il perché.
Gli altri risero.
«Certo che ne vuoi dell’altra,» gongolò Matt «è la migliore che puoi trovare in giro»
Mi porse un altro cristallo, un po’ più grande del precedente.  Lo ingoiai.
«Questo è l’ultimo» mi avvertì «non posso mica andare in fallimento per te, caro mio»
Risi.
Risi molto, quella sera. Cioè, quella notte.
Tutta la notte, ad essere precisi. Rimasi sempre sveglio, e risi, risi come mai avevo fatto.
La mattina dopo ero ancora a casa della Fratellanza, e mentre gli altri erano andati a letto io mi ero seduto sul divano più grande, nero di pelle, e avevo cominciato a giocare ai videogame senza volume, per non disturbarli. Alle cinque avevo stabilito un record uccidendo un considerevole numero di zombie in Call of Duty, mentre per le sette e mezzo avevo sbaragliato tutti i miei concorrenti alla vincita del campionato della NFL. Mi sentivo un campione.
Caleb era andato in giro per la casa tutto il tempo, entrando nelle stanze e uscendone qualche secondo dopo, senza capire veramente cosa stesse facendo.
Poche ore più tardi, l’effetto di entrambi i cristalli che avevo assunto era svanito, e mi sentivo diverso; avevo un insopportabile senso di nausea ed ero terrorizzato all’idea di perdere le lezioni, anche se quel giorno non ne avevo nessuna in programma. Mi alzai improvvisamente dal divano e corsi fuori, spingendo a terra Caleb che cercò di fermarmi.
Una volta arrivato nel mio appartamento, mi accorsi immediatamente che qualcosa non andava. Non riuscivo a smettere di tremare, e la mia temperatura corporea continuava ad alzarsi ed abbassarsi, come se non riuscisse a decidersi sul da farsi.  Appena riuscivo ad addormentarmi, avevo degli incubi tremendi e non riuscivo a riposare per più di qualche secondo.
Rimasi sdraiato sul mio letto fino al tardo pomeriggio, anche perché ad un certo punto mi convinsi che c’era un mostro nel mio armadio e avevo paura ad andare in bagno.  Verso l’ora di cena, finalmente, gli effetti svanirono del tutto.
Mi alzai dal letto, aggirando per precauzione l’armadio, e uscii di casa dirigendomi dalla Fratellanza.  Curtis mi aprì la porta con un sorriso strano.
«Il nostro Henry è tornato!» urlò agli altri, mentre mi faceva strada nella sala principale.
«Buonasera, Henry» mi salutò Nathan, mentre Caleb e Matthew mi salutarono con un cenno della mano «ti senti meglio?»
«Io… sì, mi sento meglio, ora» riuscii a dire.
«Benissimo,» s’intromise Matt, alzandosi «perché stasera si parte per un bel viaggetto»
Lo guardai con aria interrogativa, e lui mi mostrò dei piccoli quadratini di carta, molto simili a francobolli di ridotte dimensioni, con sopra stampata una faccia sorridente gialla.
«Ma cos…»
«Questa, amico mio,» m’interruppe lui, con un grande sorriso «sarà la tua nuova migliore amica»
Senza questionare oltre, presi la sostanza e la ingerì.
Dopo poco, notai che le pareti della casa avevano cominciato a muoversi, così come le fantasie della carta da parati; quando anche il tappeto iniziò a muoversi, cominciai a ridere, indicandolo.
Notai che Nathan e Curtis erano rimasti sul divano, a guardarmi, e trovavano la scena parecchio divertente. Mi voltai verso Matt.
«Andiamo a nuotare»
Prima che potesse replicare, mi stavo già dirigendo verso la piscina. Sentii i ragazzi dentro che ridevano, e subito dopo mi seguirono fuori.
