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Autore: Ivola    12/09/2015    2 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: 26 aprile 2013 - 12 settembre 2015. Due anni e mezzo. Quest'avventura è durata due anni e mezzo. E ora si conclude.
Mi dispiace farvi sorbire queste note lunghissime, quindi se volete potete passare direttamente all'epilogo, tuttavia dei ringraziamenti sono necessari.
Prima alcune spiegazioni, però: l'epilogo effettivo si ambienta svariati e indefiniti anni nel futuro, ma è intervallato da alcuni flashbacks importantissimi (sono pieni di doppi significati, spero che qualcuno lo noti), ognuno incentrato su una delle tre relazioni portanti di questa storia. L'ultimo di essi riprende una scena del capitolo ventuno, che probabilmente qualcuno ricorderà.
Aggiungo solo delle cose che non ho potuto spiegare apertamente nel testo per non "rovinare" l'atmosfera: Bridget e Käthe vivono insieme a Capitol City; qualche anno dopo il trasferimento adottarono un bambino quattro anni più grande di Klaudia, Ashton (con cui la shippo tantissimo, ma tralasciamo), che verrà menzionato nell'epilogo. Cosa è successo agli altri personaggi... beh, non ve lo anticipo. Avrei voluto dedicare più spazio alle spiegazioni, ma mi sono detta che preferivo un epilogo breve, più basato sull' "atmosfera" che su un effettivo riassunto dei fatti.
Spero che la conclusione di questa storia non abbia deluso nessuno, perché è ciò che doveva accadere sin dal principio, come ho detto già anche altre volte. Ci ho lavorato sopra per più di due anni, cercando di mettere ogni tassello a posto e di aggiustare tutto per far convergere la storia in questo finale dolceamaro. Sono stata notti, giorni interi a scrivere e a soffrire con Klaus, Londie e Ben, a casa, stravaccata sul letto, in spiaggia, in auto, in pullman, sentendomi in colpa ma comunque fiera di ciò che stavo scrivendo. Volevo una storia drammatica, intensa, più psicologica che romantica e alla fine... alla fine l'ho costruita, eccola qui. La mia Blur. Blur, sfocatura, un significato un po' sfuggente, un titolo poco chiaro in principio, ma fondamentale nella conclusione.
Non avete idea di quanto sia triste e contenta allo stesso tempo di aver terminato questa storia. Mi fa un effetto stranissimo. Mi dedicherò sicuramente ad altri progetti d'ora in avanti (maturità che incombe come la scure di un boia permettendo), in primis continuerò A song of light and dark nel fandom di Game of Thrones e Il sangue del vicino è sempre più rosso sempre in quello di Hunger Games con pandamito (se volete continuare a seguirmi, a proposito, cosa che mi farebbe immensamente piacere, vi linko per l'ennesima volta la mia pagina facebook QUI). Nonostante tutto, comunque, so già che nessun'altra storia sarà come Blur, soprattutto dal punto di vista affettivo. E' la mia prima long conclusa, una long che su Word conta 737 pagine in A5 e 146861 parole. Una long che vorrebbe tantissimo trasformarsi in un libro, un giorno, con i doverosi cambiamenti riguardo il contesto, l'ambientazione e la trama. Spero con tutta me stessa di riuscire a riscriverla, ma voglio far passare qualche annetto ancora prima di cercare di pubblicarla, per far maturare ancora il mio stile e per consolidarlo (dato che tra il primo capitolo e l'ultimo c'è un abisso in quanto a differenza di stile, lo riconosco). Tra l'altro, non voglio che Blur sia il mio primo romanzo, perché so perfettamente cosa dovrò passare per farla accettare da qualche casa editrice (non è, esattamente, il tipo di libro adatto al lettore medio italiano a livello di contenuti, credo)... ovvero le pene dell'inferno, praticamente.
Intanto... grazie a tutti voi per averla letta. Grazie a chi ha letto solo il prologo e a chi ci ha cliccato sopra solo per sbaglio. Grazie a chi ha recensito tutti i capitoli, la maggior parte, o anche uno solo. Non nominerò tutti i recensori, ma sappiate che vi adoro, mi avete fatto sciogliere con tutti i vostri complimenti e le vostre bellissime parole, che mi hanno aiutata e spronata molto. Grazie a chi ha letto la storia in silenzio, a chi l'ha letta soffrendo con i personaggi e a chi l'ha letta per noia. Grazie ai 34 preferiti, 11 ricordati e 55 seguiti. Grazie per le migliaia di visualizzazioni, grazie per il supporto e l'entusiasmo che molti di voi mi hanno dimostrato, anche sui social. Grazie a chi ha messo un piccolo like alla mia pagina.
Grazie ai FolliH, la mia seconda famiglia, le persone che ho importunato per mesi con gli scleri su Blur, i post e gli aggiornamenti. Grazie di cuore, vi adoro e vi adorerò sempre e comunque. Vorrei nominarvi tutti, ma queste note già stanno diventando fin troppo chilometriche e voi siete novanta - novanta, cioè!
Grazie a Sofia, mia cugina, che durante le vacanze estive e natalizie ha dovuto sopportare le mie lacrime amare mentre scrivevo, commuovendosi un po' anche lei.
Grazie ad Anna, la mia migliore amica, che c'è sempre stata e sempre ci sarà, qualsiasi cosa io scriva, qualsiasi cosa io m'inventi di sana pianta.
Grazie a Mito aka Letizia (ma chi è Letizia?), la persona che più mi sopporta in assoluto, a distanza e non, ascoltando i miei audio infiniti su whatsapp e rispondendomi con quale misterioso insetto ha trovato in stanza quella sera, riuscendo comunque a trovare il modo per tirarmi su di morale e aiutarmi nelle imprese più assurde. Grazie anche per il betaggio, per i commenti seri e per quelli demenziali, grazie per la compagnia durante le nottate insonni.
E infine, grazie a Marty, la creatrice dei gemelli, la regina suprema dell'Angst e della drammaticità, che mi ha aiutato innumerevoli volte a plottare, elaborare dialoghi e situazioni, senza contare i milioni di finali alternativi, i dubbi alberi genealogici creati al computer e gli scleri senza orario e senza fine. Grazie per esserci stata, per avermi aiutato e sostenuto, per avermi dato l'opportunità di muovere due personaggi che adoro e che adesso sento davvero miei, come se li conoscessi da sempre, come se li avessi trasmessi nella mia mente sin dalla prima volta che me li hai presentati.
Grazie a tutti. Davvero. Grazie. Ormai ho esaurito le parole e i pensieri.
Ora non posso fare altro che lasciarvi al gran finale di questa turbolenta avventura, è giunto il momento di andare, anche se ho sicuramente dimenticato di dire qualcosa.

