La
neve scendeva lenta
dal cielo coperto di grosse e soffici nuvole grigie, avvolgendo la
montagna di
una fredda coltre bianchissima e scintillante. Stava in quella
posizione da
ore, rannicchiato dietro un cespuglio con la canna del fucile infilata
tra i
rami risecchiti; uno strato di circa cinque centimetri di neve si era
depositato sulle sue spalle e delle sottili stalattiti di ghiaccio
pendevano
dal metallo del braccio sinistro e dai capelli incolti, ma a mala pena
la sua
pelle riusciva a percepire il freddo pungente.
Aveva
fame e quella era
l’unica sensazione fisica che il suo corpo era in grado di
provare in quel
momento.
Un
rumore ovattato
attirò la sua attenzione e un sinistro luccichio
brillò nei suoi occhi cerulei
quando scorsero la preda tanto attesa: con le sottili zampe che
affondavano tra
i candidi fiocchi, un daino scavava con il muso in cerca di qualche
ciuffo
d’erba di cui nutrirsi.
Il
vento era favorevole
e l’animale pareva non essersi accorto della sua presenza;
facendo attenzione a
non fare rumore, l’uomo caricò il colpo in canna,
chiuse un occhio e con
l’altro prese la mira. L’ignaro obiettivo, che
aveva finalmente trovato una
piccola zolla erbosa congelata, era nel mirino e l’indice
sinistro del cecchino
scivolò sul grilletto, pronto a dare la pressione necessaria
per fare fuoco.
Un
secondo rumore nella
neve e da dietro un albero comparve un secondo daino, più
piccolo e con le
macchie bianche appena accennate, che trotterellò
allegramente verso l’adulto e
iniziò a brucare al suo fianco.
Il
dito dell’uomo si
bloccò e il colpo non partì. I freddi occhi
osservarono i due animali intenti a
mangiare con un interesse diverso: non era più lo sguardo
del cacciatore
affamato, bensì quello di una creatura incuriosita e
affascinata dalla premura
con cui il daino adulto scavava nella neve con gli zoccoli per trovare
al
cucciolo l’erba di cui saziarsi.
Quell’innato
istinto di
protezione che quel maestoso animale dimostrava era uno spettacolo
nuovo per
l’uomo, abituato da quando riusciva a ricordare alla violenza
e al dolore: era
insolito e, al contempo, interessante e, cosa ancora più
strana, lo
coinvolgeva.
Era
bello vedere con
quanta attenzione il daino adulto cercava in quello spiazzo tra gli
alberi,
mentre il piccolo saltellava, divertito dagli schizzi di neve che
produceva
agitando le zampe; per quanta fame avesse, l’uomo non
riusciva a premere il
grilletto.
Se
l’avesse fatto,
quella scena si sarebbe infranta, il daino adulto si sarebbe accasciato
al
suolo, macchiando di rosso il candore della neve, e il piccolo,
incapace di
trovare da solo il cibo di cui necessitava, non avrebbe superato
l’inverno.
Sospirò
tra i denti,
gli riusciva impossibile far esplodere il colpo. Non che non ne fosse
capace,
anzi, la conoscenza delle armi e dello scontro corpo a corpo erano le
sole
nozioni che il suo cervello sembrava aver immagazzinato e,
perciò, data anche
la sua incredibile prestanza fisica, era un eccellente tiratore e
combattente.
Fece
scivolare la canna
dell’arma fuori dal cespuglio e un rametto si
spezzò, facendo rumore; i due
daini scattarono sull’attenti drizzando le orecchie e,
scovato l’uomo, se la
diedero a gambe levate, sparendo in un lampo nel fitto della foresta.
Il
soldato si tirò in
piedi, una macchia nera nel bianco dello spiazzo innevato, e rimase ad
osservare le tracce lasciate dai due animali: avrebbe potuto inseguirle
e
acchiappare in corsa la sua preda, se solo avesse voluto. E se solo ne
avesse
auto le forze.
