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Autore: TuttaColpaDelCielo    21/09/2015    1 recensioni
«Kore.» chiamò «Fanciulla.»
Nyx scostò i suoi veli d'ombra dal mio corpo, mi lasciò esposta sotto lo sguardo del suo signore.
«Ade.» sussurrai «Invisibile.»
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Demetra, Persefone
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Questa storia fa parte della serie 'La Fanciulla e l'Invisibile'
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Autunno

Il sole si avvicinava alla linea delle colline, gemendo sprazzi di rosso nel cielo. Ne studiai i riflessi sul lago, sui capelli delle mie compagne immerse fino alle cosce. Da lontano, potevo ancora sentirle ridere – giocavano tra i bagliori rossi di un'agonia.
Tornai a guardare il sole, chiedendomi se si risentisse di quell'indifferenza.
«Ti rovinerai gli occhi.» commentò Ciane, accoccolata al mio fianco.
«Pare» sorrisi «che non sia concesso guardare neppure questa, di morte.»
Non feci caso al sussulto della ninfa. Sussultavano tutte così tanto, ultimamente, che avevo anche smesso di trovarlo interessante.
«...è così presto per il tramonto. M'intristisce.» mormorò Ciane.
Sorrisi ancora, ma questa volta debolmente, persa in una dolcezza distante.
«Torneranno i giorni lunghi.» promisi. E poi: «Intrecciami una corona.»
Fui costretta a distogliere gli occhi lacrimanti dal sole, li abbassai sulle dita abili della ninfa che torcevano lavanda. Le spighe già seccavano nell'autunno imminente, si spezzavano invece di piegarsi – di già, pensai con una fitta di malinconia, di già giorni brevi e fiori secchi. Il sole moriva piano nel cielo rossastro e così anche l'estate negli ultimi temporali, nell'ultima calura che sfumava verso il fresco. Avrei potuto ravvivare la lavanda, avrei potuto far sbocciare pratoline e chiedere ai narcisi di spuntare, ma non lo feci, perché si era fatto il loro tempo, e di nuovo al loro tempo sarebbero tornati floridi, ma non quel giorno. Non quel giorno, nonostante la malinconia, nonostante la compassione, perché era giusto così, così doveva accadere. Neanche i miei fiori sarebbero sfuggiti al fato.
E allora, godendo di quella malinconia giusta, accettai la corona di spighe spezzate che pungevano le dita.
«Grazie.»
«Andiamo?»
«Va' a chiamare le altre. Vi raggiungo.»
«Ma...»
L'obbedienza a mia madre le imponeva di non lasciarmi sola.
«Non c'è nessuno. Che potrebbe accadermi?» accennai con la mano al lago «Va'.»
L'obbedienza a me non sarebbe neppure stata contemplata, un anno prima, ma qualcuno mi aveva insegnato a indurire la voce e suonare imperiosa. Ciane andò.
Restai sola con il sole che quasi sfiorava le colline, le ombre che si allungavano e quella malinconia giusta, quella malinconia dolce. Nostalgia languida di qualcosa senza nome. Raccolsi le gambe al petto, strinsi la corona tra le mani e tornai a guardare il cielo, sentendomi sola, solissima, nonostante Ciane a pochi passi e le altre ninfe a portata di voce e... e.
E.
Assaporai la stasi, attimi d'attesa scanditi da un respiro che echeggiava appena più distante, appena più profondo del mio. Il sole sfiorò le colline e fu in quell'istante che comparve: ombra densa a oscurare il sole, e poi contorni solidi, sagoma nera a torreggiare su di me.
«Così teatrale.» mormorai. L'Invisibile non rispose e io non potei vederlo in viso, da quella prospettiva scorciata; ma le mani le avevo all'altezza degli occhi, pallidissime contro l'elmo nero, e nel silenzio quella stretta violenta era un urlo.
«Ti aspettavo.» tentai ancora. Ancora non ottenni nulla. Mi parve che dal lago salissero grida, ma era così difficile capirlo, con quel silenzio assordante nelle orecchie; e altre voci indistinte, e poi quella di Ciane che si avvicinava e ancora gridava e poi più niente.
La cosa più terribile fu che non mi importava. Quel silenzio annichiliva il mondo e io lo sapevo, oh, lo sapevo quel che significava, e cos'erano le grida di una ninfa in confronto?
Chinai il capo e chiusi gli occhi, forte, come a impedirmi di piangere.
«Ti prego, non chiedermelo.»
«Lo chiedo.» rispose l'Invisibile.
Fu per la sua voce che mi rannicchiai ancora, per il clangore dell'elmo gettato a terra che sussultai, ma furono le sue mani, gelo gelo gelo gelo di morte oh quanto mi era mancato, a trascinarmi in piedi. Mi strappai da quella stretta, o forse lui mi lasciò andare, e incespicai all'indietro con un grido che premeva in gola. Mi strinsi l'avambraccio, là dove bruciavano i segni delle sue dita, premendomelo contro il seno come a consolarlo dell'offesa. O della perdita. Il calore era insulto, solitudine straziante, mi sentivo pronta a sfaldarmi se le sue mani fredde non fossero tornate a reggermi.
L'Invisibile non mi toccò, ma restò con la mano tesa, vicina abbastanza da sfiorarmi se solo anche io avessi teso la mia. Se solo, se solo... non potevo. Mi premetti di più le braccia al petto, la lavanda che ancora stringevo mi graffiò il collo – corona ridotta a un fascio di spighe spezzate, fragilissime, come se i fiori fossero seccati all'improvviso.
«Non chiedermelo.» ripetei, implorandolo con la voce, con gli occhi, con tutto il corpo tremante per quel gelo assente che agognavo.
L'Invisibile serrò le labbra – lo vedevo in volto, ora, e se le mani erano state un urlo questo era era era troppo perché potessi sopportarlo. Chinai il capo, eppure ce l'avevo ancora davanti, impresso sulle palpebre, il sole morente dietro di lui e i riflessi di sangue sui suoi capelli, il pallore livido della sua pelle inasprito da ombre violacee.
«Guardami.» ordinò l'Invisibile e io gli obbedii, perché che altro potevo fare? Era stato lui a insegnarmi a indurire la voce e suonare imperiosa. Ma guardare la morte non doveva essere concesso neppure a me, perché mi ritrovai incatenata negli abissi del Tartaro, occhi neri come pozzi di morte che mi inghiottivano e- «Ti chiedo solo fino a primavera, Persefone.»
Non mi aveva mai chiamata per nome.
«Non posso. Non...» oh quanto sarebbe stato dolce accettare, perdermi nel gelo, bastava allungare una mano, bastava- dovetti artigliarmi il polso per costringermi a non farlo «Io servo qui.»
«Servi all'inverno, forse? Alle foglie cadute e alla terra ghiacciata?»
«Non esisterà inverno, se resterò. Mia madre non avrà moti-»
«Io.» mi interruppe a denti stretti, la mascella tesa «Io avrò motivo.»
Nei suoi occhi il Tartaro riluceva delle vampe del Flegetonte. Intrappolata sotto quello sguardo, sotto il peso di quella volontà implacabile, mi trovai a un soffio dal cedere, e allora scossi la testa con forza come a dire che no, no, non potevo non potevo non potevo perché doveva farmi così male? perché non mi lasciava in pace? e pensai a mia madre che benediceva la terra gravida di frutti e a Ciane intristita dai giorni autunnali, alle distese di neve, angoscia e freddo e fascino oscuro, oh quanto sarebbe stato dolce ma pensai ancora, pensai alle ninfe tremanti e allo sconforto nei volti scavati e non potevo non potevo non potevo perché
«Chi farà fiorire i bucaneve per sperare?»
«Fioriranno.»
«Tardi. Così tardi. Conosci le foglie cadute e la terra ghiacciata, tu, e non sai dell'attesa dei germogli a primavera, né i colori dell'estate, e l'angoscia oh questa angoscia che assale quando i giorni diventano più brevi. Non posso. Non posso, devo... hanno bisogno di me. L'estate, morirà l'estate, servirà la promessa del futuro. Non posso lasciare che... che...»

