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Autore: aturiel    07/09/2015    6 recensioni
La vita di un uomo cambia in cinque minuti: uno scambio di opinioni, una frase detta da una persona importante – ma anche di una sconosciuta –, un sospiro di troppo, una lite, un incidente, un lutto, un libro. I cambiamenti più importanti avvengono in un soffio di vento e si protraggono fino alla fine dell'esistenza. Ed era proprio ciò che era accaduto a Rin quando, in una di quelle giornate banali e senza scopo alcuno, si era ritrovato in un angolo di strada ed era rimasto bloccato in una fiumana di gente che si era accalcata per vedere "qualcosa".
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Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Haruka Nanase, Rin Matsuoka
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Lying close to you feeling your heart beating
And I'm wondering what you're dreaming
Wondering if it's me you're seeing
Then I kiss your eyes
And thank God we're together
I just want to stay with you in this moment forever
Forever and ever.


La vita di un uomo cambia in cinque minuti: uno scambio di opinioni, una frase detta da una persona importante – ma anche da una sconosciuta –, un sospiro di troppo, una lite, un incidente, un lutto, un libro. I cambiamenti più importanti avvengono in un soffio di vento e si protraggono fino alla fine dell'esistenza. Ed era proprio questo che era accaduto a Rin quando, in una di quelle giornate banali e senza scopo alcuno, si era ritrovato in un angolo di strada ed era rimasto bloccato in una fiumana di gente accalcata per vedere qualcosa. Inizialmente era rimasto infastidito da tutte quelle persone, ma poi la sua curiosità aveva avuto la meglio e si era avvicinato anche lui, facendosi strada fra i bambini col loro stupore infantile e tutti gli altri che, anch'essi come bambini, tenevano gli occhi spalancati e puntati davanti a sé.
Ci volle un po', ma Rin riuscì finalmente a vedere: un giovane dai capelli neri come l'ebano stava seduto per terra, senza curarsi dello sporco del marciapiede. Aveva le mani imbrattate completamente di pittura, la maglietta bianca piena di schizzi colorati, i pantaloni strappati sulle ginocchia a causa dello sfregamento sull'asfalto. E disegnava, quel ragazzo. Immergeva le dita negli enormi barattoli di colori al suo fianco, quindi dipingeva tramonti su oceani immensi, strade infinite che s'inerpicavano sui monti, gatti che riflettevano cieli notturni, ragazze bellissime di cui non si vedevano i volti, bambini ridenti.
Rin rimase impietrito: l'unica cosa che i suoi occhi riuscivano ad incontrare ormai erano quelle dita che, veloci e imprecise, volteggiavano sulla tela e tracciavano linee su linee che, sovrapponendosi, formavano figure dai tratti sempre più precisi, finché nei disegni si potevano scorgere i più piccoli dettagli: dai sassolini bianchi sul bordo del sentiero di montagna, all'ombra del pino che si rifletteva nel laghetto. Era uno spettacolo talmente intenso che addirittura l'aspetto del giovane passava in secondo piano, nonostante fosse di quelle persone che, quando s'incrociano per strada, è inevitabile seguire un poco con lo sguardo.
Poi gli occhi di quell'artista di strada si alzarono di scatto e si puntarono in quelli di Rin. Le sue iridi brillarono di azzurro slavato, celesti come il cielo e chiare come i laghetti di montagna che dipingeva, eppure senza la limpidezza di quei due spettacoli della natura. Erano impenetrabili
– abbastanza perché Rin si sentisse tentato di carpirne tutti i segreti , gelidi – in modo sufficiente perché Rin si sentisse a disagio per il suo calore – e vuoti  abbastanza perché Rin bramasse riempirli di sé.
E fu quello sguardo, lanciato come per disattenzione, a cambiare la vita di Rin: un soffio di vento spirato da chissà dove e non fu più la stessa persona di prima, un istante ed era diventato qualcun altro.