Dall’ultima
volta in
cui aveva trovato un’abitazione, dove aveva rubato cibo e
munizioni, erano
trascorse tre settimane e da cinque giorni non aveva mangiato nulla.
Per il
fabbisogno idrico c’era la neve e la sete non gli seccava la
gola, ma lo
stomaco gli bruciava e le gambe iniziavano a dare segni di cedimento.
Inoltre
quel maledetto braccio aveva iniziato a pesare sulla sua spalla e per il gelo rispondeva
ai suoi comandi con
lentezza sempre crescente.
La
pelle gli doleva, la
schiena gli doleva, i piedi e la mano gli dolevano. L’unica
cosa che gli
permettesse di proseguire era un unico istinto, un comando che
continuava a
risuonare imperioso nella sua testa: non farsi trovare.
Quella
era l’unica
difesa che gli era rimasta: scappare, nascondersi. Essere
un’ombra
nell’oscurità.
Continuava
a percepirlo
dietro di sé, come un cane che annusa le tracce della lepre
ferita dal
cacciatore, quell’uomo dagli occhi limpidi e il labbro
spaccato che lo guardava
dal basso, mentre una mano lo teneva per il bavero e l’altra
caricava un pugno.
Quell’uomo
era
diventato il suo incubo.
Lo
sognava di notte,
mentre accucciato tra i sassi cercava di riposare il corpo stanco e
indolenzito
dalla corsa, lo vedeva di giorno in ogni fruscio, in ogni battito
d’ali, in
ogni latrato, in ogni tuono. Quell’uomo era ovunque, ma,
soprattutto, era nella
sua testa.
-Bucky…-
sussurrarono
le sue labbra screpolate, rotte dal vento freddo che soffiava
perennemente a
quell’altitudine -Chi diavolo è Bucky?
Quella
domanda era
diventata quasi un mantra per il Soldato d’Inverno, che
continuava a rivivere nella
memoria gli scontri avuti con l’uomo che per primo si era
riferito a lui con un
nome.
“Soldato”
Quello
era l’unico
appellativo che conosceva per riferirsi a se stesso; così lo
chiamavano gli
uomini in camice bianco mentre lo bloccavano sul lettino con delle
grosse
cinghie strette attorno alle caviglie e ai polsi, così gli
urlavano per
intimargli di calmarsi mentre la testa gli andava in fiamme e il corpo
si
irrigidiva. Il solo ricordo di quel dolore gli faceva salire un urlo
alla gola,
ma se prima era un pezzo di stoffa cacciato in bocca a strozzargli il
grido,
ora era la fame.
Era
un termine
associato a un sacco di sensazioni dolorose e sgradevoli, ma egli lo
riconosceva come proprio, a differenza di quel nome così
breve, lanciato nella
sua testa come una granata. E gli effetti erano stati proprio come
quelli di un
esplosivo, mettendo a soqquadro il labile equilibrio della sua psiche
spezzata
e indirizzandolo su un cammino impervio fatto di fughe interminabili e
sogni
inquieti.
Sogni
in cui poteva
guardarlo dall’alto al basso, in cui combatteva al suo
fianco, in cui lo
avvolgeva con il braccio per le spalle e lui gli sorrideva. Il Soldato
d’Inverno vedeva tutto questo nel sonno e, ora che i morsi
della fame avevano
iniziato a indebolirlo, anche da sveglio; vedeva e non capiva, ma
più quelle
immagini gli si manifestavano, più agognava vederne ancora.
Perché, per quanto
assurdo e incomprensibile, avevano il potere di farlo sentire in pace.
O,
forse, era solo
un’illusione.
Sì,
doveva essere così;
perché un uomo che è stato creato per combattere
non può concepire la pace, non
può vivere senza la polvere da sparo sulle dita e il puzzo
di bruciato nelle
narici. Non può perché gli è contro
natura e per il Soldato d’Inverno non
esiste altro scopo se non uccidere.
Però
non era riuscito a
premere il grilletto davanti ai due daini. Eppure era affamato.
