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Autore: LadyRealgar    22/09/2015    2 recensioni
Da cacciatore a preda, il Soldato d'Inverno fugge dai suoi inseguitori o, più correttamente, da un passato che nella sua memoria ha i contorni sfumati di una storia lontana e incompleta. Il suo corpo, provato e ferito, non reggerà ancora per molto il freddo delle montagne presso cui ha cercato riparo e, nella tormenta, quello stesso passato da cui fugge verrà a trarlo in salvo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Sam Wilson/Falcon, Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La neve scendeva lenta dal cielo coperto di grosse e soffici nuvole grigie, avvolgendo la montagna di una fredda coltre bianchissima e scintillante. Stava in quella posizione da ore, rannicchiato dietro un cespuglio con la canna del fucile infilata tra i rami risecchiti; uno strato di circa cinque centimetri di neve si era depositato sulle sue spalle e delle sottili stalattiti di ghiaccio pendevano dal metallo del braccio sinistro e dai capelli incolti, ma a mala pena la sua pelle riusciva a percepire il freddo pungente.

Aveva fame e quella era l’unica sensazione fisica che il suo corpo era in grado di provare in quel momento.

Un rumore ovattato attirò la sua attenzione e un sinistro luccichio brillò nei suoi occhi cerulei quando scorsero la preda tanto attesa: con le sottili zampe che affondavano tra i candidi fiocchi, un daino scavava con il muso in cerca di qualche ciuffo d’erba di cui nutrirsi.

Il vento era favorevole e l’animale pareva non essersi accorto della sua presenza; facendo attenzione a non fare rumore, l’uomo caricò il colpo in canna, chiuse un occhio e con l’altro prese la mira. L’ignaro obiettivo, che aveva finalmente trovato una piccola zolla erbosa congelata, era nel mirino e l’indice sinistro del cecchino scivolò sul grilletto, pronto a dare la pressione necessaria per fare fuoco.

Un secondo rumore nella neve e da dietro un albero comparve un secondo daino, più piccolo e con le macchie bianche appena accennate, che trotterellò allegramente verso l’adulto e iniziò a brucare al suo fianco.

Il dito dell’uomo si bloccò e il colpo non partì. I freddi occhi osservarono i due animali intenti a mangiare con un interesse diverso: non era più lo sguardo del cacciatore affamato, bensì quello di una creatura incuriosita e affascinata dalla premura con cui il daino adulto scavava nella neve con gli zoccoli per trovare al cucciolo l’erba di cui saziarsi.

Quell’innato istinto di protezione che quel maestoso animale dimostrava era uno spettacolo nuovo per l’uomo, abituato da quando riusciva a ricordare alla violenza e al dolore: era insolito e, al contempo, interessante e, cosa ancora più strana, lo coinvolgeva.

Era bello vedere con quanta attenzione il daino adulto cercava in quello spiazzo tra gli alberi, mentre il piccolo saltellava, divertito dagli schizzi di neve che produceva agitando le zampe; per quanta fame avesse, l’uomo non riusciva a premere il grilletto.

Se l’avesse fatto, quella scena si sarebbe infranta, il daino adulto si sarebbe accasciato al suolo, macchiando di rosso il candore della neve, e il piccolo, incapace di trovare da solo il cibo di cui necessitava, non avrebbe superato l’inverno.

Sospirò tra i denti, gli riusciva impossibile far esplodere il colpo. Non che non ne fosse capace, anzi, la conoscenza delle armi e dello scontro corpo a corpo erano le sole nozioni che il suo cervello sembrava aver immagazzinato e, perciò, data anche la sua incredibile prestanza fisica, era un eccellente tiratore e combattente.

Fece scivolare la canna dell’arma fuori dal cespuglio e un rametto si spezzò, facendo rumore; i due daini scattarono sull’attenti drizzando le orecchie e, scovato l’uomo, se la diedero a gambe levate, sparendo in un lampo nel fitto della foresta.