Rin ormai da giorni non faceva altro che recarsi al solito angolo di strade, quello in cui aveva incontrato il giovane artista di strada. Restava lì, fra la gente, a fissarlo di nascosto, cercando di cogliere ogni movimento delle sue dita e di imprimerselo bene nella mente nella speranza di non dimenticarlo mai, a notare ogni più piccola piega che il suo viso mostrava e conoscere ogni sua micro-espressione: piegava le labbra un poco all'ingiù quando era in difficoltà, strizzava gli occhi quando era stanco, si passava un braccio dietro il collo quando stava pensando, ruotava la testa verso un punto imprecisato quando era distratto, affilava lo sguardo quando era arrabbiato o infastidito e sorrideva un poco quando un bambino si sedeva di fronte a lui e lo osservava attento, quasi si trovasse in aula con la propria maestra di matematica. Nessuna di queste espressione era plateale e visibile a tutti, e solo un occhio attento avrebbe potuto coglierla; lo stesso avveniva con i suoi dipinti: in ogni quadro c'era un piccolo dettaglio di troppo. Che fosse il riflesso su un specchio d'acqua, una stella nel cielo o una foglia dalla forma particolare, in ogni tela c'era una cometa.

Il settimo giorno in cui Rin si recò al solito posto, decise di fermarsi sino a quando l'altro non se ne fosse andato per avere l'occasione di scambiare con lui qualche parola. Dovette attendere le otto e mezza di sera perché il cerchio che tutti i giorni si formava attorno al giovane artista si disperdesse, e dovette aspettare le nove perché l'altro, ignorando il fatto che il suo unico pubblico fosse ormai composto solo da un vecchio ubriaco e da Rin stesso, finisse il suo quadro. Solo allora, quando il giovane aveva iniziato a pulirsi le mani con uno strofinaccio, Rin gli si avvicinò e gli chiese: «Come ti chiami?»
L'altro non alzò nemmeno gli occhi dalle sue mani che, ancora, stavano riordinando gli attrezzi del mestiere e li stavano infilando con cura in una borsa: «Haruka».
Rin assaporò quelle tre sillabe e le fece rotolare sulla sua lingua, morbide: «Da quanto dipingi, Haruka?»
L'altro scosse le spalle, sempre con lo sguardo basso: «Da sempre».
Rin avrebbe voluto chiedergli mille cose, domandargli la sua storia, perché si trovasse in quel misero angolo di strada se disegnava così bene, come aveva imparato a dipingere con le sole dita, se avesse famiglia, se ci fosse una persona nella sua vita, quanti anni avesse... ma l'unica cosa che riuscì a formulare fu: «Perché disegni una cometa in ogni tuo quadro?»
Questa volta Haruka alzò lo sguardo dalle sue mani e incrociò quello di Rin. Nei suoi occhi cristallini si leggeva una certa sorpresa, una curiosità infantile, una tacita domanda a cui, però, Rin non riusciva a rispondere. Come aveva trovato le comete? Gli sarebbe piaciuto dire che coglieva bene i dettagli, ma la realtà era che tutto d'un tratto le aveva viste e basta, come se il suo cervello le avesse sempre registrate e, solo dopo un po', i suoi occhi se ne fossero resi conto.
«Sono la mia firma» rispose Haruka, con quella sua voce fredda e distaccata.
Eppure, a Rin, che pur non capiva nulla di pittura, gli parve che fosse più che altro una risposta che dava a quei pochi che
– per caso – trovavano le comete, non la verità. C'era qualcosa di più profondo in quelle macchie allungate che sempre dipingeva, e Rin desiderava scoprirlo.
«Perché dipingi proprio qui?» chiese poi, cercando di saziare la curiosità che l'altro gli suscitava.
«Non c'è un motivo» disse. «Forse perché sono in mezzo a due strade».
Anche questa volta sembrava stesse mentendo, che fosse solo una risposta posticcia. Perché stava continuando a fingere?
«Non vedo nessuno che compra i tuoi quadri. Come mai?» chiese poi, sempre più attirato da quel bizzarro personaggio che si ostinava a osservare da ormai una settimana.
«Non sono in vendita».
E allora che ci faceva ancora lì? Non poteva dipingere in casa, in un parco, in un salone? La logica di Haruka gli sfuggiva completamente, eppure non era spaventato da ciò, anzi, non faceva altro che affascinarlo di più, come fanno quegli artisti incompresi, quei geni che non avevano mai trovato il loro pubblico, quei ritrattisti che, per le strade delle grandi città, riproducevano su un foglio facce su facce come fossero fotografie mentre fumavano una sigaretta e si sporcavano le dita con il carboncino.
«Ti va di venire a mangiare qualcosa con me?» chiese infine Rin.
«Sì» rispose l'altro, stupendo Rin per primo. Gli aveva posto quella domanda quasi per sola curiosità, per aver la possibilità di sentire ancora una volta la sua voce fredda sillabare qualcosa, la sua gola grattare un pochino, il suo fiato caldo formare una nuvoletta quando usciva dalle sue labbra sottili. E invece ora si ritrovava a poterlo avere accanto per una serata intera, e ciò quasi lo spaventava: Haruka, da artista bello e lontano
– più simile ad un sogno che ad una persona in carne ed ossa , rischiava di trasformarsi in ragazzo vivo e tangibile, reale.