Per l'ultima volta... buona lettura ♥
 

Il titolo dell'epilogo non viene da alcuna canzone in particolare. Tuttavia, il sottofondo ideale sarebbe "Hoppipolla", una canzone islandese dei Sigur Ròs, perfetta per la conclusione di Blur.

Quest'ultimo banner appartiene a me, 
©Ivola. Spero vi piaccia.

















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Blur
∞ 
(Tied to a Railroad)




 
 
034. Epilogue – Blur.

 

Passi frettolosi, di bambini che correvano sull'erba di un giardino accogliente, spensierati. Risate, qualche gridolino acuto, sorrisi divertiti.
« Bang! » 
La bambina cadde sul prato rotolando e continuando a ridere.
Il fratello, con un sorriso vittorioso, abbassò le mani piegate a mo' di pistola. « Ho vinto io, Londie! » 
La piccola London non smise di ridere, nemmeno quando Benjamin si buttò sull'erba con lei.
« Però voglio una rivincita » precisò la bambina. « Anche a scacchi. »
« Te l'ho spiegato » ribatté il gemello, aggiustandole una ciocca di capelli e portandogliela dietro l'orecchio, « per vincere a scacchi devi sì uccidere il re, ma è più importante fare fuori la regina. E' lei la pedina pericolosa. »  
London sbuffò, ma poi sorrise di nuovo. « Io sono la regina! » esclamò con fare giocosamente altezzoso. « E tutti gli altri sono miei umili servitori. »
« Certo » la assecondò Ben, dopo essersi alzato nuovamente in piedi e inchinato al cospetto della sorella. « Nessuno vi mancherà mai di rispetto in mia presenza, vostra grazia. »
« Allora sarai il mio alfiere » ridacchiò London. 
« Con piacere » il gemello le prese la mano e ne baciò il dorso elegantemente, « mia regina. »