Cosa
vi era di diverso
tra il daino e l’uomo con cui aveva combattuto? Si chiedeva
mentre guadava un
ruscello, tenendo il fucile ben alto affinché non si
bagnasse; l’acqua fredda
gli penetrò nei vestiti come centinaia di coltelli affilati.
Nessuno
gli aveva
ordinato di sparare agli animali e lui aveva scelto di non farlo. Gli
uomini in
camice bianco gli avevano ordinato di uccidere Nick Fury e lui aveva
eseguito;
gli uomini in camice bianco gli avevano ordinato di uccidere Capitan
America e
lui ci aveva provato. Era stato fermamente intenzionato a portare a
termine
quell’ordine, ma quando egli aveva smesso di rispondere ai
suoi pugni,
lasciando cadere persino il suo bizzarro scudo nel vuoto, aveva provato
orrore.
Orrore per se stesso.
Ma,
di nuovo, non
riusciva a comprenderne la ragione: cos’altro era lui se non
un’arma? E per
cosa le armi vengono fabbricate?
Per
uccidere.
…
O
per proteggere.
Si
scrollò di dosso
quanta più acqua poté dai vestiti, oramai zuppi e
già irrigiditi dal vento
della sera che già soffiava impietoso; doveva trovarsi un
riparo asciutto e
accendere un fuoco. Era rischioso perché la luce e il fumo
lo avrebbero reso facilmente
individuabile, ma anche il Soldato d’Inverno può
morire di freddo e quella
prospettiva non lo attirava affatto.
Il
sole sparì nella
cavità formata dall’incontro di due montagne,
disegnando le loro lunghe ombre
sopra di lui, mentre usciva dalla foresta e un vasto altopiano si
aprì davanti
a lui; in fondo ad esso una scarpata scendeva ripida verso la valle,
dove le
luci di un piccolo paese iniziavano ad accendersi colorate contro il
buio delle
notte.
Fu
lì, tra la roccia levigata
dal vento e dagli anni, che le sue ginocchia cedettero, affondando
nella neve
fresca.
“Riposo,
soldato”
Era
sfinito e aveva
disperatamente bisogno di riprendere fiato o non avrebbe mai retto la
discesa,
poi, all’improvviso, attorno a sé fu luce e musica
e risate.
La
neve sotto di lui era svanita, sostituita da un gran numero di
bancarelle,
scritte luminose, giostre e un invitante profumo di zucchero filato;
una
graziosa ragazza lo afferrò per il braccio sinistro e per un
momento rimase
sorpreso dal fatto che potesse sentire il suo tocco, la pressione di
quella
piccola mano mentre gli stringeva il bicipite e lo trascinava verso il
gioco
del tiro a segno.
Imbracciò
il fucile giocattolo: uno, due, tre colpi esattamente al centro del
bersaglio. Un
gioco da ragazzi, ma non era la ragazza quella che voleva
impressionare, sulle
donne aveva sempre avuto un discreto fascino e quella non era altro che
un
sorriso e un nome aggiunti alla sua collezione.
No,
la persona a cui voleva dimostrare il suo talento è alle sue
spalle, riusciva a
sentirne lo sguardo puntato sulla sua schiena.
-Hai
visto, Steve?- disse, mettendosi in posa con il fucile appoggiato sulle
spalle
e voltandosi verso di lui -Sono un cecchino nato. Farò
finire la guerra molto
prima del previsto e tu non dovrai preoccuparti per me.
La
ragazza rise, il suono era indistinto e si confondeva in mezzo al caos
degli
altri rumori dell’Esposizione, ma lo sguardo di quel ragazzo,
così piccolo e gracile,
eppure così coraggioso e determinato, faceva molto
più rumore nel cuore
dell’uomo di tutte quelle voci attorno a lui.
Quel
paio di occhi blu gli parlavano, raccontandogli del desiderio di
arruolarsi,
dell’orgoglio di vederlo indossare la sua divisa nuova da
sergente e la
terribile preoccupazione di non vederlo tornare. Eppure, di solito, era
lui
quello che gli salvava il sedere ossuto durante le risse.
