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Autore: BeaterNightFury    17/08/2015    2 recensioni
La prima metà del sedicesimo secolo segnò importanti cambiamenti nell'assetto politico, religioso e bellico dell'Europa.
Le guerre tra gli Stati regionali del territorio italiano terminò, con un'evidente sconfitta del sistema militare delle compagnie di ventura, e con l'avvento delle armi da fuoco.
Le riforme religiose portarono a ulteriori guerre, e nuovi Stati si affermarono come potenze.
In tutto questo, quanto era ordito dai Templari per il loro controllo del mondo? Qual è stato il ruolo della Fratellanza?
A raccontare questa storia, una degli Assassini - Flavia Auditore.
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Flavia Auditore, Marcello Auditore, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lo so, la storia vi sembrerà familiare. E' stata inavvertitamente cancellata a seguito di un massiccio editing. Storia lunga. Alcune parti della trama non mi convincevano, quindi... beh, se davvero la devo continuare, in un qualche modo mi toccherà scendere a qualche compromesso.
 
SEQUENZA 1
UN’ALTRA STORIA
 
Momma loves her baby
And Daddy loves you too
And the sea may look warm to you baby
And the sky may look blue […]
If you should go skating
On the thin ice of modern life
Dragging behind you the silent reproach
Of a million tear stained eyes
Don’t be surprised when a crack in the ice
Appears under your feet
(Pink Floyd, The Thin Ice)

 
DATABASE
Luoghi -> Fiesole
Distante cinque miglia da Firenze, e vista decisamente di malocchio dai fiorentini. Venne attaccata da Firenze nel 1010 e nel 1025, e conquistata una volta per tutte nel 1125. Dopo la conquista, le principali famiglie della città vennero forzate a spostarsi a Firenze, e Fiesole rimase poco più di una meta vacanziera per i fiorentini facoltosi (o, come nel Decameron, un rifugio durante le pestilenze).
Anche i Medici avevano possedimenti in questo paese – Jacopo De’ Pazzi, il Templare della congiura, cercò lì di avvelenare il vino di Lorenzo il Magnifico il giorno prima dell’attacco.
Era anche conosciuta per le sue cave, dalle quali veniva estratto un particolare tipo di arenaria, la pietra serena, usata in sculture minori a Firenze. È noto che un tempio di Marte fiorentino di epoca antica venne edificato con la pietra serena di Fiesole.

 
 
Dicono che ogni famiglia ha i suoi segreti, e se vuoi conoscerli devi starci dentro.
Quando mio padre scoprì quelli della sua, fu sulla sua stessa pelle. Vide mio nonno e i miei zii morire senza capire il perché, e quando iniziò a combattere per la causa per cui oggi siamo io e mio fratello a lottare, non ne sapeva quasi niente.
Posso dirmi fortunata di aver sentito la verità dalla sua voce. Non posso negare che ci siano sorti dei dubbi… e nessuno avrebbe voluto questa vita per noi.
Ma è stata anche una nostra scelta, mia e di mio fratello Marcello, e non ce ne siamo mai pentiti. Nonostante tutto quello che è successo, abbiamo incontrato le migliori persone che potessimo mai conoscere, i proverbiali amici veri che restano quando il resto del mondo ti abbandona.
In un certo senso, il resto del mondo ci aveva già abbandonati da tempo. Marcello era stato espulso da una scuola parrocchiale per cattiva condotta, contavamo i nostri amici sulle dita delle mani, ed eravamo considerati un po’ gli svampiti del paese.
Capimmo soltanto molto tempo dopo che era perché ci era stato insegnato a pensare con la nostra testa. Nostro padre non voleva che noi combattessimo… ma con l’educazione che ricevemmo, era praticamente ovvio che un giorno avremmo dovuto prendere le armi in una qualche maniera. Ce lo sentivamo, anche se nulla poté davvero prepararci a quello che accadde.
Circa un mese dopo il decimo compleanno di Marcello, i nodi vennero al pettine, nella persona di una viaggiatrice, una ragazza venuta da molto lontano.
Prima che potessimo capirci qualcosa, venimmo mandati in un paese vicino, da degli amici di nostro padre che chiamavamo Zio Niccolò e Zia Marietta – i genitori della stragrande maggioranza dei nostri amici d’infanzia. Quando tornammo a casa, la verità non poteva più rimanere nascosta.
 