Rin e Haruka si erano diretti in un ristorante lì vicino, uno di quelli in cui si mangiava bene senza spendere troppo. Il tepore dei fornelli si mescolava a quello della stufa in un angolo del locale e all'odore vagamente fastidioso del fumo che veniva trasportato dal vento attraverso la finestra, al fianco del loro tavolo. Non parlarono tanto, anzi, rimasero per lo più in silenzio ad osservarsi reciprocamente, con una curiosità tinta di attrazione, con le dita che mai si sfioravano ma che, inconsapevoli, si cercavano sul tavolo. Rin non scoprì nulla della vita di Haruka, ma si rese conto che aveva smesso d'importagli: non gli interessava sapere come si guadagnava da vivere, chi erano i suoi genitori, se aveva fratelli o sorelle, ma s'accorse anzi che aveva incominciato a trovare ognuna di quelle informazioni estremamente futili; quello che desiderava, ora, era scavare nella sua anima, trovare le emozioni che il suo volto palesava così poco, sentire il suo odore pungente che si mescolava a quello della tempera che aveva ancora sulle dita, vedere se i suoi occhi di cristallo erano abbastanza chiari da permettergli di specchiarvisi.
«Perché vieni tutti i giorni a vedermi?» chiese ad un tratto Haruka, che fino a quel momento si era limitato a mangiare in silenzio.
Rin, prima di rispondergli, cercò di placare la gioia improvvisa che si era impossessata del suo animo sentendo che l'altro, sebbene fosse sempre col capo chino sui suoi colori e le sue dita, si fosse accorto della sua presenza: «Perché mi piace come dipingi» rispose.
Per il resto della serata mangiarono in silenzio e lentamente, osservandosi di tanto in tanto di sfuggita, chiaramente con l'intento di non farsi cogliere a lanciare quelle occhiate furtive. Pagò Rin, visto che era stato lui a invitare l'altro, e fu felice che Haruka non si lamentò di questa sua decisione.
«Ti va di andare da qualche parte?» chiese dopo un po' Rin, con la paura che l'altro si allontanasse. Per fortuna, però, Haruka annuì e insieme iniziarono a camminare insieme per le strade della città. Sembrava giorno per la quantità di persone che, come loro, girovagavano ancora a quell'ora: c'erano uomini seduti nei bar che bevevano e scherzavano, camerieri di turno che, con i sorrisi stanchi, continuavano a servire ai tavoli degli ultimi ritardatari, donne che camminavano a braccetto, giovani che aspettavano l'apertura di qualche locale, ragazze che cercavano di evitare le grate dei tombini su quei loro tacchi vertiginosi. E poi c'erano loro due che, fra tutta quella confusione di voci che si sovrapponevano e le luci dei lampioni, se ne stavano in silenzio nell'ombra, lontani da tutto e tutti ma con le dita che, piano, si sfioravano.