«Calmo, calmo» Matthew mi prese per le spalle e mi allontanò verso la veranda «non puoi andare in piscina, Henry»
«Ma io ci voglio andare,» protestai, mentre anche Curtis e Nathan, divertiti, lo aiutavano a riportarmi dentro «voglio farmi una bella nuotata»
«Non puoi nuotare da fatto, amico» intervenne Curtis, facendomi sedere sul divano accanto a lui «pensa se vedi uno squalo e vai in panico»
«Uno squalo?»
Quell’affermazione mi aveva fatto accapponare la pelle; non pensai che era altamente improbabile ritrovarsi uno squalo nella piscina, ma pensai alla situazione che il mio amico aveva appena descritto, ed ebbi paura.
«Ehi, ehi» mi batté la mano sulla spalla, sorridendo «non preoccuparti, non ti succederà niente. Vedi? Sei qui con noi. Adesso calma, fai dei bei respiri profondi»
Ubbidii, e trovai che l’esercizio riducesse di gran lunga il mio senso d’ansietà. Continuai a farli per parecchi minuti, mentre le pareti attorno a me continuavano a muoversi in modo strano.
Matt mi si avvicinò.
«Che mi hai dato, Meth-Head?» gli chiesi, cercando di fissare la sua immagine e fare in modi che la sua pelle mi apparisse normale, invece che piena di strani puntini.
«LSD» rispose, mettendomi entrambe le mani sulle spalle. Gli sorrisi come un idiota.
«Ascoltami, Henry. Stai calmo e continua a fare respiri profondi, ok? Tra circa…» guardò il costoso orologio che aveva al polso, probabilmente comprato con le vendite di droga «cinquanta minuti, più o meno. Devi solo cercare di rimanere calmo, d’accordo?»
Annuii, e lui sorrise di rimando.
«Ti divertirai, te lo prometto»
Nel frattempo, Curtis e Nathan stavano fumando.
Il primo sicuramente marijuana, dato che proclamava di essere fedele solo a lei, mentre il secondo una sostanza che a me era sconosciuta (come del resto lo erano state la meth oppure l’LSD fino a qualche istante prima).
«Che fumi, Nat?» gli chiesi, cercando di sedermi in una posizione più confortevole.
«Crack» rispose lui, prima di accenderla nuovamente dato che si era spenta «magari un giorno te la faccio provare, che dici?»
«Dov’è Caleb?» domandai, guardandomi intorno.
«A farsi, probabilmente»
«Oh» risposi, prima che la mia mente e la mia bocca iniziassero ad agire autonomamente.
«Senti, Nathan» cominciai «tu non pensi che la guerra sia inutile?»
Lui tirò un’altra boccata, riflettendoci, poi tornò a guardarmi.
«Certo che la guerra è inutile!» esclamò alla fine «tu che dici?»
«Io dico che il mondo è un posto bellissimo, e che le persone dovrebbero imparare a volersi più bene»
«Come sei saggio, Henry. Ci vorrebbero più persone come te.»
 
I cinquanta minuti passarono in maniera piuttosto monotona.
Sì, ok, vedevo le pareti che si muovevano in modo strano e tutto attorno a me vorticava, ma non mi sembrava poi un grande sballo come Matt mi aveva definito. Per lo meno, la cosa migliore di tutto ciò era che volevo bene a tutti ed ero pervaso da un profondo senso di pace e di armonia, come se avessi iniziato ad amare tutto e tutti all’improvviso.
Ad un certo punto, comunque, i colori iniziavano ad essere diversi… non so bene come spiegarlo, ma non avevo mai avuto un’esperienza di colori così vividi e… profumati.