Il soldato si tirò in piedi, una macchia nera nel bianco dello spiazzo innevato, e rimase ad osservare le tracce lasciate dai due animali: avrebbe potuto inseguirle e acchiappare in corsa la sua preda, se solo avesse voluto. E se solo ne avesse auto le forze.

Dall’ultima volta in cui aveva trovato un’abitazione, dove aveva rubato cibo e munizioni, erano trascorse tre settimane e da cinque giorni non aveva mangiato nulla. Per il fabbisogno idrico c’era la neve e la sete non gli seccava la gola, ma lo stomaco gli bruciava e le gambe iniziavano a dare segni di cedimento. Inoltre quel maledetto braccio aveva iniziato a pesare sulla sua spalla  e per il gelo rispondeva ai suoi comandi con lentezza sempre crescente.

La pelle gli doleva, la schiena gli doleva, i piedi e la mano gli dolevano. L’unica cosa che gli permettesse di proseguire era un unico istinto, un comando che continuava a risuonare imperioso nella sua testa: non farsi trovare.

Quella era l’unica difesa che gli era rimasta: scappare, nascondersi. Essere un’ombra nell’oscurità.

Continuava a percepirlo dietro di sé, come un cane che annusa le tracce della lepre ferita dal cacciatore, quell’uomo dagli occhi limpidi e il labbro spaccato che lo guardava dal basso, mentre una mano lo teneva per il bavero e l’altra caricava un pugno.

Quell’uomo era diventato il suo incubo.

Lo sognava di notte, mentre accucciato tra i sassi cercava di riposare il corpo stanco e indolenzito dalla corsa, lo vedeva di giorno in ogni fruscio, in ogni battito d’ali, in ogni latrato, in ogni tuono. Quell’uomo era ovunque, ma, soprattutto, era nella sua testa.

-Bucky…- sussurrarono le sue labbra screpolate, rotte dal vento freddo che soffiava perennemente a quell’altitudine -Chi diavolo è Bucky?

Quella domanda era diventata quasi un mantra per il Soldato d’Inverno, che continuava a rivivere nella memoria gli scontri avuti con l’uomo che per primo si era riferito a lui con un nome.

“Soldato”

Quello era l’unico appellativo che conosceva per riferirsi a se stesso; così lo chiamavano gli uomini in camice bianco mentre lo bloccavano sul lettino con delle grosse cinghie strette attorno alle caviglie e ai polsi, così gli urlavano per intimargli di calmarsi mentre la testa gli andava in fiamme e il corpo si irrigidiva. Il solo ricordo di quel dolore gli faceva salire un urlo alla gola, ma se prima era un pezzo di stoffa cacciato in bocca a strozzargli il grido, ora era la fame.

Era un termine associato a un sacco di sensazioni dolorose e sgradevoli, ma egli lo riconosceva come proprio, a differenza di quel nome così breve, lanciato nella sua testa come una granata. E gli effetti erano stati proprio come quelli di un esplosivo, mettendo a soqquadro il labile equilibrio della sua psiche spezzata e indirizzandolo su un cammino impervio fatto di fughe interminabili e sogni inquieti.

Sogni in cui poteva guardarlo dall’alto al basso, in cui combatteva al suo fianco, in cui lo avvolgeva con il braccio per le spalle e lui gli sorrideva. Il Soldato d’Inverno vedeva tutto questo nel sonno e, ora che i morsi della fame avevano iniziato a indebolirlo, anche da sveglio; vedeva e non capiva, ma più quelle immagini gli si manifestavano, più agognava vederne ancora. Perché, per quanto assurdo e incomprensibile, avevano il potere di farlo sentire in pace.

O, forse, era solo un’illusione.

Sì, doveva essere così; perché un uomo che è stato creato per combattere non può concepire la pace, non può vivere senza la polvere da sparo sulle dita e il puzzo di bruciato nelle narici. Non può perché gli è contro natura e per il Soldato d’Inverno non esiste altro scopo se non uccidere.