Ad
un tratto la scena cambiò, non erano più
all’esterno, in mezzo alla fiera, ma
dentro il padiglione delle forze armate: -Vuoi veramente provarci di
nuovo?-
sentì dire dalla propria voce, mentre dall’alto
della sua statura osservava Steve,
intento a guardarsi i piedi. Lo faceva sempre quando lo beccava a fare
qualcosa
di nascosto.
-E
nei panni di chi? Steve dell’Ohio?
Perché
non gli riusciva di starsene al sicuro, lontano dai pugni dei bulli e
dagli
sguardi di compatimento di quelle donne troppo superficiali per poter
vedere al
di là della sua corporatura minuta e della sua innata
timidezza?
Perché
doveva insistere nel mettersi a tutti i costi in prima linea e
prendersi tutti
i colpi? Perché doveva per forza rialzarsi dopo essere
caduto a terra? Perché
non poteva starsene nelle retrovie, per una volta? E permettergli di
proteggerlo?
-Ci
sono uomini che sacrificano le loro vite- ribatté Steve -Io
non ho il diritto
di fare meno di quegli uomini!
-Tu
non devi dimostrare niente.
“Tu
non devi dimostrarmi niente”
Se
le guerre si fossero potute vincere solo con la determinazione, allora
Steve
sarebbe stato il soldato perfetto e da solo avrebbe potuto mettere la
parola
fine a quel massacro, ma, purtroppo, quello che veniva richiesto era la
forza
nei muscoli e nel corpo.
E
l’unico muscolo in cui Steve aveva un’innata forza
era il cuore.
-Non
fare niente di stupido finché non torno!
“Va’
a casa, mettiti al sicuro. Fa’ in modo che, quando tutto
questo sarà finito, si
possa riprendere da dove ci stiamo lasciando ora”.
-Capitano!-
una voce si
fece largo tra i lamentosi soffi della bufera, non era la sua e nemmeno
quella
del piccolo uomo, ma lui l’aveva già sentita prima
-Va’ portato immediatamente
via di qui!- dove l’aveva udita?
-Aiutami
a sollevarlo,
Wilson, ora faccio mandare un elicottero- ordinò una seconda
voce, sovrastando le
grida delle raffiche che schiaffeggiavano l’altopiano.
“Steve…”
L’uomo
sentì due grosse
mani afferrarlo per le spalle e sollevargli il busto, ma la stretta non
era
forte, non gli fece male.
-Coraggio,
Bucky- disse
di nuovo la seconda voce -Non ti arrendere.
“Steve…”
-Saranno
qui tra un
quarto d’ora- ora era di nuovo quel Wilson a parlare -Se il
vento non supera i
34 nodi.
La
stretta si
intensificò e il Soldato d’Inverno
percepì una delicata pressione sul busto e
sul volto e un principio di tepore avvolgergli le membra: -Sono qui,
Bucky-
sentì sussurrare al proprio orecchio -Starò con
te fino alla fine.
-Tu
sei la mia
missione- riuscì a sibilare il soldato, ritrovato un
briciolo di forza da
quell’abbraccio che lo proteggeva dai morsi del freddo -Steve.
Note
dell’autrice:
Salve a tutti e grazie per aver letto
la one-shot Hunted ^-^ spero sia stata di
vostro gradimento e che
vi abbia dato un po’ di emozioni. Dopo aver visto The Avengers: Age of Ultron, sono rimasta
piuttosto delusa dal
fatto che tutta la storia della ricerca di Bucky fosse stata sbrigata
in fretta
e furia, così ho provato a immaginare come se la passasse il
Soldato d’Inverno
durante la sua fuga e, beh, questo è stato il risultato.
Come
prima, spero che
la storia sia valsa il tempo che avete speso nel leggerla e, se
vorrete, sarò
ben lieta di accogliere commenti e critiche su questo lavoro.
Un
abbraccio a tutti!
Lady
Realgar