I ragazzi, anzi, Matthew, mi raccontarono che improvvisamente affermai di riuscire a sentire un intenso profumo di verde, il che diede conferma a Matt che ero entrato definitivamente nel secondo stadio dell’LSD. Sta di fatto che iniziai ad affermare di sentire il profumo dei colori (e dissi anche che il nero aveva un odore particolarmente sgradevole, a mio personalissimo giudizio), e in seguito anche che riuscivo a vedere i suoni, anche se i ragazzi mi dissero che non riuscivo a spiegare bene quel che vedevo, quindi non posso farne una descrizione minuziosa e affidabile. Tuttavia, una cosa che ricordo e che continuerò a ricordare nitidamente fu quando iniziai a vedere serpenti sul pavimento. Urlai a Curtis di stare attento, perché un rettile di lunghezza quasi pari ad un Anaconda si stava avvicinando a lui, il quale, per tutta risposta, finì la sua canna (credo che fosse la quarta o la quinta della serata) e proclamò di dover andare in bagno con urgenza.
Terrorizzato, decisi di uscire e allontanarmi da quegli esseri diabolici che stavano strisciando sul pavimento; per mia fortuna, la notte fuori non era troppo fredda, e il cielo era coperto di stelle dai colori cangianti e bellissimi. Mentre ero intento ad ammirare quel paesaggio, da non so dove un drago cominciò a vorticare attorno alla luna, che era spaventosamente vicina a noi, e a sputare fuoco.  Chiamai a gran voce aiuto, e Caleb, seduto a bordo piscina con le gambe in ammollo, accorse, schizzandomi tutto dato che si era bagnato senza togliersi i pantaloni.
«Guarda!» gli dissi meravigliato, indicando il punto esatto in cui il drago stava volando «c’è un drago!»
Caleb, forse anche più fatto di me, osservò l’oscurità brillante di stelle del cielo per qualche momento, per poi assumere un espressione di naturale e genuina incredulità.
«Ma è bellissimo!» esclamò, mettendosi le mani nei capelli «è davvero fantastico!»
Poi cominciò a piangere e corse via.
Tornai dentro per informare gli altri, ma nessuno sembrava interessato alla mia straordinaria scoperta: Curtis se n’era andato, Nathan continuava a fumare e Matt stava armeggiando con sostanze che, neanche farlo apposta, non conoscevo.
Fu circa in quegli attimi che iniziai a sentirmi strano, come se non fossi più nel mio corpo, cioè come se fossi un’entità separata che stava fluttuando in quella casa, non un ragazzo. Proprio così, era come se fosse tutto un sogno dai contorni splendidamente vividi e chiari, e dato che continuavo a ripetermi che ero sotto l’effetto di LSD riuscii a mantenermi abbastanza calmo.
Andai in cucina a bere parecchie volte, ma Matt mi disse che quello era uno degli effetti fisici dell’LSD, dunque non mi preoccupai. La sensazione di fluttuare continuava ad esserci, però riuscivo a controllarmi abbastanza bene, andando a sbattere solo qualche volta.
Dopo circa due ore passate sul divano ad osservare quei fantastici animaletti esotici che si aggiravano per casa e a chiedermi come mai la pelle di Nathan fosse diventata argento, decisi di uscire ad ammirare la bellezza del giardino e della natura, con cui mi sentivo particolarmente connesso quella notte. L’erba non era scura come il buio della notte avrebbe dovuto renderla ai miei occhi, ma era di un bel verde brillante, e su di essa c’erano migliaia di strani animaletti che mi soffermai a guardare affascinato. Il drago, nel frattempo, si era posato sul tetto di una casa vicina e aveva iniziato a soffiare una leggera brezza che mi scompigliava i capelli.
Quando guardai la luna non solo notai che era straordinariamente vicina, ma aveva anche un volto sorridente e rassicurante. Mi fece un occhiolino che ricambiai, poi entrambi ci mettemmo a ridere.
Sentii Caleb che si lamentava, ma le sue urla sembravano così lontane che ci badai appena.
Mi sdraiai nell’erba, facendo respiri profondi; sentivo il profumo del colore verde dell’erba (ricordo vagamente che fosse dolce e piacevole, ma non riuscirei comunque a fornirne una buona  descrizione) nelle narici, e ancora una volta mi sentivo in pace con la natura, come se avessi raggiunto uno stato in cui Dio, dopo tanti anni di torture su di me, avesse finalmente deciso di farmi un regalo e farmi stare bene.
