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Autore: TuttaColpaDelCielo    17/08/2015    2 recensioni
«Kore.» chiamò «Fanciulla.»
Nyx scostò i suoi veli d'ombra dal mio corpo, mi lasciò esposta sotto lo sguardo del suo signore.
«Ade.» sussurrai «Invisibile.»
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Demetra, Persefone
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La Fanciulla e l'Invisibile'
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Ἡ Κóρη καί ὁ Ἀίδηλος

La Fanciulla e l'Invisibile



Come spiegare.
Come spiegare il calore esausto dell'estate che appassiva, ultimo immane inutile sforzo di giorni sempre più brevi, a chi invisibile viveva moriva di freddo e di buio. Come spiegare le camomille tardive e l'odore di lavanda, e artemisia partorita tra spasmi di temporali estivi. Come spiegare le unghie aggrappate alla vita luce sole calore fioriture, mentre già l'aria si faceva fredda e la stanchezza avanzava, avanzava...
Come spiegare la lenta inesorabile sconfitta a chi invisibile trionfava.
Tra i miei capelli, una spiga bianca colta una volta e sfiorita mai più.
Tra le mie dita, lavanda secca che la brezza portava via.
Come spiegare la presa che si allentava, la resa, oh vita luce sole calore fioriture addio sembrava non dovessero tornare.
Odore di malinconia e mani vuote.



Autunno

Eravamo un cerchio di colori, ruotavamo mano nella mano con fiori ai polsi e un canto sulle labbra. Sentivo quella danza ridente arrossarmi le guance e scompigliarmi i capelli, ma ancora continuavo, senza fiato, ridendo danzando cantando con le altre in quel tripudio di vita. I mortali, da qualche parte, esultavano con noi: la gioia di Ciane e Sangaride nutriva le fonti, Euthemía con i suoi passi ammorbidiva il terriccio e io, io, io ero la vita che sfidava l'autunno imminente. Lontana, mia madre benediceva le messi dell'Attica; chiesi ai ranuncoli e ai crochi di sbocciare dorati come i suoi capelli e fu come averla lì, terra fertile e grano. Calligeneia, a quella vista, rise di cuore e sollevò le braccia stanche per battere il tempo.
«Che fai, nutrice?» la chiamai «Non danzi?»
«E sia, Kore!»
Non era donna da rifiutare una sfida: nonostante la vecchiaia si alzò dal prato e si unì a noi. A quel punto sciolsi la stretta e abbandonai il cerchio di ninfe, accusandola con voce squillante di farmi sfigurare. Ridemmo ancora. Mi lasciai cadere a terra, a rotolare giù dalla collina verso il lago, tra erba tenera e fiori. Quando mi rialzai, a metà del pendio, scoprii che dalla mia gioia erano fioriti narcisi bianchi e pratoline; punteggiavano il verde dal cerchio danzante fino alla riva e io corsi giù, seguendo il candore della mia innocenza.
Inciampai, ridendo rotolai di nuovo, e quando finalmente riuscii a fermarmi mi trovai sotto gli occhi un narciso con la corolla ancora chiusa. Lo sfiorai con due dita e quello abbandonò l'indecisione per fiorire nell'autunno imminente. Mi piacque tanto che lo colsi, chiedendogli scusa ma senza pentirmi davvero: tra le mie mani sarebbe rimasto vitale come ancora affondato nella terra.
Ma fu proprio la terra a tradirmi: sotto le gambe la sentii farsi fredda e tremare, tanto forte che sarei caduta, se già non mi fossi trovata in ginocchio. Mi scavava sotto le unghie come aghi di ghiaccio.
Durò un istante, e un altro istante lo impiegai per trovare il coraggio di voltarmi in direzione del boato. Poco lontano, dove le pieghe verdi dei pendii avevano costeggiato il lago, si apriva uno squarcio osceno. Il canto delle ninfe si trasformò prima in silenzio e poi in urlo, nel vedere i cavalli neri che avanzavano da quell'abisso; io invece tacqui, un po' per lo spavento, un po' per l'incoscienza – ero una dea, cos'avevo da temere?