Però non era riuscito a premere il grilletto davanti ai due daini. Eppure era affamato.

Cosa vi era di diverso tra il daino e l’uomo con cui aveva combattuto? Si chiedeva mentre guadava un ruscello, tenendo il fucile ben alto affinché non si bagnasse; l’acqua fredda gli penetrò nei vestiti come centinaia di coltelli affilati.

Nessuno gli aveva ordinato di sparare agli animali e lui aveva scelto di non farlo. Gli uomini in camice bianco gli avevano ordinato di uccidere Nick Fury e lui aveva eseguito; gli uomini in camice bianco gli avevano ordinato di uccidere Capitan America e lui ci aveva provato. Era stato fermamente intenzionato a portare a termine quell’ordine, ma quando egli aveva smesso di rispondere ai suoi pugni, lasciando cadere persino il suo bizzarro scudo nel vuoto, aveva provato orrore. Orrore per se stesso.

Ma, di nuovo, non riusciva a comprenderne la ragione: cos’altro era lui se non un’arma? E per cosa le armi vengono fabbricate?

Per uccidere.

O per proteggere.

Si scrollò di dosso quanta più acqua poté dai vestiti, oramai zuppi e già irrigiditi dal vento della sera che già soffiava impietoso; doveva trovarsi un riparo asciutto e accendere un fuoco. Era rischioso perché la luce e il fumo lo avrebbero reso facilmente individuabile, ma anche il Soldato d’Inverno può morire di freddo e quella prospettiva non lo attirava affatto.

Il sole sparì nella cavità formata dall’incontro di due montagne, disegnando le loro lunghe ombre sopra di lui, mentre usciva dalla foresta e un vasto altopiano si aprì davanti a lui; in fondo ad esso una scarpata scendeva ripida verso la valle, dove le luci di un piccolo paese iniziavano ad accendersi colorate contro il buio delle notte.

Fu lì, tra la roccia levigata dal vento e dagli anni, che le sue ginocchia cedettero, affondando nella neve fresca.

“Riposo, soldato”

Era sfinito e aveva disperatamente bisogno di riprendere fiato o non avrebbe mai retto la discesa, poi, all’improvviso, attorno a sé fu luce e musica e risate.

La neve sotto di lui era svanita, sostituita da un gran numero di bancarelle, scritte luminose, giostre e un invitante profumo di zucchero filato; una graziosa ragazza lo afferrò per il braccio sinistro e per un momento rimase sorpreso dal fatto che potesse sentire il suo tocco, la pressione di quella piccola mano mentre gli stringeva il bicipite e lo trascinava verso il gioco del tiro a segno.

Imbracciò il fucile giocattolo: uno, due, tre colpi esattamente al centro del bersaglio. Un gioco da ragazzi, ma non era la ragazza quella che voleva impressionare, sulle donne aveva sempre avuto un discreto fascino e quella non era altro che un sorriso e un nome aggiunti alla sua collezione.

No, la persona a cui voleva dimostrare il suo talento è alle sue spalle, riusciva a sentirne lo sguardo puntato sulla sua schiena.

-Hai visto, Steve?- disse, mettendosi in posa con il fucile appoggiato sulle spalle e voltandosi verso di lui -Sono un cecchino nato. Farò finire la guerra molto prima del previsto e tu non dovrai preoccuparti per me.

La ragazza rise, il suono era indistinto e si confondeva in mezzo al caos degli altri rumori dell’Esposizione, ma lo sguardo di quel ragazzo, così piccolo e gracile, eppure così coraggioso e determinato, faceva molto più rumore nel cuore dell’uomo di tutte quelle voci attorno a lui.

