Trick
or Treat
Piccole
gocce scivolavano con grazia dalla tempia al mento della donna che
aveva attirato su di sé lo sguardo di un uomo taciturno
intento
a correre sulla solita striscia scura, al sicuro dagli sguardi
indiscreti dei comuni mortali iscritti ad una qualsivoglia palestra
londinese.
Lui era Mycroft Holmes e la palestra ce l'aveva in casa.
Così come sua sorella, la quale aveva deciso di restare.
La schiena imperlata di sudore e il top più scuro di
una tonalità rispetto a quando aveva iniziato ad allenarsi,
due ore e mezza prima.
Mycroft non aveva mai dato sfogo davvero alla rabbia esplosa in lui il
giorno di
Natale, quando era venuto a conoscenza di dettagli che fino a quel
momento non aveva colto o, più credibilmente, non aveva
voluto cogliere. Perché in fin dei conti era umano pure lui,
fosse anche in minima percentuale rispetto al resto della popolazione
mondiale.
Chi non lo conosceva davvero - e quindi tutte le
persone alle sue dipendenze, nonché i frequentatori del
Diogenes
Club - non si sarebbe mai accorto del profondo turbamento che lo teneva
sveglio fino a tarda notte e che quotidianamente pretendeva una buona
fetta della sua attenzione.
Nonostante questo lui era impeccabile. Tutti i giorni manovrava, come
un abile burattinaio, le sorti dell'Inghilterra senza mai sbagliare un
colpo.
Dopo quel pugno sul tavolo, fratello e sorella non ne avevano parlato.
Non avevano più parlato di nulla.
La suoneria di un cellulare disturbò il silenzio di
quell'ambiente e distrasse entrambi.
Mycroft smise di guardare sua sorella e focalizzò le cifre
in movimento sul display del tapis roulant.
Lei diminuì gradualmente il numero
di pedalate senza tradire alcun segno di irritazione per l'imprevisto,
- ammesso che quella telefonata lo fosse - con naturale eleganza
ricongiunse una gamba con l'altra e
abbandonò, in totale silenzio, l'attrezzo ginnico.
Il numero che lampeggiava convulso sullo schermo del telefono non
lasciava spazio ad equivoci.
«Sono
impegnata», esordì in tono distaccato e
sbrigativo, sperando di chiudere in fretta la conversazione mentre con
un candido, soffice e profumato asciugamano si detergeva il sudore.
«Sicuramente
non per me», mormorò una voce
suadente
all'altro capo.
Silenzio.
«Bene»,
soffiò con una punta di malcelata malizia. «Ho
bisogno che tu mi raggiunga al solito
posto».
«Hai
appena commesso un errore», fece notare la giovane Holmes
senza trarne alcuna soddisfazione.
In risposta una risata le riempì un timpano.
«Non
più tardi delle cinque. Prendiamo un té
insieme», disse infine. «So che ti
piace». Ancora quel tono
quasi indecente.
La Holmes riagganciò rapidamente prima di abbandonare con
stizza il cellulare sulla scrivania di Mycroft. Ne aveva una quasi in
ogni stanza, quasi che fosse un'indispensabile appendice del suo corpo.
Poi si dileguò.
John Watson ed il suo coinquilino/folle genio/migliore amico - non
necessariamente in quest'ordine - Sherlock Holmes scivolavano veloci
per le strade umide di una frenetica Londra all'ora di punta, la prima
delle tante nel corso di una giornata.
Il medico era ben contento di aver rinunciato al suo turno di lavoro
quella mattina. Il consulente investigativo, infatti, aveva trovato un
nuovo caso su cui lavorare, il che significava una momentanea tregua
alla pericolosissima noia di Sherlock. John, difatti, riteneva
più probabile che il suo amico si facesse del male
annoiandosi
che dando la caccia a criminali di fama internazionale. Senza
preavviso,
la sottile figura svoltò alla propria sinistra e solo una
decina
di passi più avanti John si rese effettivamente conto che
Sherlock era sparito, così imprecò a bassa voce,
fece
dietro front e imboccò la traversa quasi correndo per
raggiungerlo.
«Sherlock!»,
urlò sussurrando il nome in una sorta di rimprovero.
L'ultima
cosa che desiderava era attirare l'attenzione di qualcuno che non fosse
lui, tanto più perché nei vicoli in cui entrambi
si
stavano inoltrando non regnava un'atmosfera molto rassicurante.