Fiesole, 26 Novembre 1524
 
Capitolo 1
Fulmine a ciel sereno
 
Marcello Auditore non era uno stupido.
Aveva compiuto dieci anni da appena un mese, sapeva leggere e scrivere, a differenza di molti dei figli di contadini nel paesino dove viveva con la sua famiglia, sapeva arrampicarsi sui muri, e in più di una festa patronale aveva battuto i suoi coetanei correndo.
Lui e Flavia passavano la maggior parte del tempo per conto loro; qualcosa sembrava renderli diversi dagli altri ragazzi in città, impedendo loro di stringere amicizia.
Uno di loro, Edoardo Bove, aveva radunato una piccola banda contro i fratellini il cui scopo principale e passatempo preferito sembrava tormentare “quello scemo di Marcello” e sua sorella.
Certo non aiutava il fatto che la madre di Edoardo dicesse che “i capelli rossi erano i capelli del diavolo”. Soprattutto perché i capelli di Marcello erano rossi.
In passato, Marcello le aveva provate di tutte, pur di evitare le prese in giro. Si era sporcato i capelli di terra – con l’unico risultato di venire sgridato dalla mamma e venire buttato nella tinozza con tanto di acqua e sapone. Aveva ripescato un vecchio cappello appartenuto a Papà – e avevano iniziato a prenderlo in giro per il cappello.
Era stato da quel momento che aveva iniziato a preferire la compagnia di Flavia a quella dei suoi coetanei maschi. Certo, Flavia era pur sempre una femmina, ma non era come le altre bambine. Preferiva giocare a rimpiattino o a pallone che alle bambole, e non si schifava ad abbracciarlo nemmeno quando era sporco (le altre bambine dicevano che i maschi puzzavano).
Sapevano entrambi giocare a scacchi, gli era stato insegnato proprio da Papà, ma nessuno dei due primeggiava sull’altro. Poteva capitare che finissero in una situazione di stallo, che talvolta vincesse la maggiore, o il minore, ma non c’era mai stata una netta superiorità.
La mamma diceva che era normale. Si misuravano sempre tra loro, si conoscevano come conoscevano il palmo delle loro mani. Probabilmente con altri avversari, la situazione sarebbe stata diversa.
Certo, sia mamma che Papà lo stracciavano in poco tempo, ma lui aveva solo dieci anni, e secondo la mamma, lui e sua sorella erano i bambini più svegli che lei avesse mai visto.
Certe volte riusciva a vedere un pericolo – di solito in rosso – o qualcosa che stava cercando in oro, prima che ci arrivasse qualcun altro. Anche Flavia ne era capace.
Non era uno stupido, lui.
Ma anche uno stupido avrebbe capito che casa loro era stata attaccata.
Al portone mancava un pezzo. C’erano delle macchie per terra – qualcuno aveva tentato di cancellarle, ma restavano le tracce. Parecchi mobili dovevano essere stati rovesciati e poi malamente rimessi a posto. Una finestra era rotta.
“Papà, ci sono stati i ladri?” chiese Marcello.
“I ladri? Com’è possibile?” ribatté Flavia. “Insomma, i ladri stanno in città, non di certo qui che tutti a parte noi... aspetta, dov’è Jun?”
“Erano soldati, non ladri. Cercavano lei,” spiegò Papà in tono piatto.
“Perché? E dov’è adesso?” chiese ancora Flavia.
“Sulla via di casa. Le ci vorrà molto, ma tornerà.”
“Perché cercavano lei?” aggiunse Marcello.
“Perché lei era... beh, ragazzi, è una storia lunga. E comincia tutto... da qui.”
Aprì un foglio di carta, sul quale era disegnato il ritratto di un ragazzo con la faccia in parte coperta da un cappuccio.
Assassino?” chiese Marcello prendendo il manifesto nelle mani. “Fammi capire, questo qua ha ucciso un uomo. Beh? Che c’entra lui con quello che è successo?”