Rimasi con gli occhi chiusi molto tempo, ponderando sulle grandi questioni dell’universo, e quando gli riaprii per guardare nuovamente il drago notai con mio grande disappunto che se n’era andato.  Non solo, ma anche la luna era tornata normale, e i colori stavano lentamente sbiadendo. Decisi di rimanere sdraiato ad occhi chiusi per far svanire l’effetto totalmente, dopodiché rientrai.
Nathan era steso sul divano in una posizione strana, quasi innaturale, e notai che le sue labbra erano tutte piene di crepe, e dato che erano leggermente aperte potei notare che la maggior parte dei suoi denti era in una condizione molto precaria di igiene, e alcuni erano addirittura rotti.
Di Curtis non c’era traccia, mentre Matt stava fumando una sigaretta e guardando un programma in tv.
«Ehi, finalmente» mi salutò non appena mi vide, alzandosi e venendomi incontro «sei stato via sei ore!»
«Davvero?»
Non avevo idea di quanto tempo avessi passato fuori, anche perché se avessi guardato un orologio probabilmente ci avrei visto un camaleonte o qualcos’altro d’improbabile.
«Sì, hai avuto una punta di circa quattro ore. Mica male per un novellino! Hai un buon metabolismo, complimenti.»
«È stato pazzesco» dissi, sbattendo gli occhi per prendere bene coscienza con la realtà.
«Il miracolo dell’LSD, fratello» rise lui «ma per oggi direi che ti può bastare, ok? Adesso è meglio se vai a casa a dormire. Ci vediamo domani?»
«Buonanotte, grazie ancora!»
 
 
Ero un ragazzo. Avevo a malapena idea di quel che stavo facendo.
Ricordo che adorai quella sensazione di connessione con la natura, di abbandono totale, di essere nel mio corpo ma di sentirmi come qualcos’altro, qualcosa di astratto, soprannaturale.
Era pazzesco.
È inutile dire che l’LSD divenne la mia droga preferita, e Meth-Head il mio pusher di fiducia.
Ben presto, soprattutto grazie a lui, imparai che l’allucinogeno del mio cuore provocava essenzialmente quattro stadi diversi, durante l’assunzione: il primo, il Come Up, dove iniziavo a vedere le cose che si muovevano e la mia vista era distorta; il secondo, il Peak, cioè l’apice della droga, dove riuscivo ad avere le visioni e sentirmi parte di qualcosa di più grande (non saprei in quale altro modo definire tutto ciò); il Come Down, dove gli effetti iniziavano a svanire; e infine i postumi, che ogni volta erano diversi.
C’erano volte in cui, quando l’effetto era completamente svanito, non riuscivo a dormire per giorni, oppure volte in cui riuscivo a dormire profondamente e mi risvegliavo completamente ristorato e pieno di energie.
Ma c’erano volte in cui gli effetti negativi venivano a galla, giorni in cui non riuscivo a muovermi dal letto e Matt doveva venirmi a controllare, a suo rischio e pericolo.
Per quanto amassi quella sostanza, per quanto mi avesse fatto dimenticare i problemi del passato, che sono riuscito a descrivere all’inizio grazie alle testimonianze della mia famiglia, c’erano volte in cui era capace di scorticarmi con una violenza e brutalità che mi lasciavano a malapena la forza di respirare.
Ed è durante una di quelle esperienze che la mia vita si rovinò per sempre.
 
 
Ricordo poco di quella sera, le mie uniche memorie ben nitide e distinte risalgono dal Peak in avanti, le altre sono solo sfumature poco importanti.
Ricordo che presi tre dosi quella sera, e che Matt mi aveva assicurato che il mio metabolismo avrebbe retto tranquillamente, dato che ormai la assumevo da un po’ e il mio corpo si era abituato. Mi fidai di lui, ovviamente. Era lui l’esperto.
