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Autore: TheEldestCosmonaut    15/08/2015    2 recensioni
Una rielaborazione del mondo fantastico ideato da Leandro Consumi e Gianfranco Enrietto, e sviluppato da Giochi Preziosi ©.
In una un tempo sperduta e sconosciuta isola del Grande Golfo, situata alle porte dell’inesplorato Mare dei Serpenti, un anziano maestro nato e cresciuto qui, dal passato oscuro e dall’identità misteriosa, noto a tutti, fuorché la moglie, come semplicemente il Cronista, riunisce ogni mattina i giovani del suo Popolo di appartenenza, il Popolo della Foresta. Il Cronista insegna ai cuccioli della sua etnia la storia lunga della razza che domina l’Isola di Gorm: in particolare, è arrivato il momento per il Cronista di narrare le vicende degli ultimi cinquant’anni circa dei gormiti, i più intensi e sanguinari, quelli che maggiormente hanno sconvolto le usanze, la filosofia, la scienza, e in generale la realtà intera dell’isola, e che hanno aperto i suoi abitanti alle altre razze del Grande Golfo.
Mappe:
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Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Il Cronista sollevò un braccio; appoggiato il bastone che reggeva con l’altro, indicò, torcendo un poco il primo braccio, una curiosa marcatura di forma irregolare e ingrigita.
“Qui è dove Orrore Profondo mi ha bruciato. – enunciò, in tutta tranquillità – Fortunatamente è un po’ nascosto e non si nota molto, altrimenti…”
“Basta!” Osmaniu si rizzò in piedi esausto e stravolto. I suoi occhi trasudavano impazienza ed agitazione – di fronte a quelle rivelazioni, gli occhi di chi non avrebbero? – come anche la sua mandibola tremante che non riusciva a tenere serrata e le gambe frenetiche, i piedi in continuo battito sul pavimento. Dal momento in cui di Radiclon, nella narrazione del maestro – e padre – fu accennato di una curiosa specialità, Osmaniu era sempre sull’attenti e quando fu chiarito di che cosa essa si trattasse entrò in una condizione di agitazione irresistibile. Il Cronista se lo immaginava saltare su dalla sedia in qualsiasi momento; sin da prima della metà del racconto, fremeva, doveva parlare, sfogarsi, e il Cronista si vide più volte costretto, con movimenti secchi della mano, più decisi e forti colpi a terra del bastone, e persino a voce, a trattenerlo e imporgli il silenzio, desiderando tutto meno che quella narrazione, una delle più importanti se non addirittura la più importante in assoluto, venisse interrotta, e bruscamente come l’irrequieto e perspicace vulcanico aveva senza dubbio intenzione di fare.
Lafivias, d’altra parte, reagiva a quelle implicite rivelazioni in modo del tutto differente, all’opposto. Nel totale silenzio e nella più completa rigidità del corpo, la mente annebbiata da una tempesta di pensieri e riflessioni che non trovavano espressione materiale. Penna e taccuino giacevano inutilizzati e freddi sulle sue ginocchia da qualche tempo. Per quanto detto così possa sembrare esagerato, Lafivias era comunque più tranquilla di Osmaniu, in virtù del fatto che non era a conoscenza dei poteri del maestro, almeno non direttamente come il figlioletto. Forse gliene aveva parlato? Il Cronista, Radiclon, non lo sapeva.
“Non-non…ah! – esclamava il giovane vulcanico, senza sapere cosa dire o nemmeno come sentirsi: pareva alternare disperazione, frustrazione, e una gioia immensa – Tu, maestro…papà…no. Mio padre a…io sono stato adottato da, da Radiclon Strapparami!”
Si portò le mani alla testa – se avesse avuto dei capelli, corna o qualsiasi altro genere di sporgenze sul capo, vi avrebbe senz’altro infilato le dita e tentato di tirarsele o strapparsele – un sorriso infuocato ed enigmatico per il quale il volto era storpiato, tanto forti e incerte erano le emozioni che lo scatenavano. Il Cronista, dal canto suo, si limitò a ricambiare un sorriso molto più debole come intensità, ma profondo e pieno di serena soddisfazione e di pacifico sollievo. Alla vicinissima fine dei suoi giorni, dunque, l’arcano era stata svelato. L’identità di colui che da decenni, per l’intera popolazione di Gorm, e non solo, tranne poche eccezioni, si faceva passare sotto il nome misterioso e funzionale di Cronista non era più un segreto. E non si trattava certo di un gormita qualunque! Sì, per il momento solo il figlio – era più che giusto che lo sapesse prima di altri – e la fidanzata di lui conoscevano, ma ben presto avrebbe fatto in modo che divenisse una cosa pubblica.
“Mio padre adottivo – continuò Osmaniu, additando l’anziana figura sorniona e seduta – è Radiclon Strapparami, un…” Le vibrazioni della parola ‘eroe’ riverberarono per le labbra socchiuse e all’improvviso incerte del gormita, senza trovare manifestazione in un suono compiuto ed udibile; non un eroe, no: non l’avrebbe definito come tale in sua presenza, e forse mai, non dopo aver udito ciò che era veramente successo, dopo aver rivissuto attraverso la magia della narrazione il rimorso che il Cronista, al tempo un soldato insicuro chiamato in una missione di cui non era convinto, aveva provato sulla sua pelle e visto con i propri occhi, gli unici che potessero ancora ricordare i dettagli di quel momento – Darnogos era ancora vivo? Chissà.
“…un gormita che è passato alla storia. – si risolse a dire, repentinamente calmo, Osmaniu – Che è passato alla storia per due volte! Come Strapparami, e come Cronista…”
“Tre volte, nella mia storia, come mio padre.” Disse infine, in un eccesso di affetto pienamente inaspettato. Come inaspettato fu l’abbraccio che diede al padre, il Cronista, Radiclon.
Sarebbe rimasto congelato in quell’abbraccio per l’eternità, avrebbe persino voluto morire in quel caldo rifugio. La fine delle cose non era come se l’era aspettata: vivere in compagnia, morire da soli, si suol dire. E il Cronista per circa due anni vi aveva creduto ciecamente; ora sapeva che non era vero.
“Ehi, ehi, piano! – riuscì dunque a dire, spingendo dolcemente Osmaniu, ridendo – Sarò anche stato Strapparami, ma ora sono vecchio e fragile, vacci piano!”
Osmaniu si sciolse dal padre accondiscendente e per nulla preoccupato, sapendo bene che le parole del Cronista erano più esagerate che veritiere. Lo fissò negli occhi per alcuni istanti, il caos di emozioni che precedentemente lo dominava risolto e concentrato in una condizione di allegra quiete. Tornò a sedere, tranquillizzato dopo quelle escandescenze. Lafivias gli sorrise e gli strinse una mano quando tornò da lei.
Fu lei la prima a rivolgere delle tremanti parole al ‘nuovo’ gormita che aveva davanti.
“Maestro, – iniziò, imbarazzata – Per-per me è davvero…un onore, un…una gioia poter parlare con un personaggio come voi! Prima eravate solo, ‘solo’, il Cronista, ma ora…ora che so chi siete veramente e cosa avete passato e perché avete fatto quel che avete fatto…mi sento di fronte a una grande persona, davvero. Non lo so spiegare bene nemmeno io e…”
Il Cronista tese una mano in avanti, facendo immediatamente calare il silenzio nell’aula: “Ferma così, Lafivias. Temo tu non sappia quel che stai dicendo. Certo, capisco che ritrovarti davanti, non lo nascondo, una ‘celebrità’ faccia un certo effetto. Ma d’altronde per te il Cronista era già una celebrità, no? E poi, davvero, mi sopravvaluti. Nella mia vita non ho fatto altro che eseguire il mio dovere, quando ne avevo uno, e sopravvivere. Semmai puoi ritenermi fortunato, e null'altro, perché sono riuscito a sopravvivere facendo ciò che mi piace. È una cosa che auguro a tutti.”