Non vedeva il collegamento. Jun era stata inseguita da dei soldati, ma quel ragazzo lui non l’aveva mai visto. Se ne sarebbe ricordato… a parte Zio Niccolò e la sua famiglia e qualche bracciante stagionale, non erano molti i visitatori che la villa riceveva.
Notò Mamma nel vano della porta e andò verso di lei, per chiederle una qualche spiegazione. Ma, prima che si potesse avvicinare, Papà guardò prima Mamma e poi lui, poi fece un cenno e sussurrò qualcosa. A quel punto, Marcello desiderò di poter riuscire a leggere le labbra, perché Mamma annuì e andò di sopra, lasciando loro tre di nuovo da soli.
“Qual è il punto, Papà?” il bambino chiese di nuovo. “Non capisco. E perché Mamma non mi ha ascoltato?”
“Marcello, aspetta,” intervenne Flavia. Gli strappò il foglio di mano e lo alzò fino a tenerlo al livello della faccia. Sembrava aver capito qualcosa che Marcello ancora non afferrava.
“Non starai pensando che c’entro qualcosa, spero. Quel tipo avrà almeno diciotto anni,” sbuffò Marcello mentre Flavia passava gli occhi da lui al ragazzo misterioso.
“Diciassette,” lo contraddisse Papà con voce amara. “Il gonfaloniere di Firenze, Uberto Alberti, fece impiccare vostro nonno e due dei vostri zii. Avrebbe ucciso anche me, se non fossi stato fuori casa proprio in quel momento.”
“Aspetta... sei tu?” chiese Marcello strappando il manifesto dalle mani di sua sorella e confrontando i due volti. “Vuoi dire che Vieri... il suo vecchio... Cesare... il ratto...?”
“Duccio de Luca non ha mai ricevuto altro che botte da me, puoi starne certo” disse Papà abbozzando un sorriso. “E se lo meritava, credetemi. Comunque, il punto è che Vieri De’Pazzi, suo padre Francesco, Cesare Borgia, Papa Alessandro VI, il Doge di Venezia, erano tutti parte di un piano per prendere il controllo del mondo, delle menti delle persone. Mio padre lo scoprì, cercò di iniziare ad ostacolarli. Arrivarono a corrompere un suo amico per riuscire a liberarsene. Il loro peggior errore: entrai in scena io, e, congiurato dopo congiurato, trasformai la loro pagliacciata in un fiasco.”
“E questo che c’entra con Jun?” chiese Flavia.
“Sediamoci. La storia è lunga, e non sono più il ragazzo di quel ritratto,” disse Papà indicando tre sedie, che doveva aver messo lì in previsione del loro arrivo.
Flavia fu la prima ad arrivare alla sedia. Marcello, invece, piegò il manifesto e lo infilò sotto la giacca prima di sedersi.
“Non è necessario che tu lo faccia sparire, sai? Puoi tenerlo.” gli disse Papà prendendo posto. “Dicevamo. Ho trascorso molto tempo a Roma per liberare la città dai Borgia, e lì ho anche addestrato alcuni ragazzi. Ci sono dodici che potrei elencarvi così, su due piedi, anche dopo tutti questi anni. E non vi dico che casino gestirli. Da un giorno all’altro dovevo salvare il fratellino di Beatrice che era stato catturato dalle guardie papali per rappresaglia, controllare che Piero e Candida non fossero rimasti nelle gallerie per fare i piccioncini, assicurarmi che Desideria non ci lasciasse le penne per salvare un fanciullo caduto nel Tevere, zittire quei due pagliacci di Ciro e Salvo... erano dodici canaglie, ma erano quasi una famiglia per me. Paolo ed Emiliana dopo qualche mese mi seguirono persino a Costantinopoli! Apprezzavo molto di più tutti i grattacapi che mi davano, che la carica di Mentore che mi venne assegnata dopo.”
Flavia si mise a ridacchiare, Marcello invece si limitò a sorridere.