Il tramonto incendiava l'orizzonte.
Un tripudio di colori accesi, vividi, caldi, che allo sguardo di Klaus risultò come un messaggio. 
« Apa? » 
Klaus non si voltò, affacciato al terrazzo del maniero con aria assorta. Non si voltò fino a che Klaudia non gli poggiò una mano sulla spalla. Si girò e la vide sorridergli con un calore tale che poteva essere paragonato a quello del tramonto. Le sorrise a sua volta.
« Papà, Ashton e le zie stanno per arrivare alla stazione » gli disse, rimboccandosi i capelli dietro un orecchio. Gli ricordava terribilmente London quando faceva così, anche se i capelli di Klaudia erano molto più voluminosi e la madre non portava l'apparecchio acustico dopo un intervento. « Dobbiamo andare a prenderli, ricordi? »  
Klaus annuì. Notò che aveva la sciarpa bianca di sua moglie avvolta intorno al collo. Se ne separava raramente quando cominciava la stagione autunnale.
« Altri due minuti e usciamo » assentì, tornando a volgere lo sguardo al sole bruciante che calava sui tetti dei palazzi ricostruiti del distretto.
Klaudia si aggrappò al suo braccio e prese anche lei ad osservare il tramonto.
Gli faceva quasi uno strano effetto essere lì, solo e invecchiato, con lei. Era cresciuta. Era diventata una donna, faticava ancora ad ammetterlo. Alta, bella, dai tratti morbidi e materni, gli occhi gentili e il sorriso dolce. Rivedeva tutti i Bridge che aveva conosciuto in lei. 
Klaus andava spesso al cimitero a trovarli. A volte portava loro dei fiori, altre restava semplicemente a contemplarli. Passava oltre la tomba di Ludmille Schnee, morta durante la rivolta, dei suoi genitori, di persone sconosciute, poi svoltava e si ritrovava di fronte le lapidi che rappresentavano le due persone più importanti della sua vita.
Il corpo di London non era mai stato realmente seppellito, ma Erzsébet, quando era ancora viva, le aveva fatto costruire una tomba accanto a quella del marito per commemorarla. Lì, ventisette anni dopo, era stato seppellito anche Benjamin, morto dello stesso cancro di suo padre. E infine, l'anno successivo, Erzsébet stessa era giunta a completare la famiglia.
Le lapidi dei gemelli erano all'ombra di un olmo, vicine, di un lucido marmo bianco. Klaus a volte, guardandole, si domandava se li avesse mai conosciuti davvero, se la loro presenza fosse mai stata reale, se non fosse stato tutto un sogno.
A volte piangeva, altre versava solo qualche lacrima, altre sorrideva. 
Erano parte di lui.
L'avevano amato così tanto da allungargli la vita.

Un sottile velo di imbarazzo aleggiava sui due ragazzi che camminavano in un vicolo della zona ovest.
Il più alto dei due si accese una sigaretta, interrompendo il silenzio che si era creato con il leggero scatto dell'accendino. « Quindi? » 
Benjamin lo guardò senza capire, continuando a camminare. « Quindi cosa? » Teneva le mani in tasca perché non voleva che Klaus vedesse quanto gli stavano sudando.
Il moro fece un tiro dalla sigaretta. « Lo diremo a qualcuno? » 
« Io... » tentennò l'altro, non sapendo bene cosa dire o tanto meno cosa pensare di quella situazione. « Non credo. »
« Assolutamente no » disse Klaus, annuendo in segno d'accordo. « Nessuno deve venire a sapere di questa notte. Né ora né mai. »    
Ben non rispose, annuendo distrattamente.
« Ce la fai a mantenere questo segreto, Big Ben? » domandò Klaus con un ghigno malizioso. 
L'altro alzò gli occhi verso il sole che stava sorgendo e sospirò. « Sai, Klaus, a volte mi viene proprio voglia di ucciderti. »  
Il diciassettenne non smise di sogghignare. « Lo so. »  