Lafivias guardò basso, ancora più imbarazzata, ma paga; mormorò, appena percettibile, così velocemente che sembrava avesse detto un’unica parola: “Voi invece vi sottovalutate. Siete una grande persona, e molto importante per me, per avermi fatto conoscere Osmaniu.”
“Ha ragione Lafivias, papà! – subentrò con rinnovata ferocia Osmaniu, probabilmente per nascondere le vere parole della compagna – Ti sottovaluti molto, ricordi quando ero stato catturato da Grandalbero e da quegli altri pazzi?” Appunto.
Lafivias, dapprima serena, fissò il fidanzato sconcertata. Salvato da Grandalbero? Pazzi?
“Osmaniu…ma di che parli?” domandò dunque.
“Una cosa che non ti ho mai detto, scusami. – disse lui, sentendosi leggermente colpevole per quella mancanza – È che non sapevo se lui sarebbe stato d’accordo…ma lui, quest’uomo – e indicò con orgoglio il Cronista seduto e silenzioso – in una notte di due anni fa, quando ero scappato nel bosco, mi ha salvato da Grandalbero, sì, il Signore della Foresta, e altri pazzi come lui, cultori degli Osservatori che volevano sacrificarmi a loro.”
“Che-che COSA?! – sbraitò Lafivias – Volevano, volevano sacrificarti?! Oh, ma quante ne hai passate?!” Si alzò e, lasciando cadere penna e fogli, si gettò al collo di lui abbracciandolo fortemente. Così stretti, lei staccò un attimo il viso dalla spalla di Osmaniu per scambiare uno sguardo fugace ma pieno al Cronista, comunicandogli una riconoscenza che certo il Cronista non sentiva di meritare. Era stato tutto un caso, dopotutto. Non riuscì però a non sorridere e ad avvertire un potente calore. Fin troppo.
Oggi è decisamente la giornata dei sentimentalismi. – pensò stringendo i denti – Mi sento un sasso.
Avrebbe senz’altro desiderato controbattere alle parole di Osmaniu, che nella sua posizione, che fosse vecchio o meno, chiunque avrebbe agito come aveva agito lui, di fronte a un tentativo malsano di omicidio. Be’, non proprio esattamente come lui, di questo doveva darne atto.
“Maestro! – esclamò vitale la ragazza una volta ricomposti e seduti, attenti a possibili nuove parole – Raccontateci altro! Di come è finita la guerra, ad esempio, se il racconto non prosegue nella prossima lezione, o di voi. Sono sicura che la vostra vita sarà molto interessante.”
“Come volete voi. – acconsentì lui – No, posso dirvi alcuni dettagli anche oggi…anzi, ci ho ripensato. Meglio domani. Quindi volete sapere la mia storia?”
“Sì!” gridò Lafivias.
“Assolutamente.” Osmaniu incrociò le braccia.
“D’accordo. Tuo padre, Lafivias, non sarebbe d’accordo che usassi le ore di lezione così, ma uno strappo alla regola ci sta, se siete così interessati.”
“Be’, anche una biografia fa parte della storia, no?” disse ammiccante la terricola. Trovava sempre un compromesso!
“Ehm, non lo posso negare. Dunque, la mia storia, allora, non comincia con me. – iniziò – Ha inizio nell’anno buio e lontano del Grande Sacrificio. Mio nonno è in fuga dagli spietati guerrieri del Vulcano di allora. Ha perso la moglie per mano loro. Ma di lei possiede ancora qualcosa, qualcosa di molto importante, qualcosa che avrebbe dovuto condividere con lei: un uovo. L’uovo di mia madre, stretto tra le braccia mentre fugge per la Foresta Silente verso la costa occidentale, dove migliaia di gormiti stretti su piccole barche cercano la salvezza nell’eterea Karmil.”
“E pensare che non era una storia interessante, papà!” gridò Osmaniu.
“Osmaniu, un po’ di tatto. Stiamo parlando di suo nonno…tuo bisnonno, in fondo.”
“Karmil è ospitale ed accogliente per i numerosi fuggitivi di Gorm. – continuò imperterrito – I serenissimi ka’nhili hanno aiutato ognuno e ciascuno di essi a vivere bene, integrarsi nella società di Karmil nella quale i gormiti trovarono occupazioni molto stravaganti, e anche a dimenticare gli orrori e le perdite, grazie ai loro insegnamenti. Mio nonno crebbe mia madre quasi da solo, di tanto in tanto si faceva aiutare da balie ka’nhili, ma, se non ricordo male, non apprezzava i loro metodi e preferiva arrangiarsi.”
“Che tipo di metodi?” chiese Lafivias. Sembrava preoccupata.
“Non lo so con esattezza, cara. – rispose – Mia madre è stata cresciuta in parte dai ka’nhili, non io. Io sono stato cresciuto secondo la tradizione e i modi tipici dei gormiti, anche se la vita su Karmil si è fatta sentire in contrasto con la mia cultura pregressa. Nacqui nel 855. C’erano numerosi altri gormiti su Karmil, anche della Foresta come la mamma, ma in nessuno di essi trovò un compagno di vita ideale. D’altra parte però non voleva nemmeno ritornare alla sua vera casa, su Gorm. Non ho mai capito perché. Dopo il ritorno dei gormiti e del Vecchio Saggio, il nonno ci faceva spesso dei viaggi. Fu Gorm a venire da lei. Conobbe Paludis, e fu subito amore.”
“Paludis? Questo nome non mi è nuovo.” Bisbigliò Osmaniu battendosi l’indice sul mento.
“È un nome come un altro. Forse qualche tuo amico. – cercò di farlo tacere Lafivias; poi rifletté: il nome era familiare anche a lei – Però, c’è stato un Paludis importante. Un superstite del Grande Sacrificio, uno di quelli salvati e portati via dal Vecchio Saggio. Poi Saggio della Foresta, mi sembra. E quello che ha rivelato della rinascita. Ma di sicuro è un altro Paludis. No?”
Il Cronista rise sotto i baffi. “Mi dispiace contraddirti, ma sbagli. È proprio lo stesso Paludis. Se ricordate bene il suo personaggio, e se ho reso bene il carattere, mi sembra ovvio che la mia (passata) abilità nella lotta non posso che averla appresa da lui!”
“Non ci credo. – tuonò Osmaniu – Strapparami, Cronista e figlio di Paludis! Quel Paludis! Papà, mi sorprendi sempre di più. E pensare che queste cose le so solo ora…”
“Quindi, maestro, – soggiunse Lafivias – in voi non c’è nulla del materiale dei gormiti ricostruiti dal Vecchio Saggio. Siete puro. Un gormita originale, un vero gormita.”
“Non mi definirei in questi termini, Lafivias, e mi allarma che tu la pensi in questo modo. – disse severo – Siamo tutti gormiti in ugual maniera, ricordalo.”
“Va bene. Continuate.” Tagliò corto.
“Mio padre Paludis scoprì, forse prima di me, il mio potere speciale. Doveva averlo già visto in precedenza, per me era completamente nuovo e ne avevo paura. Lui sosteneva che fosse il vero potere della Foresta, ma in alcuni era più marcato, come in me. Non era sempre su Karmil, dopo un po’ di tempo, e quando c’era, sì, era un buon padre, ma quando eravamo da soli si dedicava quasi esclusivamente ad allenarmi. Lotta generica, magia, forza magica in entrambe le vie…e poteri elementali. Erano allenamenti strazianti, a volte, ma riusciva a motivarmi. E riuscii a strappargli la promessa che, in cambio di farmi plasmare da lui in un guerriero unico, mi avrebbe portato su Gorm. Sì, perché contrariamente a mia madre io ero affascinato da casa.”