Rin non sapeva cosa stessero facendo, o almeno non riusciva completamente a comprenderlo. Quando Haruka gli aveva chiesto di salire, Rin aveva immaginato volesse ciò che, generalmente, la gente desiderava quando andava dopo un appuntamento – o quasi – nell'appartamento del proprio accompagnatore. Invece era accaduto tutt'altro: Rin aveva condotto Haruka su per le scale, gli aveva mostrato il suo piccolo bilocale e gli aveva offerto un bicchiere di vodka. L'altro aveva accettato e l'aveva bevuta con un solo sorso, buttando all'indietro la testa come facevano quelli abituati all'alcool, e ciò aveva permesso a Rin di bearsi alla vista della gola scoperta di Haruka, del bianco luminoso della sua pelle e della curva eccessiva che, per un istante solo, aveva assunto. Rin era assurdamente folle di quel giovane bellissimo, innamorato già al primo sguardo, ancora prima di vedere il suo volto, sentire la sua voce; era ammaliato dalle sole dita che, senza barriere, si sporcavano con piacere dei colori e si fondevano con la tela di getto, con enorme passione e rispetto. E proprio per questo, non appena Haruka ebbe posato il bicchiere sul tavolo, si era alzato in piedi, aveva afferrato una delle sue mani e se l'era portata alle labbra, lambendone le prime falangi con la lingua. Haruka non si era allontanato, non aveva mostrato disappunto o fastidio, non era neppure arrossito e, appena Rin ebbe concluso il suo gesto di amore nei confronti di quelle dita, con voce più roca del solito gli aveva sussurrato: «Spogliati».
Rin l'aveva fatto: s'era sfilato la giacca leggera e l'aveva posata su una sedia, poi aveva aperto la camicia bianca, soffermandosi un poco su ogni bottone, e l'aveva gettata a terra e la stessa sorte era toccata ai pantaloni e alla biancheria. Si era ritrovato nudo di fronte allo sguardo freddo di Haruka, rosso in viso per il desiderio più che per la vergogna e leggermente tremante per il freddo. Quindi Haruka aveva posato la sua borsa piena di colori e tele e si era anch'egli spogliato, con una leggerezza e un'eleganza che neppure un gatto sarebbe riuscito ad eguagliare, ed era rimasto ritto in piedi di fronte a lui. Rin si era ritrovato ad essere un poco più assetato ogni centimetro in più di pelle lattea che veniva scoperto, aveva sorpreso il suo cuore battere più velocemente e intensamente e aveva sentito i suoi occhi brillare come affamati. Finito quello che gli era parso più un rito che un semplice liberarsi degli abiti, Haruka gli aveva ordinato, ancora con quella voce leggermente roca, di stendersi sul letto e poi l'aveva raggiunto, sedendosi al suo fianco.
Ora Rin desiderava solo toccare quella pelle bianca e cercare di capire il motivo per cui invece l'altro non cercava nemmeno di avvicinarsi. Ad un tratto Haruka si alzò, prese una tela dalla sua borsa e, con lei, varie tonalità di rosso. Rin continuava a non comprendere cosa volesse fare, e fu solo quando Haruka iniziò a dipingere che capì: lo stava ritraendo su quella tela bianca.
Improvvisamente gli parve un gesto più intimo del sesso: Haruka stava usando le mani per percorrere i suoi confini su una tela, gli occhi di tanto in tanto lo osservavano senza malizia, le sue spalle si muovevano con forza, il suo petto si alzava e abbassava.
Come sarebbero apparsi da fuori Rin e Haruka, rinchiusi in un bilocale, lo sapeva solo la Luna che, dall'alto del cielo notturno, li osservava fredda e implacabile: due giovani nudi – il pittore e il suo modello –, l'eccitazione nell'aria, le dita che affondavano nella pittura rossa come se si trattasse di un corpo con sentimenti e percezione, un'immagine purpurea che si andava a formare su una tela col desiderio di riprodurre un'anima e, infine, la certezza che in quel momento il mondo stesse via via scomparendo attorno ai loro sguardi, l'uno gelido di concentrazione, l'altro bruciante di passione.

Erano due settimane che i due si frequentavano, ma Rin sentiva il tempo trascorso insieme come il peso di una vita. Stare tutti i giorni ad ammirare le dita allungate ed agili del giovane pittore era ciò per cui si svegliava al mattino, scambiare con lui qualche parola durante la cena era il motivo per cui mangiava, obbedire alla sua voce roca e spogliarsi davanti a lui senza pudore o vergogna la ragione per cui, dopo, si addormentava sereno.
Ogni volta che le falangi di Haruka incontravano la tela per ritrarlo, Rin sentiva un centimetro della sua anima venire come inghiottito negli occhi azzurri dell'altro; questo gli donava un insolito senso di pace, e un'inattesa felicità s'insinuava attraverso una porta che, neppure lui, sapeva di aver lasciato aperta. Che fosse questo ciò che i poeti definivano amore? Che bastasse un dipinto per cedere il proprio cuore a qualcun altro? Rin non lo sapeva, ma di certo, come la prima sera aveva compreso che conoscere i dettagli della vita di Haruka fosse inutile e superfluo, aveva capito che fare l'amore con lui non era più una priorità e che, anzi, l'idea lo appagava meno di vedere la sua stessa anima ritratta su un quadro dalle mani del suo amato.
«Ti amo». Le parole di Haruka giunsero completamente inaspettate alle sue orecchie, e avevano lo stesso suono di uno degli ordini che gli impartiva prima di iniziare a dipingerlo. Rin accolse quelle poche sillabe come un dono, e come un dono le conservò all'interno della sua anima.
«Anche io ti amo, Haruka» rispose. E sperò che l'altro accettasse a sua volta il suo, di dono.