Non appena il Come Up cedette il posto al Peak, chiesi che ore fossero, e visto che erano appena le undici decisi di andare a fare un giro per il quartiere e osservare le meraviglie che potevano celarsi sotto il magnifico effetto dell’allucinogeno che avevo appena assunto.
Era una cosa che non avevo mai fatto prima, non saprei dire perché. Beh, sta di fatto che presi a camminare per strada, facendo bene attenzione a non andare ai lati, dato che qualcuno aveva acceso un falò che non mi permetteva di entrare in alcuna casa.
Mentre camminavo mi guardavo attorno: le foglie degli alberi sembravano tante piccole piume colorate, e vidi anche una mandria di mucche con le ali che attraversava placidamente il cielo, muggendo e facendo segni di saluto in mia direzione con gli zoccoli. Alzai anch’io le braccia per salutarle, e vidi che indossavo una specie di calzamaglia rosa; quando abbassai lo sguardo, scoprii che avevo anche un tutù e scarpette da ballerina.
«Toh» dissi, fermandomi per un attimo e allungando il piede destro in posizione di punta «sono una ballerina»
Appena ebbi pronunciato quella frase, la sensazione di distacco corporeo mi colse, e decisi di provare a volteggiare nell’aria e nell’oscurità della notte come una vera ballerina.
Canticchiai a mezza bocca Per Elisa di Beethoven, l’unica canzone classica che ricordavo al momento, e i suoni mi sembravano così vuoti e lontani mentre piroettavo sulla strada.  Di lì a pochi minuti, i fuochi che bloccavano il passaggio scemarono, e andai a ballare su uno spiazzo erboso dove delle anatre che indossavano degli stivaletti antipioggia gialli e rossi, quando mi videro, se ne andarono contrariate, aggiungendosi ad una marcia di pinguini di tutti i colori che andava verso il centro della città.
Il drago che avevo visto durante il mio primo viaggio si appollaiò sull’albero dirimpetto a quello dove stavo io, e mi incitò a danzare ancora per lui.
«Ma certamente, mio buon drago» gli risposi, inchinandomi e facendolo ridere.
Feci alcuni plié provando a dimostrare una certa eleganza, dopodiché mi esibì in due piroette perfette e provai a fare una sforbiciata in aria, ma purtroppo saltai male e caddi.
Il drago si mise a ridere.
«Vorrei proprio vedere, se cadessi tu da quell’albero» lo rimbeccai «cosa ci sarebbe da ridere»
«Non sono mica come te, Henry» mi rispose lui, sempre ridendo.
«Guarda che io non mi chiamo Henry. Io voglio chiamarmi Saturno, da oggi» affermai, massaggiandomi la caviglia sinistra, che mi doleva.
«Ehi, tutto ok?»
Il drago smise di ridere e si voltò nella direzione da cui avevamo udito la frase.
Quella che aveva parlato era sicuramente la voce di una ragazza, ma prima di voltarmi decisi di osservare la reazione del drago; lui guardò per un momento la terza persona, poi spalancò i suoi grandi occhi da rettile e, lanciando un grido, se ne volò via, facendo oscillare pericolosamente l’albero mentre numerose foglie cadevano a terra.
«Ehi, dico a te, stai bene?»
Stavolta mi girai.
La voce era quella di una ragazza, ma l’aspetto non lo era affatto: era una creatura non molto alta, senza capelli e dal volto rugoso, senza palpebre e occhi scavati, spalancati e cerchiati di nero. Il naso era completamente senza carne, era ridotto a due soli buchi, ed i denti mezzi rotti erano completamente scoperti, visto che le labbra erano ridotte a due linee sottili e piene di crepe.
Urlai per l’orrore, e la creatura mi guardò incuriosita.
«Scusa, ma ti ho visto cadere e…»
«Vattene via, mostro!» strillai, impazzito, mentre lei continuava ad avanzare.