Un istante di scossa e uno di incertezza e uno per pormi quella domanda, tre istanti e già i cavalli erano vicinissimi, le redini tese a fermarli, pochi passi ancora e mi avrebbero travolta. Mi alzai in piedi e anche così mi sentii minuscola in confronto, ma almeno oltre i loro corpi frementi riuscii a scorgere il carro che trainavano, enorme e nero quanto loro. La mano pallidissima che stringeva le redini si era abbandonata sul bordo di legno; lì accanto, trattenuto dall'altra mano, poggiava un elmo scuro che riconobbi dai racconti di mio padre, dono d'invisibilità da cui il dio stesso aveva preso il nome. Finalmente vedevo la kunée.
Con un brivido, sollevai il viso per guardare oltre il bordo del carro. Dal basso vidi una tunica scura, il lembo di una clamide rossa gettata sulla spalla, risalii e risalii fino a incontrare il volto di uno spettro bianco – bianca la pelle bianchi i capelli nero lo sguardo. Mi scrutava dall'alto con le palpebre socchiuse, ombre violacee sotto le palpebre, lineamenti aguzzi sotto le ombre. Nero lo sguardo bianchi i capelli bianca la pelle che si tendeva troppo sulle ossa. Nero lo sguardo. Nero lo sguardo, nerissimo, il Tartaro doveva essere nero così.
Cos'avevo da temere, mi ero chiesta. Lo capii.
Ade schioccò le redini e il carro riprese a muoversi.
Chinai il viso.
Tra le mie mani, il narciso era appassito.

 
*

Di Asclepio ricordavo lo sguardo compassionevole e il sorriso quieto. Questo e poco altro avevo scorto, spiandolo quando leniva lo strazio di qualche ninfa reclamata con troppa forza – mia madre non chiamava mai Apollo per guarigioni simili. Meglio quel figlio che non aveva l'abitudine allo stupro, o le figlie del figlio, Igea e Panacea che da Asclepio avevano appreso l'arte del conforto.
Pareva, però, che il dio dalle mani gentili non fosse gradito a tutti.
Strinsi la ciotola d'ambrosia tra le mani mentre mia madre ci riferiva ciò che aveva udito. Il timido fuoco, acceso per proteggerci dalla notte troppo fredda, giocava con le ombre fino a rendere inquietante anche il suo volto.
«Ade lamenta che gli giungono poche anime e pretende che Asclepio abbandoni le arti mediche.» disse mia madre «Non tornerà nell'Averno finché la sua richiesta non sarà soddisfatta.»
«Poco accomodante.» commentò Calligeneia.
«Davvero. Apollo è furioso.»
«Provocherà pestilenze?» chiesi a mia madre, con la bocca amara.
«Non avrebbe senso, Kore. Ade ne trarrebbe solo soddisfazione.»
Abbassai lo sguardo. Sorbii l'ambrosia fino ad annegare nel suo sapore dolce, ma continuai a percepire quell'amarezza pungente.
Calligeneia mi posò una mano sul ginocchio e chiese: «Zeus si è espresso?»
«Non ancora.»
«Pensi che Asclepio cederà, madre?»
«Cederà, se è saggio. Neppure suo padre potrebbe proteggerlo da Ade.»
Rabbrividii. Quanti potevano proteggersi dalla morte? Eravamo dèi, eppure persino noi – lo sguardo nerissimo di uno spettro bianco mi strinse lo stomaco al ricordo – avevamo di che temere.
Mi uscì solo un filo di voce: «E se non cederà...»
Mia madre mi cinse le spalle e mi baciò la tempia. Sapeva di terra umida e mai come in quel momento il suo profumo mi era parso così rassicurante.
«Perdonami, Kore, non avrei dovuto parlartene. Discorsi simili non sono adatti alle bambine.»
Ma ero già abbastanza adulta da capire perché avesse evaso il mio dubbio.
«Penso...» mi schiarii la voce «Penso che andrò a riposare, madre. Nutrice.»