Come spiegare.
Come spiegare il calore esausto dell'estate che appassiva, ultimo immane inutile sforzo di giorni sempre più brevi, a chi invisibile viveva moriva di freddo e di buio. Come spiegare le camomille tardive e l'odore di lavanda, e artemisia partorita tra spasmi di temporali estivi. Come spiegare le unghie aggrappate alla vita alla luce sole calore fioriture, mentre già l'aria sapeva di freddo e la stanchezza avanzava, avanzava...
Come spiegare la lenta inesorabile sconfitta a chi invisibile trionfava.
Tra i miei capelli, una spiga bianca colta una volta e sfiorita mai più.
Tra le mie dita, lavanda secca che la brezza portava via.
Come spiegare la presa che si allentava, la resa, oh come spiegare a chi non sapeva o forse sapeva capiva s'immaginava la vita la luce sole calore fioriture sembrava che niente potesse tornare.
Odore di malinconia e mani vuote.

«...non posso.»
«Puoi.»
«L'estate...»
«L'estate morirà comunque.»
«Serviranno i bucaneve.»
«Tornerai per loro.»

Schiusi ancora le labbra, ma non trovando null'altro da dire
sfilai dai capelli la spiga bianca colta una volta e sfiorita mai più;
dita tese verso altre dita tese, e in quel tendersi
l'asfodelo che lentamente
sfioriva.

E allora sorrisi, perché nell'Invisibile vidi
la dolcezza dell'abbandono.
   
 
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