“E poi?” domandò Osmaniu, notando che il padre si era interrotto. Da alcuni cambiamenti nella sua espressione, il Cronista avvertì che temeva si sentisse male. Anche se stava benissimo, stava solo prendendo tempo.
“E poi niente, lo sapete. Radiclon arrivò a Gorm dopo quasi vent’anni vissuti a Karmil, si iscrisse al Torneo di Astreg e vinse (Paludis era estremamente felice, considerando che fra tutti coloro che aveva allenato, solo Zetsel il Picchiatore era giunto in finale, e lo aveva deluso consegnando la vittoria a Gravitus), e il suo potere destò sospetti, paure ed interesse. Un interesse che, a guerra avviata e Radiclon arruolato come volontario, spinse diversi capoccioni nell’esercito a richiamarmi per la missione che avrebbe dovuto concludere la guerra e che…vedrete, domani, se la concluse davvero. Vi racconterò anche il resto della mia storia.”
Si alzò dallo sgabello, reggendo con entrambe le mani al bastone – nell’atto alcune sue ossa scricchiolarono, facendo preoccupare lui stesso oltre che i due giovani – si avviò alla porta, facendo alzare nel tragitto anche figlio e fidanzato, e spingendoli piano davanti a sé, indirizzandoli all’uscio dell’aula delle lezioni.
“Su, su. La lezione è finita, è durata anche troppo. – diceva, premendoli leggero ma insistente con colpi di bastone – Andate a divertirvi o, se volete, andate in giro a dire che Radiclon Strapparami è ancora vivo ed è tra noi. Voglio stare un po’ da solo.”
Assentendo silenziosi, i due si diressero, mano nella mano, fuori dalla stanza e giù per il corridoio, e poi oltre il campo visivo, verso l’uscita dal Tempio di Roccia.
Il Cronista si scrollò di dosso la mole di emozioni esuberanti ed anche opprimenti che la recente narrazione gli pesava sulla schiena, sul cuore, sulla mente e sugli occhi. Sì, si sentiva vagamente stanco e anche assonnato. Rimosse ogni goccia di stress e di ogni genere di sentimento dal suo corpo legnoso per pensare a mente pulita ed asciutta, riflettere a sangue freddo e in tranquillità, nella karmiliana serenità, sui fatti recenti e su ciò che lo aspettava ora.
Cosa lo aspettava ora? Se lo chiese ripetutamente, avanzando lentamente per il lungo corridoio, sul cui pavimento i ‘passi’ del prezioso bastone grigio si percuotevano con più intensità dei suoi stessi piedi, dando l’impressione di fatali rintocchi di un gigantesco orologio contenuto nelle pareti stesse del corridoio, sotto la pietra, sotto il tappeto, tra i busti posti sulle colonne ad ornare l’altrimenti vuoto passaggio.
Uno tra quei busti destò particolare attenzione nel Cronista, deviandolo dalla sua intenzione di riflessione, uno su cui si era già soffermato, due anni prima: il suo. Un volto giovane e da lunghi e fluenti capelli nodosi rivolti verso l’alto come potenti radici di un albero capovolto, che anche attraverso la fredda, immortale e immota roccia riuscivano a trasmettere la vitalità e lo slancio che scorrevano in esse al tempo in cui la scultura fu realizzata. Da un uomo che forse era a conoscenza, o indovinava, i sentimenti che aveva dovuto provare Strapparami. Infatti, gli occhi trasmettevano assenza, tormento interiore, e il sorriso appena accennato sulle labbra sottili era evidentemente forzato. Eppure, il piedistallo e la posizione dell’opera in quel corridoio, tra tanti altri gloriosi combattenti del passato, lo definivano come eroe.
Più e più volte, dovendo correre per quel corridoio per raggiungere la sala delle lezioni, aveva poggiato gli occhi su quel busto e in lui si animava una voglia quasi irrefrenabile di prenderlo e scagliarlo giù dalla finestra. Quel giorno non fu così. Sorrise, anzi, nell’osservarlo con fare studioso. Sorrise a se stesso, come in uno specchio. Senza capire come, senza capire perché, quel fendrie del 931, Radiclon Strapparami il Cronista era fiero di essere entrambe le identità, con tutto ciò che questo comportava. La strada dello storico aveva reso giustizia non solo ai fatti, ma alla verità, ai sentimenti di chi la storia l’ha vissuta personalmente. Picchiavex, Trematerra e gli altri assassini del suo gruppo non erano morti invano. Vivevano ancora, grazie a lui. Forse era tutto predestinato, già scritto…
Le lezioni di Lafivias non erano ancora terminate. Ciò che più premeva, con il fiato della morte sul collo, al Cronista di narrare, era stato narrato, e poteva dirsi più che soddisfatto, nonché fortunato che il tempo gli avesse concesso quel dono. Che fare ora? Trovandosi forse troppo ambizioso e perfezionista, aveva ancora un ultimo desiderio. Sarebbe stato giusto interrompere il proprio lavoro per dedicarsi a questo suo sogno, o attendere e rischiare che il tempo, questa volta, non fosse più prodigo di regali? Entrambe le opzioni non lo soddisfavano. Terminare compiutamente le lezioni e poi abbandonare Garsomor era impossibile, lo sentiva. Se non altro c’era un dettaglio del futuro a cui ambiva di arrivare: la rivelazione del tradimento di Ricardo Tarrant. L’amico del Vecchio Saggio e capitano della Mudras. Aveva subito dei ricatti, prima della partenza: Razael Akkars era divenuta una personalità scomoda nella sua città, e certi uomini di politica trovarono i giusti strumenti per toglierlo di mezzo…solo molto dopo la ‘morte’ ‘accertata’ dello stregone e la partenza di Magor questi infidi dettagli vennero alla luce…ma questa era un’altra storia e il Cronista trovò insensato rifletterci proprio allora.
Raggiunse un terrazzo e si appoggiò alla balaustra. Lì, fissò il cielo. Ancora pieno pomeriggio, era caldo e luminoso, nonostante le fosche nubi della stagione piovosa rendessero quel panorama grigio e decadente. Il sole non faceva breccia tra le nuvole, non si vedeva un angolo di blu né le lontane lune. Cercò di localizzare Greemerald, Chelreba per il resto del mondo. Non aveva dimenticato ciò che aveva vissuto, ciò che aveva scoperto quella stessa mattina, all’incognita di tutti. Era quella la causa primaria della sua stanchezza, altro che la lezione impegnativa. La storia e la narrazione erano passioni, le faceva con gusto e senza fatica. Le rivelazioni di Fossil e degli Spiriti, al contrario, non si sopportavano facilmente. Aveva davvero capito tutti quei discorsi enigmatici, giù nella Fossa? Il Cronista titubava. Credendo o non credendo a quelle parole, solo una minima realizzazione di ciò che comportavano, solo il ricordo di averle sentite impresse come chiodi nel suo cervello, lo ponevano in una condizione di instabile equilibrio tra un pianto sfrenato e una risata isterica.
Resisteva. Chiedendosi cosa effettivamente aspettasse, ora, i gormiti sulla luna verde, si precipitò nelle sue stanze, mettendo per iscritto le parole di Fossil, e constatando che quei pensieri, nonostante la stanchezza fisica, non gli permettevano di riposare.