“Certe volte ne parlano, degli Assassini, a Fiesole e anche a Firenze. Ma non dicono che sono amici, o fanno ridere, o si fidanzano, o salvano i bambini che annegano,” commentò.
“La gente dice anche altro, Marcello,” disse Papà. “Ad esempio, se vuoi conoscere una famiglia, devi starci dentro. Comunque, per rispondere alla vostra domanda, Shao Jun è un’Assassina. E cercava me per sapere come liberare il Catai da un sovrano tiranno.”
“Il Catai?” Marcello chiese a bocca aperta. “Ma... è dall’altra parte del mondo! Ha viaggiato così tanto?”
“Quando vuoi fare una cosa, Marcello, quando vuoi davvero, quando devi, non c’è ostacolo che possa fermarti, nemmeno una strada lunga e piena di pericoli. Ci sarà sempre qualcuno che vorrà forzare la sua volontà su quella degli altri, e finché esisteranno persone così, esisteranno anche gli Assassini.”
“Vuoi dire che i cattivi potrebbero tornare?”
“L’erba cattiva non muore mai,” intervenne Flavia.
Papà annuì. “Purtroppo è così. Guarda adesso, guarda cosa succede nel Sacro Romano Impero. I seguaci di Lutero, la Chiesa, libero arbitrio, servo arbitrio. Il Kaiser muove guerra al Cristianissimo Re di Francia, e così via.”
“E gli Assassini non fanno niente?” chiese Flavia.
“Agiscono nell’ombra, come hanno sempre fatto. Uno di loro, Giovanni, è a capo di una compagnia di ventura, e ha anche reclutato i due figli di un musicista qui a Firenze. Giampiero ed Enrico lavorano ancora nella Fratellanza, adesso che vostra zia non ce la fa più. Ricordate di quando Leone X è morto? Beh, non è stata morte naturale. Enrico ha trovato l’avvelenatore e l’ha passato a fil di spada. Pensiamo che ci sia qualcuno dietro, ma non sono più io dietro alle indagini, quindi non ti so dire molto.”
Enrico?” fece Marcello perplesso.
I suoi due cugini, i figli di Zia Claudia, Giampiero ed Enrico Donati, non erano i visitatori più abituali della villa a Fiesole, ma Marcello non avrebbe mai detto che loro fossero Assassini.
Giampiero aveva più di trent’anni, era sposato e aveva un figlio piccolo, Domenico.
Enrico, che aveva compiuto venticinque anni l’estate prima, era un ragazzone biondo che rideva sempre, estraeva chissà come fiorini dalle orecchie di Marcello e arruffava i capelli al primo che gli capitava a tiro.
Avrebbe prima detto che Papà fosse un Ass...
Ragiona un attimo, Marcello, non pensavi nemmeno che PAPÀ lo fosse.
Annuì.
“Quindi... vuoi dire che... dobbiamo entrare nella Fratellanza?” lo anticipò Flavia. “O solo Marcello?”
“Nessuno di voi due.”
“Che COSA?”
Quasi senza accorgersene, Marcello si ritrovò in piedi.
Qualcosa gli disse che Papà stava per alzare la voce, e non si mosse né disse altro. Quando Papà alzava la voce, faceva paura.
“Ma Papà, tu dici sempre che viviamo per gli altri,” intervenne Flavia.
“Non voglio che voi corriate rischi inutili. Vi condannerei ad una vita di sofferenze. Sarete voi a dover scegliere, quando ne saprete abbastanza per fare una vera scelta,” concluse Papà. “Il che sicuramente non è adesso.”
“Ma Papà, tu non hai fatto una vita tutta di sofferenze. Tu hai noi.” disse Marcello facendo un passo in avanti.
Sperava che Papà capisse le sue intenzioni, come al solito. Sperava che capisse che voleva salirgli sulle ginocchia.
Sembrava aver capito, perché gli fece gesto con la mano di salire, rivolgendo poi lo stesso gesto a Flavia.