Mia madre mi drappeggiò il suo himation sottile sulle spalle ed entrambe mi augurarono una notte serena. Il mantello mi scivolò lungo un braccio e strisciò a terra mentre mi allontanavo, ma non lo sistemai. Avrei dovuto: oltre il cerchio di luce tiepida attorno al fuoco, l'aria fredda mi morse la pelle. Forse era il sole che, offeso per l'affronto ad Apollo, si rifiutava di scaldarci. Forse era la morte che avanzava.
Pensai ad Ade, ai suoi occhi neri di Tartaro su di me. Al mio povero narciso sfiorito. Pensai ad Asclepio con lo sguardo compassionevole e il sorriso quieto, le mani gentili, le corone di fiori che gli avevo intrecciato per ringraziarlo della sua dolcezza. Pensai al conforto e al dolore lenito e alla gioia di un mortale che sfugge al destino ancora un giorno, alla vita che io nutrivo e Asclepio custodiva, a tutto ciò che Ade voleva negare. Bestemmiai la morte sottovoce.
Mi abbandonai sul giaciglio di fiori e foglie e mi strinsi nell'himation, desiderando che fosse più pesante. Ebbi la tentazione di riavvicinarmi al fuoco, stringermi tra Demetra e Calligeneia che ancora mormoravano; ma non erano discorsi adatti a me, Kore impressionabile, e allora mi accontentai del profumo avvolgente della stoffa.
Ombra scurissima che si stagliava contro le fiamme, mia madre non mi era mai sembrata così irraggiungibile.
Quella notte piansi in silenzio.
 
*

Non dissi di Ade a mia madre.
Euthemía e Sangaride erano tornate a casa precipitosamente, oltre il mare, senza molta voglia di parlare di ciò che era successo; Ciane restava accanto alla sua fonte e io avevo cura che Demetra non volgesse i suoi passi da quella parte.
Nemmeno Calligeneia parlò. Allora pensai che non volesse dare altre preoccupazioni alla sua signora, ma forse fu semplicemente lungimirante: notò che io non ne facevo parola e mi imitò, perché capiva – a differenza di mia madre – che non ero più una bambina. Ero una dea e alla volontà di una dea una ninfa si deve adeguare, per quanto sia stata sua nutrice. Io tacqui, quindi, perché sapevo che altrimenti mia madre non mi avrebbe più permesso di vagare sola per la Trinacria; e Calligeneia tacque di riflesso, perché sapeva che stava succedendo solo ciò che doveva succedere. Crescevo. Serbavo segreti. Il chitone mi andava corto e a volte, svegliandomi, lo trovavo macchiato di rosso tra le gambe; l'himation schermava in egual modo il freddo all'esterno e miei pianti improvvisi all'interno. Nulla che la mia anziana nutrice non avesse già visto.
«Un uomo si è fermato a guardarti.» mi disse una mattina, per chiudere del tutto l'argomento «Era il signore dell'Averno, e allora? Significa solo che anche il signore dell'Averno ha gli occhi.»
Ammirai la sua tranquillità. Era posa, sollecitudine di nutrice per non farmi preoccupare, e lo intuivo; tuttavia quella posa mi permise di non sentirmi troppo in colpa per l'omissione a mia madre.
D'altronde neppure lei diceva di Ade a me. Parlava spesso a bassa voce, interrompendosi quando mi avvicinavo, e mi blandiva con sorrisi e dolcezze per non farmi pesare quell'improvviso silenzio imbarazzato. Non funzionava. Non era piacevole sentirsi come un'estranea, né restare ignara delle sorti del povero Asclepio dalle mani gentili. Nel buio, quando avevo il viso nascosto dai capelli e lo premevo contro un lembo dell'himation, la frustrazione rabbiosa si scioglieva in lacrime e singhiozzi soffocati.