 
<<28 Redrubise 880. Un vento assurdamente fresco, inverosimile per il pieno della stagione secca, spirava dallo sconosciuto oriente, dalle spiagge e dai boschi e dalle montagne oltre la cupa e abbandonata Tato Yami, ormai patria di un popolo spento e rassegnato; un vento che faceva ondeggiare le decine di imponenti ed organizzatissimi galeoni d’esplorazione ormeggiati sulle fatali sponde orientali di Darth Kuun. Alle spalle delle ardite imbarcazioni, dopo una sottile striscia di sabbia fine, oltre una frastagliata, rocciosa ed impervia scogliera, si apriva la desolata Valle dei Canyon, e la sterminata distesa del Deserto di Roscamar. Di fronte ad esse, confine tra Gorm e Oscuro Orizzonte, nelle profondità dell’insondato mare, nuotava incessantemente famelica e vitale l’unica divinità terrena che ancora impediva, distrutti gli esacerbanti odi razziali e di ideali, l’accesso dei gormiti al mondo sconosciuto e colmo di sogni e di progresso che si distendeva oltre l’orizzonte oceanico su cui si stagliava l’ombra di Tato Yami. Un mondo a cui dovevano aprirsi e che sapevano essere proprio laggiù.
Su quella stessa spiaggia, attraverso uno di quegli stessi sentieri che perforavano la muraglia pietrosa che troneggiava sul tenuissimo strato di spiaggia, circa settanta anni prima un uomo, un elfo era tragicamente approdato in quell’isola a lui tanto sconosciuta quanto i nomi delle regioni del Grande Golfo lo erano per i gormiti. Da quel momento, il mondo non era più stato lo stesso per i gormiti. Ora, era il turno delle altre razze a fare la conoscenza della civiltà di Gorm e, soprattutto, essere al corrente delle prodezze compiute da Razael Akkars il Vecchio Saggio e dallo Stregone di Fuoco Magor Vasìr.
Nulla poteva in alcun modo impedire ai gormiti di compiere quell’intrepido viaggio verso le coste sconosciute, mentre il vento faceva vibrare il legno delle navi e la tela delle vele, insieme all’aspettativa e al pericolo i loro cuori. Non la prospettiva di lunghi mesi in mare, lontani da casa, per la prima volta in secoli – eccezione fatta per i gormiti che dovevano l’esistenza al Vecchio Saggio. Non la possibilità di un’accoglienza poco gradevole da parte degli elfi o dei vici, che si vedevano attraccare ai loro cari porti navi armate ricolme di quelli che ai loro occhi non potevano che apparire come mostri. Non il rischio mortale che rappresentava la Grande Piovra. Non le problematiche interne, da alcuni anni messe a tacere definitivamente, o quasi.
Le Guerre di Riconciliazione erano terminate. Si era rivelata significativa come sperato la missione di assassinio nei confronti dei Triumviri da parte del gruppo di soldati capeggiati dal fu Tremoriu Trematerra. I fuggiaschi vulcanici che avevano, nel 873, preavvisato gli alleati della tremenda incombenza, erano una prova schiacciante della situazione critica in cui versava il Popolo del Vulcano: i Triumviri, forti dei meriti e dei riconoscimenti per il salvataggio dell’esercito dieci anni prima, avevano preso il potere prima con i consensi e, mantenutolo, rafforzatolo con il pugno di ferro, con una vera e propria tirannia. Si erano circondati di uomini fidati, audaci e tremendi come loro, fedeli ai loro ideali tramandati dai sogni di Magor, a cui fecero ricoprire con cariche di importanza in modo tale da tenere salda la convinzione presso il popolo che la guerra era giusta e si poteva vincere. Morte le tre teste, i gerarchi rimasti non furono in grado di mantenere stabile la situazione, di tenere alto il morale di soldati e civili insieme. Gli eserciti a poco a poco andarono allo sbaraglio, comandati da persone sì competenti ma che non avevano chiari i progetti di chi li aveva messi in movimenti né avevano l’esperienza per portare a termine quella grande impresa. Si sollevarono rivolte sempre più accese e sempre meno controllate. Gli aerei di Picco Aquila contrastarono l’assedio dei centri e l’occupazione, e scacciarono i vulcanici e i loro alleati, costringendoli a ripiegare da Dalarlànd. Su Darth Kuun l’esercito che bloccava comunicazioni e movimenti al Popolo della Terra riuscì a resistere maggiormente, ma crollò definitivamente con l’arrivo, inaudito, di mercenari gargoyle richiamati da Tato Yami. I guerrieri da più fronti si riunirono e posero sotto assedio Monte Vulcano – un’impresa colossale: circondare un’intera montagna! – marciando nel percorso anche su Rabukh che quasi non pose resistenza, anzi, al passaggio dei soldati sembrò quasi felice. Ci fu la resa, e l’ambita riconciliazione. Il tempo dei conflitti per la razza, per vendicarsi del Grande Sacrificio, per l’Occhio della Vita, per il mondo, erano conclusi. Ora il mondo i gormiti ambivano sì a conquistarlo, ma non con la forza delle armi, e non divisi ma uniti come mai prima. Un primo abbozzo dell’attuale Consiglio dei Signori per governare unitamente l’Isola di Gorm era già stato gettato, così come l’abbattimento delle frontiere etniche e la fine della suddivisione politica per Popoli.
La Grande Piovra era l’unico ostacolo. Programmi per il viaggio erano stati precedentemente stilati da esperti, il naviglio era in costruzione da tempo e di coraggiosi volontari o semplici sognatori con voglia di impegnarsi ce n’erano in quantità inaspettate, tanto che le navi ultimate per l’880 erano insufficienti per tutti i gormiti. Ci sarebbero stati viaggi successivi, se quello avesse avuto successo.
Nessuno temeva il fallimento. Erano tutti pronti, seppure preoccupati, perché danni e perdite ci sarebbero senz’altro stati, ma erano convinti che ne sarebbe valsa la pena. Dopo la grandiosa vittoria sulla Grande Murena, l’ultima frontiera, per quanto incredibilmente più sfuggente, veloce e, forse, non unica, molti credevano, non poteva e non doveva essere invincibile agli sforzi dei gormiti uniti. Insieme anche ai gargoyle, esperti nella forza magica che si sarebbero rivelati utilissimi nell’iniziativa. Gli yamensi erano tuttavia, come detto prima, spenti e rassegnati, intimoriti come gli altri gormiti, ma anche molto, molto più preoccupati per il futuro approdo alle coste – dopotutto erano stati confinati a Tato Yami generazioni prima e non avevano mai tentato un ritorno – come anche incredibilmente delusi e arrendevoli. Questo perché Karmil, sin dal 878, era vuota. I ka’nhili dell’isola, nessuno sa di preciso come e perché, ricevettero un messaggio: erano riammessi in patria. Si volatilizzarono dopo questa comunicazione comunicata a Iustinsula da un singolo messaggero in armatura a piastrelle. Non ne rimase uno su Karmil, o su Gorm, o altrove nelle immediate e conosciute vicinanze. Per i gargoyle yamensi, al contrario, non ci fu nessuna piacevole sorpresa di questo genere. La loro situazione era invero triste, ma i gormiti, e i gargoyle stessi, dovevano guardare avanti. Avanti come la direzione che le imbarcazioni, aperte le grandi vele bianche, avevano intrapreso speranzose e intraprendenti. Grida accompagnarono le navi nei primi piedoni di mare, sui battelli stessi come a riva, esultazioni e urla disperate di chi si augurava, sul molo arrangiato per l’occasione, che tutto procedesse per il meglio e di non dover assistere a una disfatta epocale e a una strage in mare sotto i propri occhi.