Era trascorso un intero mese da quando Rin aveva offerto una cena ad Haruka, ed erano trascorse due settimane da quando Haruka gli aveva consegnato un regalo. I giorni parevano sempre uguali, di una monotonia rassicurante e appagante che ormai a Rin pareva più la calma serafica prima che giungesse la tempesta, e il vento continuava a portargli sussurri insistenti che gli ricordavano che quello era solamente un sogno e che, prima o poi, si sarebbe spezzato.
Era trascorso un intero mese da quando Haruka aveva iniziato il suo ritratto, e fu quel giorno che lo concluse.
Come sempre seguì Rin nel salire le scale, come sempre ordinò a Rin di spogliarsi e, subito dopo, si spogliò anch'egli, quindi, come sempre, prese la pittura tirandola fuori dalla borsa e la posò con delicatezza per terra. Questa volta però non estrasse la tela e Rin si accorse che il colore che aveva intenzione di usare non era più rosso, ma azzurro, quello dei suoi occhi.
«Cobalto» lo corresse Haruka, come se avesse letto i suoi pensieri. E, detto ciò, immerse entrambe le mani all'interno dei barattoli fino ai polsi. Le estrasse poco dopo, gocciolanti di pittura, quindi si avvicinò a Rin e le premette sul suo petto.
Rin, sorpreso, afferrò i fianchi di Haruka e ne saggiò, per la prima volta, la consistenza, cercando di imprimersela nella mente per non farla scomparire mai più. Haruka allungò le mani e sparse il colore su tutto l'addome del ragazzo come se si trattasse di una delle sue tele, quindi incominciò a massaggiarlo piano, soffermandosi sui suoi capezzoli e sulla base del collo, quindi colmò ancora di più la distanza fra loro e lo baciò, sporcandogli i capelli rossi di pittura cobalto.
Rin rispose al suo bacio, assaporò il suo gusto, saggiò la consistenza delle sue labbra sottili e morì piano fra le sue braccia che, nel frattempo, continuavano a vagare sul suo corpo, non smettendo di dipingerlo. Rin sussultò quando le dita del giovane giunsero al suo sesso e incominciarono a stimolarlo, e gemette quando Haruka, incurante delle gocce di colore che v'erano cadute, lo accolse nella bocca. Era in completa balia dell'altro, e non avrebbe mai pensato potesse essere così bello poter perdere il controllo del proprio corpo, della propria mente e della propria anima e cederlo senza remora a qualcun altro.
Intanto anche le sue mani avevano cominciato a percorrere ogni millimetro di quella pelle chiara, i suoi denti e le sue unghie affondarono più e più volte nella sua spalla o nella schiena di Haruka, e ogni parte dell'essere di Rin si sentì felice quando i suoi gesti provocavano gemiti e ansimi leggeri in Haruka.
Il piacere divenne però completo solo in seguito, nel preciso istante in cui Haruka entrava in lui con la decisione e la passione che imprimeva nei suoi dipinti: Rin capì che gli era appena stato fatto un ennesimo dono e, nel momento stesso in cui venne fra le dita ancora cobalto del giovane, riuscì a comprendere che, se in tutto il mese precedente il ragazzo aveva ritratto la sua anima su una tela, adesso sul suo corpo aveva impresso la propria e gliel'aveva affidata.
Rin sentì il seme di Haruka diffondersi dentro di lui, come simbolo della presenza concreta della sua esistenza, e poi, ancora con i sensi annebbiati e i muscoli indolenziti dal sesso, capì che Haruka si stava rivestendo e che, poco dopo, se n'era andato senza lasciargli neppure una parola.
Rin si alzò, stanco, dal letto e si avvicinò allo specchio che dava bella mostra di sé al centro della stanza: sul suo corpo completamente coperto di pittura cobalto, solo una macchia allungata di pelle dalla forma ormai per lui inconfondibile era pulita: una cometa.