Anche quella notte, dal mio giaciglio voltai il capo verso il cerchio attorno al fuoco. Si erano raccolte molte ninfe a scaldarsi: avevo sanguinato una sola volta dall'incontro con Ade, ma dalla tarda estate eravamo già passati al freddo e alle foglie ingiallite. Si stringevano l'una all'altra per non disperdere calore, nei loro abiti leggeri inadatti alla stagione, e mormoravano tra loro a capo chino. Mia madre annuiva grave e dispensava sorrisi rassicuranti.
E io, Kore, ombra tra le ombre a guardarla da lontano.
Credeva che non potessi capire i loro discorsi, che non dovessi essere turbata dal nome di Ade. Ma oltre al nome avevo incontrato il suo sguardo e mi ci ero specchiata, scoprendomi abbastanza interessante da rallentare il passo alla morte.
Credeva che riposassi nel suo himation, Kore cullata da sogni di miele. Ma la notte non mi appesantiva le palpebre e in quel grembo oscuro l'inquietudine scalciava, scalciava, dando inizio alle doglie.
L'himation mi scivolò dalle spalle mentre mi alzavo, si ammucchiò ai miei piedi con un fruscio. I miei passi invece non fecero rumore e nessuna voce si alzò a richiamarmi – forse Nyx velò loro gli occhi, dopo che Hypnos mi aveva negato la sua carezza. Poteva essere, tutto quello, segno di una volontà ineluttabile che ancora non comprendevo?
Ma il travaglio di Persefone era appena iniziato e Kore, nella sua ingenuità, non ci pensò: non cercai i segni. Notai – quello sì – che il freddo si faceva più intenso man mano che i miei passi silenziosi mi conducevano lontano; eppure era un freddo che lambiva le mie braccia nude senza farmi rabbrividire, come un fuoco che scaldasse invece di bruciare. Era la mano di un titano che pur potendomi schiacciare sceglieva una carezza.
Oh, sì: i segni ci furono tutti. Ma Kore ingenua continuò a inoltrarsi tra gli alberi, rifuggendo la solitudine soffocante di ninfe che le davano le spalle. Camminai e camminai e poi corsi, con l'oscurità che si apriva ai miei piedi perché non inciampassi, quando fui sicura che nessuno avrebbe più potuto udirmi. Con respiri troppo rapidi ingoiai aria e la sensazione meravigliosa di essere nel posto giusto, finalmente, nessuno a pesare le parole e a zittirsi e ad allontanarmi e a dirmi non sono discorsi adatti a te, Kore, e per la prima volta da giorni non ebbi più la bocca amara. Dalla mia esultanza fiorirono campanule ai miei piedi e risate sulle mie labbra addolcite, passavo tra querce dalle foglie ingiallite e quelle rinverdivano gioiose. Nyx si ritraeva sotto i miei occhi per permettermi di ammirare la mia opera, ma io non mi fermai mai, corsi, corsi, ormai dovevano essersi accorte della mia assenza.
Mia madre non sarebbe stata contenta. Non m'importò.
E poi Nyx tornò densa e il freddo divenne gelo nelle ossa e io dovetti arrestare la mia fuga.
Inquietudine.
La consapevolezza improvvisa e bruciante di essere lontana da mia madre, dalla mia nutirce, dalle mie ninfe. Lontana, lontana, lontana.
Ingenua Kore.
Ade comparve che aveva ancora le braccia alzate a sfilarsi l'elmo, uomo e dio e morte e fiore pallidissimo cresciuto al buio. Sentii senza vederli che gli altri fiori, le campanule nate dalla mia gioia, appassivano – e le sentii chiedermi aiuto nell'agonia, e le querce ingiallirsi di nuovo, ma che potevo farci? Nulla poteva sottrarsi ad Ade.
Non Asclepio.
Non le mie campanule.
Non io.
Mi specchiai nel suo sguardo di buio e fui all'improvviso consapevole del chitone troppo corto stracciato nella corsa, del mio corpo adolescente per nulla celato dalla stoffa – la cascata scompigliata dei miei capelli e guance arrossate e labbra socchiuse per riprendere fiato, il seno che si sollevava al ritmo del respiro rapido, ciocche scure come la terra fertile contro pelle nuda giovane invitante.