«Guardami,» disse, allungando le braccia a mostrarmi mani rugose e dai lunghi artigli «non voglio farti del male, ok? Voglio solo vedere se stai bene»
Scalciai con tutte le forze che avevo, e la creatura mi cadde letteralmente addosso. Lanciò un urlo stridulo, ma in pochi secondi le montai sullo stomaco e iniziai a colpirla con tutta la forza che avevo.
Sferrai quanti più pugni potei, finché dalla sua faccia cominciò a uscire un liquido violaceo raccapricciante; nonostante ciò, continuai a colpirla ancora e ancora, per assicurarmi che fosse fuori combattimento.
Rimasi fermo ad osservarla: sembrava morta, non si muoveva più. Mi guardai attorno, presi un sasso abbastanza grande e glielo pestai ripetutamente sulla testa, per parecchio tempo.
Quando ebbi l’assoluta certezza che quella bestia immonda era morta, mi alzai per tornare a casa. Dietro di me, un pinguino sotto forma di cartone animato e che indossava un costume da bagno mi chiese se fossi disposto a fare un po’ di strada con lui, che andava a trovare una zia in India. Gli risposi che per me sarebbe stato un vero piacere e camminammo parlando del più e del meno, e mi disse di come aveva perso parecchi soldi giocando in borsa a Wall Street e di come voleva andare in India a vendere ghiaccioli per iniziare una nuova vita.
Una volta a casa lo salutai ed entrai, mentre il mio Come Down stava cominciando.
In sala, Matt e Nathan stavano discutendo, mentre Caleb si era buttato in piscina e stava nuotando a stile libero.
«Devi darmene ancora!» strillò Nathan, avvicinandosi minacciosamente all’amico.
«Ne hai già fumato troppo oggi» ribatté l’altro, allontanandosi «cinque sono tantissimi, Nat»
«Mi serve, cazzo! Lo sai che mi serve!»
«No, no! Basta così.»
Nathan sparì in cucina e ne riemerse poco dopo, con una pistola in mano.
«Calma calma calma» si allontanò Matthew, con le braccia alzate «vedi di non fare cose di cui potresti pentirti»
«Dammi il mio crack oppure giuro che ti apro un buco in testa e me lo prendo da solo»
«Guarda che se mi spari avrai un bel po’ di cose da spiegare, sai?»
Nathan rise. Una risata isterica, drogata.
«Io? Guarda che se non era per me, te lo sognavi di rifornire il preside Sullinger, chiaro? Credi di avere il culo parato solo perché spacci a livelli alti? Scusa, ma chi è che registra ogni incontro con lui, eh? Chi è che si assicura che noi, tutti noi, possiamo andare avanti con questa merda senza che nessuno venga a rompere? Il sottoscritto, ecco chi!»
Matthew sospirò.
«Senti, se metti giù la pistola giuro che ti do due dosi. Però prima la devi rimettere a posto, ok?»
L’altro soppesò l’offerta.
«Due dosi,» ripeté Meth-Head «tutte per te. Devi solo mettere giù la pistola.»
Lentamente, Nathan poggiò l’arma sul tavolino da caffè; Matt gli si avvicinò.
«Ecco, tieni» disse, porgendogli ciò che aveva promesso «sono un uomo di parola»
Il ragazzo afferrò il tutto e salì di sopra, sbattendosi la porta della sua stanza alle spalle.
Matt si rivolse a me.
«Allora, come ti senti?»
Io mi sentivo molto triste e ansioso, e avevo anche un po’ di tachicardia.
«Non ti preoccupare,» mi rassicurò il mio amico «sdraiati qui e cerca di rilassarti, ok? Io vado a cercare Curtis… Caleb!» strillò, accorgendosi del ragazzo che stava ancora nuotando «esci subito da quella piscina!»
Sentii le sue urla che si affievolivano sempre di più, mentre scivolavo in un sonno profondo.