Quel paio di occhi blu gli parlavano, raccontandogli del desiderio di arruolarsi, dell’orgoglio di vederlo indossare la sua divisa nuova da sergente e la terribile preoccupazione di non vederlo tornare. Eppure, di solito, era lui quello che gli salvava il sedere ossuto durante le risse.

Ad un tratto la scena cambiò, non erano più all’esterno, in mezzo alla fiera, ma dentro il padiglione delle forze armate: -Vuoi veramente provarci di nuovo?- sentì dire dalla propria voce, mentre dall’alto della sua statura osservava Steve, intento a guardarsi i piedi. Lo faceva sempre quando lo beccava a fare qualcosa di nascosto.

-E nei panni di chi? Steve dell’Ohio?

Perché non gli riusciva di starsene al sicuro, lontano dai pugni dei bulli e dagli sguardi di compatimento di quelle donne troppo superficiali per poter vedere al di là della sua corporatura minuta e della sua innata timidezza?

Perché doveva insistere nel mettersi a tutti i costi in prima linea e prendersi tutti i colpi? Perché doveva per forza rialzarsi dopo essere caduto a terra? Perché non poteva starsene nelle retrovie, per una volta? E permettergli di proteggerlo?

-Ci sono uomini che sacrificano le loro vite- ribatté Steve -Io non ho il diritto di fare meno di quegli uomini!

-Tu non devi dimostrare niente.

“Tu non devi dimostrarmi niente”

Se le guerre si fossero potute vincere solo con la determinazione, allora Steve sarebbe stato il soldato perfetto e da solo avrebbe potuto mettere la parola fine a quel massacro, ma, purtroppo, quello che veniva richiesto era la forza nei muscoli e nel corpo.

E l’unico muscolo in cui Steve aveva un’innata forza era il cuore.

-Non fare niente di stupido finché non torno!

“Va’ a casa, mettiti al sicuro. Fa’ in modo che, quando tutto questo sarà finito, si possa riprendere da dove ci stiamo lasciando ora”.

-Capitano!- una voce si fece largo tra i lamentosi soffi della bufera, non era la sua e nemmeno quella del piccolo uomo, ma lui l’aveva già sentita prima -Va’ portato immediatamente via di qui!- dove l’aveva udita?

-Aiutami a sollevarlo, Wilson, ora faccio mandare un elicottero- ordinò una seconda voce, sovrastando le grida delle raffiche che schiaffeggiavano l’altopiano.

“Steve…”

L’uomo sentì due grosse mani afferrarlo per le spalle e sollevargli il busto, ma la stretta non era forte, non gli fece male.

-Coraggio, Bucky- disse di nuovo la seconda voce -Non ti arrendere.

“Steve…”

-Saranno qui tra un quarto d’ora- ora era di nuovo quel Wilson a parlare -Se il vento non supera i 34 nodi.

La stretta si intensificò e il Soldato d’Inverno percepì una delicata pressione sul busto e sul volto e un principio di tepore avvolgergli le membra: -Sono qui, Bucky- sentì sussurrare al proprio orecchio -Starò con te fino alla fine.

-Tu sei la mia missione- riuscì a sibilare il soldato, ritrovato un briciolo di forza da quell’abbraccio che lo proteggeva dai morsi del freddo -Steve.

 

Note dell’autrice: Salve a tutti e grazie per aver letto la one-shot Hunted  ^-^ spero sia stata di vostro gradimento e che vi abbia dato un po’ di emozioni. Dopo aver visto The Avengers: Age of Ultron, sono rimasta piuttosto delusa dal fatto che tutta la storia della ricerca di Bucky fosse stata sbrigata in fretta e furia, così ho provato a immaginare come se la passasse il Soldato d’Inverno durante la sua fuga e, beh, questo è stato il risultato.

Come prima, spero che la storia sia valsa il tempo che avete speso nel leggerla e, se vorrete, sarò ben lieta di accogliere commenti e critiche su questo lavoro.

Un abbraccio a tutti!

Lady Realgar

   
 
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