Erano trascorse due settimane da quando aveva fatto l'amore con Haruka, ed erano trascorse due settimane da quando l'aveva visto per l'ultima volta. Da quel giorno si era recato tutti i giorni all'angolo fra le due strade, ma l'artista non v'era più tornato.
Era scomparso all'improvviso, lasciandolo con un senso di irrisolto che mai, lo sapeva, l'avrebbe più abbandonato. Eppure, se molti dicevano che la fine di un amore rendeva vuoti, ciò non era accaduto a Rin: sentiva tutte le notti le mani di Haruka sfiorargli la pelle, intrise di pittura del colore della sua anima e, anche solo in questo modo, si sentiva sazio. In fondo aveva ricevuto da lui ben due doni, ed era certo che, un giorno, avrebbe dovuto mostrarglieli come garanzia del suo amore; l'unica cosa che gli dispiaceva, in quel momento, era non aver potuto consegnargli il suo ultimo regalo, e questo pensiero non gli dava pace, come fosse una maledizione.

Rin era steso sul suo letto nel bilocale in cui aveva vissuto tutta la vita e, adesso, sentiva che questa lo stava abbandonando. Al suo fianco c'erano due persone soltanto: un uomo della sua stessa età dagli occhi color smeraldo e un ragazzino che aveva la capacità di saper suonare dolci melodie col pianoforte che Rin aveva comprato qualche anno prima in un mercatino delle pulci.
Ad un tratto, dalla porta d'ingresso, entrò una terza figura: era alta ed aggraziata come quella di un gatto, le dita lunghe e affusolate e portava una borsa abbastanza gonfia da essere sul punto di scoppiare. Fece un passo e Rin s'accorse che aveva i capelli neri come l'ebano e gli occhi di un colore il cui nome non avrebbe mai dimenticato.
Rin sorrise piano, guardando nella direzione di Haruka. Non si curò delle rughe che ormai segnavano il suo volto, né del tremore delle sue mani e della sua voce, e neppure del bianco dei suoi capelli, un tempo rossi come il fuoco, e disse: «Ti ho aspettato».
Haruka sorrise – sorrise davvero – e gli disse: «Sono tornato per riavere la mia anima».
«E io ti ho atteso per darti il mio ultimo dono» rispose Rin, sorridendo a sua volta e facendo brillare i suoi occhi cisposi di una luce nostalgica e che ormai credeva persa anni addietro. Prese quindi le mani di Haruka e sussurrò, sperando che gli altri non sentissero: «Te ne sei andato, Haruka, ma io ti avrei seguito fino alla fine». Era quello il suo ultimo dono, il concedergli la sua stessa vita per poterla trascorrere al suo fianco. Era stata l'unica possibilità inespressa quando l'aveva incontrato per la prima volta e, ora, era certo di essere vissuto fino a quel momento solo per potergliela regalare.
Haruka si abbassò sulle sue labbra e, con una luce calda che non aveva mai visto nei suoi occhi, sussurrò: «Io non me ne sono mai andato» quindi prese la sua borsa e, improvviso e leggero com'era apparso, se ne andò e, con lui, l'ultimo respiro di Rin.
Due sole parole risuonavano all'interno del bilocale, trasportate da un soffio di vento proveniente da un luogo lontano e sconosciuto: «Ti amo».







 

Note autrice
Lo stile è volutamente un po' più ricercato del solito, ci sono numerose “d” eufoniche anche quando la vocale che segue è diversa da quella della preposizione/congiunzione e alcune ellissi che normalmente non avrei utilizzato.
La citazione a inizio testo è tratta dal lyrics di “I don't wanna miss a thing” degli Aereosmith e l'ho inserita perché spero possa far comprendere il significato della storia.
Ho cercato di mantenere inalterati gli IC dei personaggi, ma purtroppo temo di essere andata un po' OOC con Rin che, generalmente, non avrebbe questi pensieri. Allo stesso tempo non me ne sono curata molto perché era fondamentale che il suo carattere fosse questo per la storia che ho deciso di raccontare.
Per quanto riguarda il significato della storia, invece, vorrei non esplicitarlo. Ci sono alcuni segni che – spero – facciano capire cosa veramente è successo, ma allo stesso tempo ci può essere un'interpretazione personale (se poi vorrete sentire la mia, ben venga eh! xD), e anche per questo preferisco non spiegare ma mostrare e basta.
   
 
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