 
«Grant, si svegli»
Qualcuno mi stava scuotendo senza riguardo, costringendomi a svegliarmi.
«Matt, ancora cinque minuti…» sbiascicai, girandomi dall’altra parte.
Quattro braccia muscolose mi sollevarono dal divano e mi misero in piedi; aprii gli occhi e, benché ancora intorpidito, riuscii a distinguere agenti di polizia che avevano invaso la casa della Fratellanza.
«Lei è Henry William Grant?» mi chiese uno di loro, con aria arrabbiata.
Mi guardai intorno e vidi che mancava davvero poco all’alba; in fondo, non avevo dormito poi molto.
«Sì, sono io…»
Il poliziotto mi porse la mia stessa carta d’identità, ma prima che potessi afferrarla la ritirò.
«È stata trovata sul cadavere della signorina Melissa St. George, picchiata a morte questa notte a un isolato da qui»
Ero confuso, certo, ma in un secondo mi balenò davanti l’immagine del mostro che si appropinquava lentamente e inesorabilmente a me, mentre il drago se l’era data a gambe (anzi, ad ali).
«Io non…»
«Signor Grant, deve venire con noi»
Mentre mi trasportavano sull’auto della polizia, vidi che anche Caleb, Curtis e Matthew erano stati portati in altre tre macchine. Mi fecero salire e poi rimasero fuori qualche secondo a parlare.
Pochi secondi dopo, vidi una barella coperta da un telo di plastica nero avviarsi verso un furgone bianco, trasportata da quattro uomini anch’essi vestiti di bianco.
Quando i poliziotti entrarono in macchina, chiesi a cosa fosse servita.
«Non lo sai?» mi disse il guidatore, con tono beffardo «il tuo amico Nathan Moore è andato in overdose stanotte. È morto.»
Rimasi in silenzio, mentre il mio cuore batteva all’impazzata. Ma no, non era per Nathan, né perché ero seduto in auto della polizia.
Era perché l’LSD provoca la tachicardia.
 
 
 
 
Henry Grant consegnò il blocco nero direttamente in mano al dottore, che lo fissò per qualche attimo.
«Hai scritto tutto? Sicuro?» gli chiese, spostando lo sguardo su di lui.
Henry guardò il diario.
Era sicuro di aver messo tutto quel che era successo.
«Tutto quello che ricordo, dottore»
«Perfetto, allora. Ci vediamo tra due giorni»
Il ragazzo si voltò per uscire, seguito a ruota dalla guardia che l’aveva accompagnato, ma poi si bloccò.
«Dottore,» chiese, con voce tremante «crede che sia proprio impossibile per me vederli un’ultima volta?»
Il dottore lo guardò a lungo, con quei suoi occhi che sembravano così buoni e compassionevoli.
Aveva deciso che non gli avrebbe detto che Caleb, a causa di una grave crisi d’astinenza, si era suicidato tagliandosi i polsi con una sporgenza tagliente del letto della cella, né che Curtis era stato trasferito in un ospedale psichiatrico più attrezzato di quello perché a furia di fumare canne si era bruciato tutte le cellule cerebrali, né tantomeno che Matthew era stato messo in isolamento perché la figlia del preside Sullinger, così piccola e innocente, aveva ingerito una quantità copiosa di cocaina ed era morta di overdose, causando la rabbia e la voglia di vendetta di tutti i detenuti del carcere in cui Meth-Head era rinchiuso.
Aveva stabilito di tenere tutte quelle informazioni per sé.
Provò a sorridere a quel ragazzo così solo, che non riusciva a passare una notte senza sognare quel mostro che aveva ucciso e rimanere poi sveglio a piangere.
«Magari sì, caro» gli disse, facendolo sorride.
Magari sì.



    

                              "Comprare droga è come comprare un biglietto per un mondo fantastico,
                                              ma il prezzo di questo biglietto è la vita"


                                                                   - Jim Morrison
  
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