“Vi sto dicendo queste cose perché vi voglio bene,” disse mentre Marcello gli appoggiava la testa su una spalla. “Voi due siete la miglior cosa che io abbia mai fatto in vita mia. Io non ho avuto scelta, quando si è trattato di decidere il mio futuro. Ma voglio che voi abbiate la vostra.”
“Io voglio aiutare gli altri.” affermò Marcello.
“Molto bene,” disse Papà sorridendo. “Ora, immagino che io e tua madre avremmo bisogno di un po’ d’aiuto per riordinare.”
Papà! Ho dieci anni!”
“Appunto, hai dieci anni. Non hai l’età per riparare una porta, e vuoi andare già fuori a fare la guerra?”
Marcello sentì la sua faccia farsi calda. Si era contraddetto da solo, come al solito!
“Su, andate fuori a giocare. Le vostre cose sono tutte nel capanno.”
Marcello saltò subito giù e spiccò una corsetta, ma Flavia non lo raggiunse fino a quando lui non fu abbondantemente uscito fuori.
“Perché ci hai messo tanto?”
“Possibile che tu dica e ripeta di avere il sesto senso, ma non ti accorgi di quello che hai sotto il naso?” lo sgridò Flavia a bassa voce. “Papà secondo me sta male.”
“Papà sta male?”
“Ragiona, Marcello. Non ti ha preso in braccio quando siamo arrivati. E adesso ci ha anche fatto tutta la confessione.”
“Come altro avrebbe potuto spiegare tutto quel casino? E poi, l’anno scorso, non prendeva in braccio nemmeno te… ed eri più bassa tu, a dieci anni.”
“Mentre tu correvi via, l’ho visto che si teneva il braccio.”
“Si sarà fatto male combattendo i cattivi.”
“Marcello, io ho paura per lui.”
“Per Papà? Flavia, andiamo, è un...” e bisbigliò la parola As-sas-si-no “Ne avrà viste di molto peggio.”
“Una volta, magari.” Flavia prese a calci della polvere, poi guardò il vecchio albero spoglio nel giardino. C’erano delle macchie color ruggine tra le radici. Poteva… poteva essere sangue?
“Non mi va di giocare, comunque.” Marcello si sedette sul recinto e guardò il cielo. “È troppo… voglio dire, mi sento diverso.”
“Lo siamo sempre stati,” Flavia si appoggiò al recinto vicino a lui e sorrise. “Solo che ora sappiamo il perché.”
“Servisse a qualcosa.” Marcello scosse la testa. “Perché siamo bloccati qui in questo… questo mucchio di stupide cave… se c’è tutta una Fratellanza da qualche parte e Papà ne era a capo? Papà lo sa che in paese non piacciamo a nessuno. Lo sa che per loro…” indicò il sentiero che portava al paese. “Siamo gli ultimi arrivati… quelli con un accento strano… quelli che non hanno niente a che fare con la loro tranquilla vita serena… piuttosto preferirei farmi mercenario!”
Marcello!” Flavia lo sgridò.
“Ehi! Non dicevo sul serio.” Il diretto interessato tirò un sospiro. “Voglio dire, ho dieci anni e sono alto per la mia età; ti prendono a quindici, potrebbero cascarci se non mi sentono parlare. Ma… lo so che ora combattono con le armi da fuoco. Voglio dire, se una di quelle palle di piombo ti beccano… credo di sapere cosa abbia causato la cicatrice sulla schiena di Papà.” Un momento… cicatrice… tempo che cambia… dolore… “Ci sono! So perché Papà non sta tanto bene!” disse saltando giù. “Dice sempre che la cicatrice gli fa male quando arriva una tempesta, ne deve stare arrivando una bella grossa se sta soffrendo in quel modo!”
“Pensi che la ragione sia quella?” Flavia alzò un sopracciglio e apparve incerta.
“Cos’altro potrebbe essere?” Il più giovane degli Auditore fece qualche passo verso la villa. Non voleva nemmeno pensare alla possibile risposta a quella domanda. “Quest’anno l’estate è durata anche troppo. Possiamo ancora andare in giro senza il mantello invernale.”
“Come se questa fosse la nostra prima estate di San Martino,” sogghignò Flavia.