Stormi di marini accompagnavano ognuno degli otto galeoni a nuoto, attorno ad esse e a debita distanza dalle fila di remi che, come da tradizione elfa, come Razael aveva insegnato loro, emergevano dallo scafo e coadiuvavano nell’accelerazione e nel mantenimento della velocità in concomitanza – o in assenza o in troppo debole presenza – del vento, che quel giorno si rivelava contrario ma non troppo forte, e delle correnti subacquee. A loro il difficilissimo compito di avvistare la Grande Piovra in arrivo e dare avvio all’operazione per catturarla e renderla innocua.
La bestia che infestava gli abissi nord-orientali di Gorm e gli incubi di numerosi abitanti non si fece attendere molto. Io ero lì: ritirato dall’esercito sin dalla fine della guerra per il senso di colpevolezza, avevo fatto in modo che non si sapesse più nulla di me. Avevo sogni, e ambizioni, che non mi erano ancora del tutto chiari, mentre operavo come un incognito mozzo sul ponte di quella nave. Sapevo però che volevo abbandonare Gorm, che mi aveva ‘aiutato’ a scoprire ed allenare un’inclinazione che mi aveva portato solo morte e rimorso, volevo vivere nuovi ambienti e liberare con essi cose su di me che Gorm non avrebbe potuto sollevare. Io ero lì, e vidi chiaramente l’ombra minacciosa che si stagliava appena appena sotto il pelo dell’acqua, a velocità incredibili. Le urla di coloro vicino a me, l’agitazione dei marini che l’avevano avvistato, la preparazione delle armi. Fu un caos indescrivibile, inizialmente: tutte le imbarcazioni virarono confusamente in ogni direzione, cozzando pure le una contro le altre, a volte minacciando di scontrarsi apertamente e distruggersi irreparabilmente. I remi frustavano l’acqua febbrilmente, gormiti del Mare sciamavano come pazzi nell’acqua sotto di noi. Tentacoli micidiali che non si potevano dire di una piovra, più di un rettile, di un mostro acquatico di altri mondi con la robustezza di un grande predatore terrestre, danzavano la danza della morte davanti agli occhi miei e di tutti gli altri, che a stento ci reggevamo in piedi su quelle costruzioni in legno mosse al limite della loro resistenza. Non si riusciva a dire se quei movimenti della flotta fossero intenzionali a casuali, causati da impeti di pazzia che corrodevano le nostre azioni, ma sembrava che stesse funzionando, qualsiasi fosse il suo fine, se ne aveva uno: la Grande Piovra era disorientata e non si risolveva a quale nave attaccare per prima. I suoi arti inimmaginabili si agitavano paurosamente, ma il cervello dietro quella danza rimaneva oscuro sotto la superficie. Non per molto: i gormiti del Mare entrarono in azione. Con l’aiuto delle tenebre dei gargoyle e di altri stregoni, la Grande Piovra fu strappata dall’acqua. Colonne liquide altissime e pesantissime si separarono dal mare, sollevandosi per piedi e piedi sopra di noi, sopra le imbarcazioni, scoprendo i fondali cedevoli dominati da rocce e alghe, e rivelando, incredibilmente privata della sua invulnerabilità, la bestia infame, che…che….>>
Il saggio maestro interruppe di colpo la narrazione. Bruscamente, si portò la mano libera al petto. Il cuore…il cuore funzionava, lo sentiva. Ma lui sentiva freddo, freddo tutt’intorno a lui. Aprì la bocca per parlare, per continuare a raccontare, ma non un fiato o un suono uscì dalle sue labbra.
Il gelo lo sovrastava, lo riempiva, lo ricopriva come un velo arido e soffocante.
“Papà! Papà!” Osmaniu corse forsennato verso di lui, nello stesso momento in cui il Cronista cercò di alzarsi, ma il risultato fu solo un tremendo ruzzolone giù dalla seggiola, il bastone scivolò dalle dita e rotolò per il pavimento, così come gli occhiali. Il Cronista si reggeva sulle mani tremanti, ma era come se il pavimento stesso lo stesse attirando a terra con più forza del normale, ed ogni minimo tentativo di opposizione veniva respinto con una fatica insormontabile. A nulla sembrava servire l’aiuto di Osmaniu a rimettersi in piedi. Lafivias aveva cacciato un grido e si era portata le mani alla bocca. Di nuovo, stava succedendo. Esattamente come la prima volta. Avvertiva una pesantezza infinita, una debolezza che nemmeno centinaia di diamanti pieni di energia avrebbero saputo risanare. Non respirava, si sentiva scoppiare, esplodere dal freddo e dalla mancanza d’aria. Era come la prima volta, ma c’era qualcosa di diverso, di molto più grave.
Gettò con uno slancio gravoso il suo braccio attorno al collo di Osmaniu, cercando di sollevarsi, di raggiungere l’orecchio del figlio e dirgli qualcosa di importante.
Con un impeto che gli parve di gridare a squarciagola, riuscì a sussurrare al figlio alcune parole: “Chiama…chiama Ceresa. Ceresa! Mia figlia…”
“Papà…cosa…cosa dici?”
“Naamiki…la…conosce, le ho chiesto di lei…lei è qui. Ceresa qui. Chiamala…”
In un conclusivo decisivo scatto, mormorò l’indirizzò di Ceresa. Poi perse i sensi.
 
Si svegliò nel suo letto. La luce gli feriva gli occhi. Lamentò versi incomprensibili, gemiti soffocati e inespressi, che nemmeno alle sue orecchie o alla sua mente risultavano chiaro, mentre cercava di muoversi sotto le coperte. Una prigione di tela pesantissima, che lo premeva come un macigno. Respirava, ma si sentiva soffocare sotto quelle lenzuola. La sensazione di freddo non lo aveva abbandonato e quello strato soffocante di lino non lo aiutava a scaldarsi. Un inerte velo di metallo steso sopra di lui, che non lo proteggeva né lo scaldava. Muovere un muscolo, anche agitare le palpebre, gli costava più di quanto gli fosse costato inseguire Orrore Profondo per il bosco al largo di Ilabukh ed ucciderlo. I suoi ricordi erano offuscati…ma non ciò che vedeva con i propri occhi in quel momento. Si trovava nella sua stanza, e non da solo. Alla porta, preoccupatissimo e sudato, attendeva ordini dagli altri un inserviente elfo, quello che, insieme a suoi simili, quel tale Leppelin voleva ricondurre in patria per essere posto sotto processo. A un lato del letto, vi era Osmaniu, Lafivias dietro di lui. Il suo viso infuocato era reso ancora più rosso da un pianto recentissimo e da un’afflizione immane, ora sanati da un inesplicabile sollievo.
“È sveglio! Papà, sei ancora con noi.” Gridava. Lafivias accorse al suo fianco, timorosa.
Dall’altro lato del letto, Ceresa. La figlia del Cronista, la vera figlia di Radiclon Strapparami e di Inamia.
“Padre mio…sono qui con te.”
Soavi, dolcissime, paradisiache erano per le orecchie del Cronista quelle parole da una voce che non sentiva da anni – salvo per comunicare la morte della madre – melliflui e rilassanti i movimenti di quelle labbra che da tanto, troppo tempo non vedeva rivolgere verbi a lui. Per brevissimi eterni istanti, il gelo che dominava le sue stanche membra fu più tollerabile, quasi piacevole.