La figlia appoggiò la testa sulla sua spalla e sospirò piano, chiudendo gli occhi. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai, o che la sua vita si concludesse in quel modo, in quel preciso istante. 
Sarebbe stato perfetto.
Klaus si rigirò tra le dita la fede che portava al collo. Mai come in quel momento si era fermato a pensare con lucidità a tutte le cose che gli erano successe nella sua vita. Quel tramonto lo stava facendo riflettere, gli stava facendo mettere tutto definitivamente in ordine.
Ripensava alla sua adolescenza, ripensava a tutte le cazzate che aveva fatto. Ripensava al suo odio forzato per London, al matrimonio, alla prima notte di nozze. Ripensava al vero odio che aveva provato quando aveva scoperto di Christina, quando aveva capito il reale significato delle ultime parole della moglie.
Ripensava al fatto che amare Benjamin era stato l'unico e ultimo modo che gli era rimasto per amare London. Pensò che da un lato sarebbe stato molto più sicuro odiarli, piuttosto che amarli e poi perderli, ma che dall'altro la sua vita non avrebbe avuto alcun significato senza quel sentimento corrodente e corroborante.
Amore, una parola inventata dagli uomini per giustificare le proprie azioni, o forse soltanto qualcosa di più perverso e precario… qualcosa che tuttora Klaus non riusciva a spiegarsi. Forse non aveva nome, forse tutte le sue convinzioni erano sbagliate. 
Perché, se proprio Klaus avrebbe dovuto immaginarsi l’amore, l’avrebbe immaginato come una persona sola e sconsolata che si diverte nel costruire farfalle di carta e nel guardare vecchie fotografie sbiadite, dal tempo e dal vento. Un amore triste, dopotutto. Un amore senza punto di partenza o punto d’arrivo, un amore che travolge come un treno quelle persone che hanno avuto il coraggio di legarsi da sole alle rotaie con corde ruvide e pesanti.
Klaus abbandonò presto quelle riflessioni sconclusionate. I suoi pensieri non avevano senso. Nessuna definizione di amore per lui aveva senso.
Giusto o sbagliato? Nero o bianco?
London o Ben?
Niente aveva davvero un senso.
Niente che non fosse quel legame che li aveva legati per tutta la loro esistenza. Quel legame, più forte di qualsiasi forza, che non aveva fatto altro che ricucirsi, spezzarsi e risaldarsi all'infinito. Quel legame sconosciuto, a metà strada tra la distruzione e l'autodistruzione. Quel legame che lui avrebbe quasi definito... una sfocatura.

« Io… » tentennò Klaus, come cercando il coraggio per continuare negli occhi della moglie. « Ti amo » disse infine, semplicemente. « Sono stato un bugiardo per tutto questo tempo. » 
Si lasciò baciare e sovrastare dal corpo sinuoso della ragazza, che salì a cavalcioni su di lui, ridacchiando. 
« Lo so, idiota » disse London. « Credo di averlo sempre saputo. » Allora si abbassò sulle sue labbra e lo baciò, ancora. 
Uno scontro di labbra morbido e voglioso, mani che si cercavano, sguardi finalmente sereni, onesti, coraggiosi, corpi che combaciavano alla perfezione. 
« E tu? » domandò Klaus in un sussurro, accarezzandole i fianchi e facendo sfiorare i loro nasi – due respiri che si contaminavano l'uno nell'altro. « Mi amerai mai? » 
London gli sorrise come solo poche volte aveva fatto. Gli prese una mano e ne baciò il palmo. Fece lo stesso con l'altra, lambendo le dita con le sue labbra umide. 
Quelle mani. Quelle mani erano sue. E lei, oh, lo sapeva.
« Può darsi, Klaus » sussurrò a sua volta, « può darsi. »  












 
 
 
   
 
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