Marcello sbuffò. La questione si era fatta interessante, ma loro erano stati mandati via a giocare come mocciosi. Da quello che poteva vedere, Papà era tornato nel suo studio e chiuso la porta. Andrea, il tuttofare, stava lavorando nei campi, cercando di ripulire il macello della notte precedente, e Serena, che aveva provveduto a badare a Flavia e Marcello fino a che loro non erano stati grandi abbastanza, lo stava aiutando.
“Mi annoio!” sbottò Marcello.
“Tu ti annoi sempre!” Flavia gli diede una pacca sulla spalla. “Forza, andiamo a cercare Mamma.”
La trovarono nella biblioteca, come sempre. Se lo studio era il rifugio di Papà, la biblioteca, quando non avevano lezioni, era quello di Mamma. Era china su uno dei libri acquistati di recente, ma l’aria preoccupata sulla sua faccia informò Marcello che lei non ci stava davvero prestando attenzione.
“Ciao Mamma!” Marcello cercò di dire nel tono più allegro che gli potesse venire. Mamma alzò lo sguardo dal libro e guardò i due bambini.
“Ciao, bambini,” disse alzandosi e dando un bacio sulla fronte a Marcello, che dovette trattenersi per non indietreggiare e protestare. Aveva dieci anni, insomma!
“Mamma, ma tu sapevi degli…?” Flavia esordì, poi fece una smorfia e rimase in silenzio. Assassini, Marcello poteva scommettere che avrebbe voluto dire.
Mamma annuì.
“Allora è per questo che siamo qui, vero?” Flavia continuò. “I nemici di Papà. Ne ha ancora, giusto? È per questo che siamo in questo buco.”
“Aspetta…” intervenne Marcello. Non riusciva proprio a capire cosa intendesse sua sorella. “Non ci arrivo, Flavia. Qua siamo soli. Senza difese.”
“Siamo lontani dalla guerra,” Mamma spiegò loro. “Vostro padre vuole restarne lontano. Magari anche lasciarsela alle spalle. Ma… una parte di lui vuole ancora combattere. Non può… non senza metterci in pericolo. Nessuno di noi sa difendersi. Dipendiamo da lui.”
“E allora perché non mi insegna a combattere?” protestò Marcello.
“Non ci insegna,” Flavia lo contraddisse. Si innervosiva sempre un po’ quando si rendeva conto che qualcosa “non era roba da femmine”.
“Quello che ha visto non è niente che vorrebbe viviate anche voi,” disse Mamma, la sua voce poco più che un bisbiglio. “Speravamo poteste rimanerne fuori.”
“Speravate?” Marcello non poté evitare di notare il tempo passato.
“Beh, non parliamone adesso.” Mamma si voltò verso lo scaffale e tirò fuori uno dei libri. “Penso che non guasti andare avanti con le lezioni come sempre.” Mise il libro in mano a Marcello.
“Latino?” Marcello fece una smorfia. “Perché?”
“Voi due dite sempre di voler lasciare il paese,” Mamma abbozzò un sorriso. “Ricordi quello che dico sempre? Il latino è la lingua degli eruditi.”
“Come se accettassero mai me all’università,” Flavia sbuffò e si buttò sulla sedia più vicina. “Soltanto i maaaaschi… bah. Stronzate.”
Flavia! E questa dove l’hai sentita?” Mamma la sgridò. L’undicenne-e-mezzo rimase zitta, il che era abbastanza strano per lei. Ma Marcello poteva capirla. Era sempre stato così… a casa, Mamma e Flavia erano pari, ma non appena lui era stato grande abbastanza da andare a scuola, aveva scoperto che le donne non erano trattate alla stessa maniera fuori dalle mura della villa.
“Cominciamo.” Mamma decise di chiudere un occhio sulla parolaccia e fece gesto a Marcello di sedersi e aprire il libro. “Marcello, inizia tu.”
Il decenne prese posto e aprì il libro alla prima pagina.
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram…