Alta, molto alta e slanciata, più del genitore, era sua figlia, di corporatura apparentemente esile ma robusta – Radiclon sapeva bene come allenare, dopotutto – dipinta di una docile gradazione di marrone orlata da venature e bordi di un verde intensissimo, quasi abbagliante quando il sole lo illuminava. Petto massiccio, ampio, ma spalle insolitamente spioventi, al di sotto delle quali si distendevano due paia di braccia allungate, quello interno più corto dell’esterno, che terminavano in tre dita affusolate e sottili per ogni mano. Il suo viso, e non lo diceva solo come padre, era tra i più graziosi e articolati che avesse mai visto osservare con cerulei occhi ingenui, innocenti e curiosi prima, esperti e ricercatori dopo. Delicato, labbra sottili come quelle del padre, dalle guance, dalle tempie e dalla cima del capo prendevano forma, verso l’alto, rilievi esili, ricurvi come artigli ed affusolati come capelli d’elfo, dando nel complesso al suo volto un aspetto di irresistibile armonia.
Come il padre, e con la sua benedizione, la figlia aveva intrapreso viaggi fuori da Gorm. Di cosa si occupasse, ogni volta era diverso, ma vista l’empatia dei gormiti vegetali della Foresta per la flora, la fauna, la conoscenza intrinseca o l’intuizione di proprietà di piante o caratteristiche di animali, l’innato senso di orientamento nelle selve, ne facevano, presso le genti del Grande Golfo, cacciatori ed esploratori molto richiesti – e molto pagati.
La sua caccia si era interrotta, ora. Si era interrotta per lui, suo padre. Suo padre che, provando l’intollerabile e ancor maggiore gelo dell’aria fuori dalle coperte, mosse un braccio verso di lei. Le accarezzò il viso, toccando la cosa più preziosa che gli era rimasta e che avrebbe lasciato come sua eredità. Lisciò quelle ciocche legnose, constatando la loro morbidezza ed elasticità, ancora lontane dalla durezza e dalla rigidità della vecchiaia come era toccato ai suoi capelli. Stretta sulla guancia di Ceresa, la figlia pose la propria sulla mano del padre, poi la prese e la strinse con entrambe.
“Non sei da solo, padre. Resisti, fino alla fine!” gli disse in un gemito.
“Ah…ah! – gemette lui, perdendosi negli occhi azzurri della figlia – O…Osmaniu, vieni qui.” Lo chiamò. Quello fu subito dall’altra parte del letto, Lafivias che lo seguiva a ruota, e al fianco di Ceresa. Osservò con gioia ed afflizione quei due gioielli, luminosi di azzurro e di giallo. Non era una sola cosa la più preziosa che gli era rimasta, ma ben due.
“Mia figlia…Osmaniu, lei è mia figlia Ceresa, lo-lo sai. – disse, cose che probabilmente già sapevano – Ceresa, lui è mio figlio, come te. L’ho adottato…l’ho preso…sotto di me. Non sono riuscito a portarlo fino all’età adulta.”
“Papà!” esclamò il vulcanico, sull’orlo di un altro pianto, stringendo la mano di Radiclon tra le sue e quelle di Ceresa.
“Non dire così. – lo tranquillizzò amorevole Ceresa, accarezzandogli con una delle altre mani la fronte – Sei forte, padre. Ce la farai.”
“No. Non ce la farò. Non ce la posso fare. Ceresa, Osmaniu…questo è il mio ultimo giorno. Lo so.” Annunciò tragico in un filo di voce, le parole disturbate da una sofferenza che non riusciva a nascondere.
Tutti i presenti lo guardarono mesti. Non volevano più illuderlo, o illudersi: le sue condizioni erano irrecuperabili.
“Figli miei…voglio andare a Karmil. – disse dunque –Voglio vedere casa mia un’ultima volta…prima di morire. Se…seppellitemi là. Niente…niente cremazione.”
Alla mestizia dei figli e degli altri si aggiunse un animo allibito. Fissarono stralunati il vecchio in letto di morte.
“Padre…Karmil è lontana…non so se ci arriveremo.” Spiegò dolorosamente Ceresa.
“Non importa. Devo tornare…devo…ricordare. Non dormirò, non mi servirà più. Starò sveglio finché non sarò…a casa.” obiettò, consapevole di essere patetico, volendo conferire a quelle parole la forza della sua intenzione, le quali però non erano altro che i rantoli di un vecchio.
Ceresa, Osmaniu, Lafivias e il servo continuavano a fissarlo increduli, senza dire una parola. Radiclon avvertì un’improvvisa fitta di rabbia.
“Se non mi volete aiutare…ci andrò da solo.” Con fatica inconcepibile per i giovani al suo capezzale, si tolse di dosso le coperte e si voltò per alzarsi dal lato del letto opposto a quello su cui premevano i figli. Fu lento, fu veloce, non riusciva a capirlo. Strisciò sul materasso e cadde pesantemente dall’altra parte, prima che potessero fermarlo o impedirgli la caduta. Furono presto da lui a sollevarlo.
Gocce di lava scivolarono sul suo corpo sempre più freddo dai suoi occhi, lasciandosi alzare e mettere seduto sul letto come un pupazzo o un cadavere dai presenti, che lo osservavano con crescente compassione. Dovevano crederlo un pazzo, nei suoi ultimi momenti. Demenza senile.
“Vi…vi prego. Non sono pazzo. Per favore. – li implorò, senza freno alle lacrime – Per me…è importante. Esaudite l’ultimo desiderio di un vecchio.”
“Va bene, papà. – acconsentì infine Ceresa, occhi lucidi e viso umido, abbracciandolo – Faremo come desideri.”
Lo vestirono. Lo ricoprirono con la mantellina grigia, ben abbottonata e stretta, con cui era solito tenere le lezioni nella Foresta Silente; volle mettersi anche la sciarpa viola. Un prezioso ricordo di Inamia, suo unico vero amore. La moglie del Cronista e la madre di Ceresa viveva ancora in quel tessuto, e l’avrebbe accompagnato verso l’ultimo orizzonte. Gli gravavano sulle spalle e sul collo impossibilmente, ma non si sarebbe separato da quegli abiti. Prese gli occhiali, il bastone, a cui si reggeva stancamente con entrambe le mani, trascinandosi quasi. Ceresa a sinistra e Osmaniu a destra – Lafivias, muta, sempre al fianco – lo sostenevano e stavano al suo passo. Presero per ultimo del sale nero.
Prima di varcare la soglia, si volse verso la sua stanza nel Tempio di Roccia. Un ultimo sguardo prima del viaggio senza ritorno, a quella che era stata casa sua, una dimora stabile e permanente come mai nessun’altra, quando ancora seguiva le anacronistiche tradizioni nomadi del Popolo della Foresta. Quanto poco era vissuto lì! Due miseri anni, giorno più giorno meno, contro una vita, quasi mezzo secolo, tra viaggi nelle ignote selve della Setturnia e del Venturgio, sui monti nevosi di Inverrith, nei meandri sconosciuti di Gorm, poi il nomadismo in ogni angolo della Foresta Silente. Prima ancora, circa vent’anni di permanenza in un’unica casa, nella lontana e luminosa Karmil dalle palme esotiche e dalle spiagge bianche. L’unica vera casa che era significata davvero qualcosa per lui, la dimora in cui desiderava ritornare. Per sempre. Quanto poco era vissuto nello sfarzoso Tempio di Roccia, e quanto a lungo avrebbe ancora voluto viverci! Voleva poter lasciare quel posto con la sensazione che avesse significato per lui qualcosa di veramente importante. In un modo o nell’altro, era così. Lì era riuscito a dare una vita e un futuro ad Osmaniu, aveva riscattato il proprio benessere e la propria identità dopo gli ultimi dolorosi eventi nella Foresta. Gli anni della vecchiaia sono più lunghi e più intensi, ma due sono sempre brevi. Avrebbe voluto passare ancora del tempo con Atarros, vederlo compiere i cinque anni del suo mandato, concludere con soddisfazione le lezioni di Lafivias. Non era possibile, però, e doveva arrendersi a questo fatto. Karmil lo chiamava: doveva guardare avanti, perdersi nello sconosciuto che si apriva di fronte a lui quel giorno.