Incespicai un passo indietro ma seppì che era inutile, perché Ade era così vicino che avrebbe potuto tendere una mano e agguantarmi, soffocare tra le braccia ogni ribellione.
«Ferma.» ordinò invece, e capii perché non si fosse neppure mosso.
Un re non ha bisogno della forza per ottenere obbedienza: gli basta una parola. Una parola di re e di morte, poi, è semplicemente ineluttabile.
Nella voce di Ade c'era autorità e intransigenza e la certezza che se ferma mi avera ordinato, ferma sarei rimasta. Non gelo, quello no; più la durezza inflessibile di una volontà che non ammetteva obiezioni.
E ferma rimasi.
Lo sentii scrutarmi in silenzio, il peso del suo sguardo sulla pelle più eloquente delle parole. Tremai. Chinai il capo, lasciai che i capelli scendessero a coprirmi il viso e il petto e approfittai della barriera di ciocche e ciglia socchiuse per studiarlo a mia volta. Se fosse stato umano, avrei potuto sfuggirgli: ombre violacee sulla pelle e ossa troppo evidenti non promettevano un corpo energico. Ma Ade era Ade e anche nella magrezza riusciva a sembrare imponente; non era certo Efesto, ma io non gli arrivavo al mento e davanti agli occhi avevo una clamide rossa appoggiata su spalle forse ossute ma larghe, tutt'altro che fragili. Ebbi la conferma che sì, se anche mi fossi mossa lui avrebbe avuto il tempo di agguantarmi e dalla sua stretta non sarei mai riuscita a liberarmi.
Ma avrebbe fatto differenza, se Ade fosse stato più gracile di me?
Chissà se per mano sua potevano morire anche gli dèi.
«Kore.» chiamò «Fanciulla.»
Nyx scostò i suoi veli d'ombra dal mio corpo, mi lasciò esposta sotto lo sguardo del suo signore.
Sulle labbra di Ade il mio nomignolo non aveva nulla d'innocente.
Richiamai l'incoscienza che mi aveva guidata fino a lì, raccolsi il coraggio sulle labbra e sollevai il capo per guardarlo.
«Ade.» sussurrai «Invisibile.»
Ero goffa e troppo rigida e per niente sicura, nel mio tentativo di fronteggiare ritta quello scrutinio, e questo dovette divertirlo molto: distese le labbra.
«Un invisibile che guardi in faccia, Fanciulla.»
«Agli immortali è concesso.»
Il sorriso arrivò a scoprirgli i denti.
«Agli immortali scelgo di concederlo.»
Mi rifiutai di abbassare lo sguardo. Non ero, mi dissi, una donnetta mortale a cui era vietata la vista di Ade: la morte per me poteva avere un volto senza che venissi strappata alla vita. Mi sforzai di nutrire il terreno, ma sentii solo la pelle formicolare, i miei tentativi infrangersi contro zolle indurite come ghiaccio. Ritentai, perché la vita era un mio diritto.
«D'altronde» commentai «sarebbe eccessivo scatenare faide tra gli immortali per un'occhiata in viso.»
«Sottovaluti l'orgoglio degli immortali.»
Strinsi i pugni. Le radici che tentavo di estendere vinsero la resistenza delle zolle dure, si allungarono a nutrirsi della mia benedizione; fu come stiracchiarsi dopo un lungo sonno, fatica piacevole di sangue che torna a scorrere, germogli verdi ai miei piedi. Sorrisi ad Ade, contro Ade, nella mia vittoria puerile.
Soffio gelido contro la pelle.
Germogli anneriti ai miei piedi.
«...potresti smettere di uccidere i miei fiori?»
Ade continuò come se non lo avessi mai interrotto: «Sottovaluti l'orgoglio degli immortali, Fanciulla, e il loro attaccamento a formalità e apparenze. Non hai ancora un tuo culto, vero? Cammini all'ombra degli onori di tua madre.»
«I mortali mi ringraziano» lo corressi «quando porto la fioritura. Mi offrono frutta e miele.»