 
Stava sicuramente arrivando una tempesta, e il dolore di Papà era un avvertimento… ma era molto, molto peggio di quanto Marcello si potesse aspettare. Fu il primo a smettere di preoccuparsi. Se gli parlassi adesso di quei giorni, direbbe che avrebbe dovuto capire che stava succedendo qualcosa. Che avrebbe dovuto stare più vicino a nostro padre, durante quegli ultimi giorni. Ma se devo dire la verità, proprio in quei giorni fu Papà a prendere in mano la situazione. Aveva capito che il tempo rimastogli era poco, qualsiasi cosa fosse quel dolore al braccio. Aveva preso a restare più tempo con noi. A raccontare la sua storia. Lo stesso giorno che ci raccontò tutto, ci chiese di portargli tutti i bastoni che potessimo trovare e con i due più lunghi, fece in fretta un paio di spade di legno e ce le diede.
Eravamo due bambini. Non capivamo. E forse, era meglio così.
Due anni dopo, avrei visto Marcello venire a sapere dell’imminente morte di una persona a cui era molto legato. Per lui fu molto peggio restare lì, ad attendere l’inevitabile, che assistere ad un fulmine a ciel sereno.
 
29 Novembre 1524, Fiesole
 
“Ehi, Papà.”
Flavia e Marcello erano andati in paese con la mamma, ed erano tornati al tramonto, stanchi, impolverati nel caso di Marcello, ma davvero felici.
Dopo il bagno e la cena, i due bambini erano stati mandati a letto, e come sempre Papà aveva cantato loro una delle sue canzoni.
Certo, non era proprio un bravo cantante, e ultimamente i versi delle canzoni erano interrotti da colpi di tosse, ma Marcello ancora le considerava le migliori canzoni del mondo, specialmente adesso che sapeva che le storie che c’erano dietro erano vere.
“Ma quel Cesare era davvero così cattivo?” chiese mentre Papà faceva per attraversare l’uscio.
“Se ti dicessi quello che faceva, non dormiresti” Papà gli disse sedendosi di nuovo sul suo letto “Posso soltanto dirti che ebbe poco tempo per cambiare convinzione durante la sua caduta. Giusto il tempo tra il cascare e toccare terra.”
Marcello sogghignò.
“Sai, Papà, anche io ho scritto una canzone.”
“Ah, davvero? E quando?”
“Oggi a Fiesole.”
“Ma di cosa stai parlando?” Flavia gli chiese. “Ci siamo solo presi la rivincita su Edoardo.”
“È quello che voglio dire. Se Papà ha fatto la canzone di Cesare dopo averlo buttato per aria...”
“D’accordo, ora posso iniziare a preoccuparmi. Che avete fatto a quel povero ragazzo?”
“Cos’ha fatto lui a me, vuoi dire” ribatté Marcello. “Mamma ci ha preso una crostatina da dividere insieme, ed eravamo seduti su un muretto per farla a metà mentre Mamma era dai corrieri per dargli una lettera. Non stavo guardando, Edoardo mi si avvicina da dietro, mi acchiappa per la camicia, mi butta per terra e si prende tutta la crostata.”
“Perché non l’hai detto a tua madre?”
Marcello sogghignò e si schiarì la voce.
Edoardo, Edoardo, idiota di un ladro, non fece un boccone, che lo cacò il piccione.
Papà ridacchiò.
“Davvero, è stato straordinario” Flavia commentò. “Non appena ha capito da che parte era andato Edoardo, ha trovato una piccionaia sopra di lui, è salito sul palazzo dove stava, l’ha aperta, l’ha picchiata con un bastone e ha abbaiato come un cane finché tutti i piccioni non sono scappati via facendosela sotto dalla paura!”
“Avrei fatto più in fretta se tu mi avessi aiutato” ribatté Marcello.
Non posso arrampicarmi, non con un vestito.”
“Voi due siete due piccole pesti” Papà disse rimettendosi in piedi con un sorriso. “Flavia, continua a prenderti cura di tuo fratello e andrà tutto bene. Quanto a te, Marcello, vedi di non trasformare Edoardo nel tuo Vieri. Restate insieme ogni volta che potete, e se vi farete mai amici veri, teneteveli stretti. Ricordate che vi fate forza l’un l’altra.”
“Aspetta!” Marcello intervenne mentre Papà faceva per andarsene.
“Cosa c’è?”
Marcello fece una smorfia e strinse le coperte con le mani.
“Ma… gli altri Assassini… noi li incontreremo mai?”
Papà si limitò a sorridere.
“Voi due ne avete già incontrati due. Eravate soltanto troppo piccoli per ricordarli” disse sedendosi di nuovo sul letto. “Flavia, devi sapere che uno dei miei apprendisti fu il mio testimone a Venezia, e quando nascesti tu lo chiamai qui perché ti facesse da padrino. Adesso è più un pittore che un Assassino, ma lavora ancora per la Fratellanza quando hanno bisogno di lui. Quanto a te, Marcello… quando avevi due anni, rompesti le scatole ad un apprendista diciottenne a cui dovevo consegnare una spada. Tanto facesti che lui si trovò a doverti prendere in braccio.”
Marcello arrossì e nascose la faccia dietro alle coperte.
“Ma si era arrabbiato?” mugugnò contro la coperta.
“Tutt’altro. Gli stavi simpatico.”
“Ma se gli altri Assassini pensano che io sono simpatico, perché allora non posso andare con loro?” Marcello abbassò la coperta e sbuffò. “Lo so che sei preoccupato. Ma… ho dieci anni. Imparerei a badare a me stesso, lo prometto… piuttosto che stare qui a farmi prendere in giro, mi farei tutta la vita con gli Assassini!”
“Non ti lascerebbero in pace un minuto però, puoi starne certo,” gli fece notare Papà.
“Nemmeno quell’Apprendista?” Marcello chiese timidamente.
“Non penso sia più un Apprendista oramai. Ma non lo vedo da otto anni, il massimo che ho fatto è stato mandargli delle lettere. So che ha una villa in un paese qui vicino, si è sposato e ha un bambino con la metà dei tuoi anni, ma al momento è su, nel Ducato di Milano… e non penso che lascerà il fronte tanto presto… a meno che non accada qualcosa che lo spinga a lasciare l’esercito.”
“Peccato” concluse Marcello appoggiando la testa al cuscino. “Mi sarebbe piaciuto rivederlo.”
 