Atarros fu di poche parole. Non per fretta, non per disinteresse. Lui stesso, uomo duro e fiero, non riusciva a contenere le emozioni di quella separazione. Abbracciò a lungo Radiclon il Cronista, uomo a cui si era affezionato in quegli anni, gormita che non era solamente un dipendente del Signore come insegnante della figlia, ma un amico. Permise a Lafivias di accompagnare la famiglia di Radiclon.
“Non ti voglio lasciare adesso, Osmaniu. – diceva, stringendo le mani al vulcanico – Voglio essere con te.” Si lasciarono andare in un bacio, il primo che Radiclon vedesse sotto i suoi occhi da quando sapeva della loro relazione.
Noleggiarono una carrozza trainata da salamandre di scura scorza viola, diretti al porto di Ilabukh.
Silenzioso fu il tragitto, attraverso la desolata Valle. Le mura inossidabili di Garsomor furono presto alle loro spalle, chiuse per sempre al Cronista. I suoi viali illuminati a festa durante la notte, i pittoreschi e gioviali mercati del giorno…erano già un ricordo. Un ricordo che avrebbe serbato nel cuore, dovunque il viaggio l’avesse condotto. Radiclon non aveva che occhi per il paesaggio. Che ricordi risvegliavano in lui quelle distese rosseggianti e quelle impietose pareti e voragini scavate dal tempo? Sicuramente in numerose occasioni, a piedi, a salamandra, da solo o in compagnia aveva attraversato quei labirinti color ruggine, nel perfezionare la sua ricerca storica e ritrovare i discendenti degli uomini che avevano fatto la storia dell’Isola. Probabilmente non c’era angolo dell’Isola di Gorm che Radiclon non avesse esplorato e studiato.
Presto l’ambiente si fece meno desolato, il terreno meno rosso e fecero capolino le prime caratteristiche rocce scure di Darth Kuun. Entrarono nei domini del fu Popolo del Vulcano, ora suddivisi in Darth Kuun Nord-Est e Darth Kuun Nord-Ovest.
Abituarsi ad attraversare in tranquillità quelle terre un tempo dominate da gormiti bellicosi che distruggevano ogni tentativo di entrata degli altri abitanti era, ancora dopo circa sessant’anni, un’impresa impegnativa. Specialmente per chi era vissuto nei tempi bui quando i conflitti erano ancora accesi, per chi quei conflitti li aveva vissuti, ed esattamente in quello stesso paesaggio.
Non rabbrividì, il Cronista, nel rimettere piede in quella terra sanguinosa e memore. Il passato era passato, ormai se ne era fatto una ragione, e ciò che aveva fatto era parte di esso. Non poteva cambiarlo, anzi, ne doveva essere fiero. Della città stessa di Ilabukh, delle sue mura un tempo distrutte dall’esercito del Popolo del Mare e dei ka’nhili, Radiclon non osservò nulla in particolare. Scomparse le pianure della Valle del Vulcano, il suo sguardo era fisso sul mare, sullo Stretto di Gorm.
Sul porto vero e proprio, discesi dalla carrozza, c’era il caos. Centinaia di gormiti tutti accalcati,  spintoni, grida, prepotenti che saltavano la fila, tentativi di scippo. Pareva proprio che non fosse un buon giorno per morire, ed andare a Karmil. Radiclon scoppiò a ridere, scatenando la preoccupazione dei figli e di Lafivias. Pensò a tutto Ceresa, e Radiclon non aveva idea se il traghetto verso cui si stavano dirigendo avesse circumnavigato tutta Dalarlànd per approdare a Karmil o avesse attraccato in qualche porto a metà tragitto.
Purché fosse arrivato alla sua meta, avrebbe fatto di tutto. Avrebbe rallentato la morte.
Ceresa non ce la faceva più, tra la folla. Osmaniu non era da meno. A un certo punto sbottò: “Largo, fateci passare! Radiclon Strapparami è con noi, ed ha molta fretta!”
Fu provvidenziale. Pure se imbacuccato e invecchiato com’era, disperso da lunghi anni, quel nome non era stato dimenticato né il volto associato: lo riconobbero e fu più facile per Radiclon e compagni raggiungere il molo e acquistare il proprio biglietto per il viaggio finale.
Radiclon rise.
“Ah…non so come abbia potuto funzionare. – disse ad Osmaniu, sorridente, una volta che il traghetto lasciò il porto – Queste persone hanno paura di un vecchio? Non ci credo davvero.”
“Papà, anche se sei un vecchio, sei un gormita rispettato. – replicò lui, stringendogli la mano – Sanno chi sei e cosa hai fatto. Forse non lo sanno come lo sappiamo noi, ma per loro, sei davvero un eroe. E lo sei anche per me.”
“Per…per te, figliolo?” domandò in un fil di voce, incerto. Essere definito come eroe non lo infastidiva più.
“Sì, papà. Per me. Tu sei stato l’unico vero padre per me. Mi hai dato più di quanto avessi mai potuto chiedere. Per questo, sei l’eroe più grande di tutti.”
Radiclon scoppiò a piangere. Si accasciò a terra e abbracciò l’inaspettato figlio che aveva arricchito la sua vita altrimenti vuota e deludente dopo la morte di Inamia. Non c’era davvero altro modo per esprimere ciò che provava. Quella vita lunga ed intensa, colma di rimorsi, di pentimenti, di scelte sbagliate, di sofferenza, e di ingiustizie, continuava a sorprenderlo, persino nelle ultime ore.
La sua esistenza, giunta al termine, ora si mostrava ai suoi occhi nella sua interezza, per quello che era davvero. Di tutto quello che aveva passato, nel bene e nel male, Radiclon non rimpiangeva nulla. Mentre il mare scivolava veloce sotto di loro, sotto il legno dell’affollato traghetto, e le onde si infrangevano morbide sulla chiglia e schizzi lambivano il viso del Cronista, questi si accorse della fortunata esistenza che aveva vissuto su Gorm. Tutte le sue delusioni, tutti i suoi capricci…che stupido era stato! Radiclon aveva avuto molto più di tanti altri, molto più di quanto sperava, molto più di quanto, prima di quel giorno, si era accorto di avere.
Non era un gormita qualunque. Le sue sofferte azioni avevano posto fine a una guerra troppo lunga, era un vero eroe. Paludis sarebbe stato fiero di lui. Trematerra sarebbe stato orgoglioso. Nei suoi viaggi aveva esplorato luoghi esotici, conosciute persone di altre razze e di altre culture amabili e ricche di carattere. Aveva fatto sua una conoscenza che spaziava l’intera estensione del mondo conosciuto, ed aveva messo i suoi segreti a servizio della sua gente. Aveva salvato un innocente orfano del Vulcano, lo aveva fatto suo figlio e gli aveva offerto un’esistenza migliore.
Il cerchio si chiudeva, e Radiclon era felice. La ricchezza che aveva raccolto non poteva essere contata: era nel suo cuore. Essere ricchi era ricordare, rivivere una memoria, fare tesoro delle proprie esperienze, delle piccole cose. La storia della sua vita era stata costellata dalla solitudine, dalla fatica, la libertà di spazi aperti, dalla speranza, da migliaia di piedi da percorrere e da scoprire. Dagli sconosciuti che aveva incontrato sul suo cammino, dai bivi, dalle promesse. Alla fine dei suoi giorni, raccoglieva ciò che aveva seminato, e di fronte a lui si accumulavano frutti dorati, che sarebbero sopravvissuti alla sua partenza da quel mondo.