I germogli nascevano e morivano ai miei piedi ma io ne facevo crescere altri, ancora e ancora, e ogni volta riuscivano a durare un po' di più nonostante l'influsso di Ade: i resti anneriti delle mie creature ammorbidivano il terreno, nutrivano i fratelli ancora in vita.
Mostravo ad Ade la prova che anch'io ero una dea, che anch'io avevo potere e venivo adorata. Futile, ridicola prova; ma allora mi sembrò una vittoria enorme.
«Hai scelto onori umili, Fanciulla. Da ninfa più che da dea.»
Ovviamente la mia vittoria non poteva durare.
«Sono gli onori che voglio.» ribattei, alzando il mento.
Sorrise ancora, ma in quel sorriso c'era qualcosa di inquietante che mi scivolò addosso come un brivido. Un taglio che si apriva a mostrare il bagliore dei denti.
«E odi le voci dei mortali, nel tuo culto da ninfa?»
«Ringraziamenti e preghiere. Invocazioni, talvolta.»
...sì, quel sorriso a denti scoperti era inquietante.
«Sapevi, Fanciulla, che si odono anche le bestemmie?»
Mi pentii di averlo sfidato.
Abbassai lo sguardo, mi strinsi le braccia al corpo per proteggermi dal freddo e dal suo sguardo. L'aria, ormai, era talmente gelida che sembrava di sentire vetri rotti sulla pelle. La presenza di Ade mordeva feriva bruciava.
«Chiedo perdono.» mormorai.
«Non puoi morire, ma nel mio regno c'è posto anche per te, Fanciulla. Anche gli immortali temono la mia giustizia; o forse tu ti ritieni invulnerabile?»
Aveva la voce atona, quasi gentile nella sua indifferenza, come se fosse una presa d'atto più che una minaccia. Serrai gli occhi mentre la mia recita di sicurezza moriva, schiacciata da un potere che per terrorizzarmi non aveva neppure bisogno di palesarsi.
«Fanciulla. Fanciulla. Possibile che tu sia tanto ingenua? Potrei spalancare un baratro sotto di te, gettarti nel Tartaro tra i Titani. Potrei squarciare la terra e lasciarti a gelare nel Cocito, o ad ardere nel Flegetonte. Sai che la tracotanza non si perdona facilmente, Fanciulla. O dovrei forse permettere a chiunque di insultarmi?»
Ancora indifferenza vellutata nella voce, avrebbe potuto parlare di qualsiasi cosa con quel tono che era solo mancanza di inflessione – dell'autunno o dell'ennesima amante di Zeus o dei miei fiori. E invece parlava del mio supplizio, con lo stesso interesse che avrebbe riservato alla morte di un mortale: un fatto ovvio. Lapalissiano. A crimine corrisponde pena e la tracotanza è il crimine piu grave, persino per una dea; questo poteva significare solo una cosa e lui ne prendeva atto con divina indifferenza.
E poi la ferocia esplose inaspettata: «Guardami!»
Tentai di ritrarmi a quello scoppio improvviso ma fu più rapido di me: mi afferrò il viso e mi costrinse ad alzarlo, a incontrare quello sguardo che era nero come il Tartaro che mi prometteva. Sentire la morte sulla pelle fu strano, perché dove è morte non è vita e io sono vita, ero vita, gemma e germoglio e fioritura incipiente, e avevo addosso inverno e ghiaccio e aridità. L'impressione assurda di essere-nonessere-essere, conflitto insanabile, dove è vita non è morte eppure c'era, c'era Ade e c'ero io, essere-nonessere-essere, il suo tocco mi negava e nella negazione trovavo identità.
«...sei ancora acerba.» mormorò a un soffio dalle mie labbra, e il suo fiato sapeva di pioggia e foglie marce.