Quella fu l’ultima notte che nostro padre ci rimase accanto.
Stavamo giocando insieme, vicino al Duomo, a Firenze, cercando di trovare il fantasma di Lucrezia Borgia prima che avvelenasse le mele che nostra madre stava per comprare. Stupido, vero? Due fratellini armati di bastoni contro un fantasma inesistente.
 
Non ce ne accorgemmo quando nostra madre lasciò le bancarelle e trovò nostro padre, ancora sulla panca, ma immobile. Non ce ne accorgemmo se non quando qualcuno, nella folla, gridò.
A quel punto Marcello lasciò il bastone e strizzò gli occhi, e mi disse che non vedeva più Papà. Iniziò a guardarsi intorno. Iniziò a correre in ogni direzione, chiamandolo. Quasi scappò via dalla piazza. Quando riuscii a farlo fermare, stava singhiozzando che non riusciva più a trovarlo. Non riusciva a stare zitto. Non riusciva a stare fermo.
Dovetti abbracciarlo per tenerlo fermo, e continuava ancora a piangere e singhiozzare.
Volevo piangere anche io.
Sembrava che il terreno ci fosse franato da sotto i piedi.
Sembrava che il mondo fosse finito.
Come puoi spiegare qualcosa di così terribile soltanto con le parole? Non ci sono parole per spiegare come ci si sente, in nessuna lingua, in nessun MODO.
Nostro padre se ne era andato, in un posto dove non l’avremmo potuto ritrovare. E non sarebbe più tornato.
 
 
 
Purtroppo certe scene rimangono le stesse – e non vorresti mai doverle scrivere, o riscrivere, anche se devi.
Per chiunque non sappia il latino – parecchi:
 
Canto le armi e l'uomo che per primo dalle terre di Troia
raggiunse esule l'Italia per volere del fato e le sponde
lavine, molto per forza di dèi travagliato in terra
e in mare, e per la memore ira della crudele Giunone

 
È parte del proemio dell’Eneide. Sì, Giunone era cattiva anche lì. No, non l’ho messo per pura coincidenza.
   
 
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