Capì, allora, quanto era stato egoista, egocentrico, capriccioso in numerose occasioni dei suoi anni, e quanto era stato fortunato, quanto il caso che governa il mondo gli era stato sempre al suo fianco, per poter godere di tutto ciò che ora si lasciava alle spalle, ma con serenità.
Casa sua non era Karmil. Non era Garsomor né Gorm. Casa sua era lì con lui. Ceresa, Osmaniu, Lafivias. Inamia e Paludis e la madre, che presto avrebbe raggiunto.
Invitò Osmaniu farsi più vicino.
“Figlio mio…la tua compagnia è ciò che di più prezioso ho ricevuto in questi ultimi anni. Voglio che tu sappia…che sarò sempre con te. Voglio essere sempre con te, voglio crescerti. Non posso farlo con queste mani – e le mise sulle guance morbide e calde del giovane – ma il lavoro che queste mani hanno fatto, loro possono. Consideralo un testamento, anche tu, Ceresa. – qui si rivolse direttamente alla figlia – Il mio sale nero, le mie proprietà…le consegno a voi, a te. Fa’ in modo che Osmaniu viva bene come hai vissuto bene tu…come ho vissuto bene io. Crescilo come ti ho cresciuto io, crescilo come tuo figlio…non abbandonarlo. Lafivias.”
La ragazza che dall’inizio di quel giorno aveva la parola bloccata dal pianto e dalla tristezza, si fece avanti, asciugandosi il volto.
“Anche tu sei stata importante, perché sei importante per Osmaniu. A te…consegno questo. – estrasse da una tasca interna del suo abito un pacchetto di fogli – Conservalo con cura, te ne prego. Io non ho potuto completare il tuo insegnamento, non ho potuto dirti tutto quello che dovevi sapere. Dovrai continuare senza il mio aiuto. Al Tempio di Roccia troverai altri miei appunti…se la storia è davvero la strada che vuoi intraprendere, leggi con attenzione ciò che è contenuto qui. Non dirò altro, capirai da te. In questi tempi di cambiamenti, il passato di Gorm non può essere dimenticato, ed è importante che i gormiti sappiano cosa attende loro in futuro.”
“Sì, maestro. Sarò la nuova Cronista. Proseguirò la vostra missione.” Esclamò decisa, stringendo con forza e con il sorriso quei fogli.
“Non ti ho chiesto questo…è un compito difficile. Ma sono sicuro che saprai adempirlo. Ora… – si rivolse sia a lei che a Osmaniu – Vedervi felici insieme…è meraviglioso. So che siete giovani, immaturi, ma prendetevi cura di quello che esiste tra voi due, prendetevi cura di voi stessi. Voglio che siate felici insieme per il resto della vita.”
“Ci…ci proveremo, papà.” Singhiozzò Osmaniu.
Radiclon, che tutto il tempo era stato per terra, appoggiato allo scafo, inclinò la testa all’indietro, adagiandola sul bordo. Il gelo aveva aumentato la sua presa, ma il sorriso che gli illuminava il volto morente lo contrastava. Davanti a loro, davanti agli altri occupanti del traghetto, gettò il bastone, si tolse gli occhiali, la sciarpa e la mantellina. Il vento freddo della morte lo invase con tutta la sua forza; si alzò a fatica, e si poggiò coi gomiti al bordo dello scafo. Scrutò con i suoi veri occhi, senza l’ausilio degli occhiali, il lungo nastro cristallino dello Stretto di Gorm, lo osservò perdersi all’orizzonte, confondersi con il blu dell’orizzonte irraggiungibile, mescolarsi con il cielo sconfinato, sfumare con il mondo e l’universo intero.
L’ultima goccia di calore cominciò a filtrare lentamente dalle sue membra, come se le sabbie del tempo scorressero per lui in tempi infinitamente lunghi. In quell’attimo conclusivo, in quel momento che racchiudeva l’eternità dello spazio e del tempo, mentre piano piano la consapevolezza di Radiclon ritornava a far parte della grande anima dell’universo che l’aveva partorito per conoscere se stesso, davanti agli occhi della mente del gormita fluì la verità. I suoi veri occhi fissi sul mare sprofondarono nei suoi abissi e oltre i fondali, raggiungendo il nucleo incandescente e liquido di Mitera dove, lo scopriva ora, avevano origine i moti dei vulcani e dei terremoti che plasmano continuamente i mondi dove vi è vita. Ritornò indietro, ripercorse tutto lo spazio dal centro del mondo ai fondali; volò via dalle profondità marine fino ad arrivare oltre il cielo e raggiunse il sole Nejema. Da qui comprese l’errore delle tradizioni astronomiche dei gormiti. Il mondo non era piatto, non era fissato al centro di una sfera vuota nel nulla, separato da altri mondi accessibili solo con la magia, Nejema e le lune e tutte le stelle non erano dischi piatti trainati da invisibili carri in percorsi regolari. Ogni cosa era un corpo sferico di arcane età soggetto a reciproche attrazioni, e le stelle tanto piccole erano ammassi giganteschi di fuoco lontani distanze incalcolabili. La consapevolezza di Radiclon percorse queste distanze, nello spazio e nel tempo, seguendo le linee infinitamente piccole che si espandevano nel vuoto dall’inizio dell’universo, portando tutta la diversificata materia sempre più lontana da se stessa, conducendo in tempi lontanissimi a un universo morto, buio e freddo.
Contemplò le ramificazioni del tempo: si soffermò sulla distrutta Fossa degli Spiriti, dove Fossil-Larcon ancora vivo e vittorioso sugli Spiriti pianificava il suo progetto di liberazione di Gorm dalla rete degli Osservatori. Vide su Chelreba questi ultimi e ciò che avevano in mente per i gormiti nel lontano futuro, ora che erano stati smascherati e che, presto, tutti avrebbero saputo. Vide i collegamenti nascosti che rimandavano tutto agli Osservatori, e ai tre cerchi e uno. Il marchio sul Cuore dello Scudo, le visioni e i disegni di Lavion, le allucinazioni di Buferios, le parole e le immagini impresse nella mente dei gormiti dall’Occhio durante la Terza ondata, i graffiti dei cultori nella gallerie della Città Sotterranea, i ciclopici geroglifici della Fossa degli Spiriti. Vide il futuro della Gorm unita, governata sotto il Consiglio dei Signori, come i gormiti di Terra, Aria e Vulcano sarebbero stati i più numerosi e si sarebbero mescolati sempre di più, come i gormiti della Foresta e tutti i vegetali, per preservare la loro società di fronte a un mondo in cambiamento, si sarebbero isolati su Karmil e come il Popolo del Mare avrebbe completamente abbandonato la vita terrestre. Vide la verità delle profezie udite durante la sua visita a Patmut Iun, e la minaccia che la Rovina, ciò che rimaneva dell’Occhio della Vita, rappresentava quando i Signori della Natura dall’Altro Mondo l’avrebbero trovata e condotta nuovamente su Gorm.
Vide infine la Rovina stessa, e vide i potenti gormiti e i gargoyle e i ka’nhili d’un tempo e Magor e Razael intrappolati in un mondo di ghiaccio e di luce rossa, l’ultima prigione e l’ultima casa dopo il saluto dato alle alte mura di Roscamar molti anni prima.
Tali visioni rivelatrici, le osservava come uno spettatore esterno, disinteressato ed apatico. Cosa poteva veramente importargli di tutto questo, ora? Moriva di una morte serena: non chiedeva altro.
In un estremo slancio, come se volesse catturarlo per farne un dono ai posteri, sollevò un braccio e distese le dita verso il sole che squarciava le nubi. Radiclon Strapparami il Cronista cadde un’ultima volta, il melidie 7 Tealse 931.
   
 
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