Mi lasciò andare con la stessa rapidità con cui mi aveva afferrata. Non mi diede il tempo di capire: indossò di nuovo la kunée, la notte si richiuse sui miei occhi e io mi ritrovai sola nel tempo di un respiro. Sentivo il viso bruciare di gelo e calore ritrovato e assenza, dove le sue dita erano affondate, e libera dal suo tocco mi chiesi per un attimo chi sono? perché non c'era più nulla a definirmi nella negazione. E sentivo la pelle formicolare, la carne intiepidirsi, fuoco di vita che mi avvisava di quel che era successo.
Attorno a noi erano fioriti gli asfodeli.
La negazione della negazione.

 
*

L'ambrosia mi bagnava le labbra, densa e dolce, profumata tanto da stordirmi. Quando terminai di sorbirla, nella ciotola ne restava ancora la metà.
«Che succede, Kore? Non ti piace?»
Cristallina e ambrata al tempo stesso, rifletteva il mio viso alla luce abbagliante di un sole freddo. Ruotai il polso: il liquido ondeggiò e la mia immagine si distorse, gli occhi che mi fissavano si sciolsero in onde scure. Sollevai lo sguardo su Calligeneia.
«Credi che sia bella?»
L'avevo chiesto anche a mia madre. Naturalmente, mi aveva risposto; naturalmente sei bella, Kore, come le gemme e il primo verde. Aveva parlato del sorriso innocente delle bambine e della freschezza dei fiori mai calpestati.
A volte mi sembrava fosse cieca, mia madre.
«È davvero la mia opinione a interessarti, Kore?» mi ribatté invece la mia nutrice.
Riabbassai lo sguardo. Nell'ambrosia tornata quieta, incontrai di nuovo i miei occhi.
Ero bella? Lo ero stata, certo, bambina paffuta e rosea con gli occhi dolci dei cerbiatti, ma lo ero stata non era una risposta. Il corpo mi si era allungato addosso troppo in fretta e mi ero ritrovata spigolosa, prima, ramo nodoso in cui non mi riconoscevo più; e poi impacciata da curve che avevano addolcito gli angoli e modellato insenature, come l'aratro che solca e ammorbidisce e dissoda. Dovevo essere bella, per molti – mia madre e Calligeneia e altri dèi, troppi dèi, dalla cui attenzione dovevo guardarmi. Per i mortali, anche, perché ero dea e giovane e primavera, e primavera è vita, e vita è un altro respiro strappato all'Averno. Ai loro occhi dovevo essere bella quanto il seme cullato dalla terra, quanto il primo verde e i germogli teneri, spighe che promettono di divenire alte e fiori che promettono di divenire frutti. Amavano me quanto temevano l'inesorabile, i mortali; e nella mia mente riverberavano sempre invocazioni e ringraziamenti e la preghiera di spezzare presto l'autunno.
...era un autunno strano, quello. Troppo lungo e troppo freddo e troppo crudele. Tre volte avevo sanguinato dalla fine dell'estate, eppure ancora le zolle dure si opponevano all'aratro, ancora i rami restavano spogli. Mia madre vagava senza sosta per benedire la terra, ma quel conforto non durava mai: quando abbandonava un luogo, con lei se ne andavano la fertilità e la speranza. Io potevo solo stringermi nell'himation e far sbocciare qualche fiore che appassiva subito.
(non appassivano, gli asfodeli. Nascevano dai miei passi e sfidavano l'autunno con le loro spighe bianche floridissime, o forse era l'autunno stesso a benedirli con il suo favore. Ma preferivo non pensarci)
La morte camminava tra noi, senza deporre la sua ira contro Asclepio, e a pagarne lo scotto era un mondo drenato di vita. Che importava alla morte del seme cullato dalla terra e del primo verde e dei germogli teneri? Le spighe potevano promettere di divenire alte e i fiori di divenire frutti, ma era una promessa che non aveva valore né senso né attrattiva, per una creatura dell'Averno.
Tornai a sorbire l'ambrosia. Non riuscì ad addolcirmi la bocca amara.
Dovevo essere bella, per mia madre e Calligeneia e altri dèi, troppi dèi, e per i mortali affamati di vita; ma non era la loro opinione che importava.


 
   
 
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