Sherlock non faceva altro che imboccare traverse, ora a destra e ora a
sinistra, facendo girare presto la testa a John che si spingeva al
limite pur di stargli dietro. Quest'ultimo era così
concentrato
che sobbalzò emettendo un acuto, seppur strozzato, gridolino
quando un grosso topo gli tagliò velocemente la strada.
Rise di se stesso, ma non per molto. Notò che qualcosa era
cambiato, o meglio aveva cessato di esistere e impiegò una
manciata di secondi a capire che Sherlock si era fermato e che il
grande assente della scena era l'eco ritmato dei suoi passi. Quando
John lo raggiunse, Sherlock aveva lo sguardo attento fisso sul punto
esatto da cui sapeva che John sarebbe apparso. Lo guardò e
non
gli chiese se tutto fosse a posto, ma John ebbe la sensazione che
l'avesse fatto e quindi annuì.
Il consulente investigativo si arrestò dopo aver percorso
circa
un'altra trentina di metri, intimò a John il silenzio
assoluto
portandosi l'indice alle labbra piene e guardò in direzione
del
punto esatto in cui si trovava la persona che l'uomo stava cercando.
Era uno dei suoi collaboratori di strada che ne sapevano una
più
del diavolo, ma almeno una decina in meno di Sherlock, e che
costituivano il canale più veloce per le indagini incrociate
di
cui spesso Holmes necessitava.
Ad una prima occhiata John ritenne che l'uomo non dovesse avere
più di trenta, trentacinque anni, ma trasandato com'era non
gli
fu possibile determinare con certezza la sua età.
Perché
avrebbe dovuto farlo poi? Eppure riuscì a smettere di
pensarci
soltanto quando iniziò a guardarsi attorno accorgendosi che
non
erano affatto soli. Poco distante da loro, un gruppetto di adolescenti
tutti occhiaie scure e felpe lunghe interagiva senza alcun entusiasmo
dando l'idea che anche solo sollevare una mano per gesticolare
costituisse uno sforzo troppo importante, insostenibile
perché
valesse la pena impegnarvisi. Un paio di abitazioni più in
là, affacciata ad una vecchia finestra stava una donna di
mezza
età dall'espressione torva. John si disse che la signora era
lì per caso - del resto era libera di starsene alla finestra
della propria casa, no? - e che non c'era da temere perché
era
con Sherlock. Oppure forse proprio per questo motivo era necessario
preoccuparsi?
Mentre Watson si lasciava condizionare dall'ambiente attorno, l'uomo di
Sherlock si alzò barcollando come fosse ubriaco e con la
stessa
andatura ciondolante si mosse verso di loro.
Al dottore sembrò un atteggiamento del tutto naturale e
comprese
in fretta che era proprio quello il segreto. Gli uomini che lavoravano
per Sherlock erano tutt'altro che dei semplici senzatetto sprovveduti.
Il finto ubriaco passò loro accanto e sembrò
ignorarli
completamente, ma uno dei suoi sbandamenti lo portò a
sfiorare accidentalmente il cappotto scuro di Sherlock e
grazie a
quel fortuito contatto quest'ultimo poté fornire le dovute
indicazioni a chi di dovere.
Un quarto d'ora più tardi medico e consulente investigativo
avevano abbandonato i cupi vicoli della malavita e procedevano a passo
meno spedito.
«Devi
metterci dentro qualcosa se vuoi che la smetta»,
constatò
Sherlock riferendosi allo stomaco di John che brontolava a intervalli
regolari da diversi minuti.
Watson non ebbe neanche il tempo di rispondergli che l'amico lo prese
per la manica della giacca a vento e lo trascinò nel bar
più vicino.
La giovane Holmes sapeva che "il solito posto" si trovava nel Sussex e
quella volta, più precisamente, a Brighton.
Non era stato necessario ricorrere alla tecnologia al fine di
rintracciare la telefonata per essere certa che fosse davvero quella la
sua meta. Sapeva con sicurezza che la persona che le aveva telefonato
possedeva più immobili nella storica contea, il che avrebbe
potuto costituire un problema di non indifferente rilievo se nel corso
della conversazione la sua mente non avesse percepito,
registrato
ed immagazzinato un dettaglio rivelatore: l'inconfondibile
sciabordìo del mare.
Sotto la doccia si preparò mentalmente a quell'incontro
consapevole che soltanto due persone potevano aver attirato il suo
interlocutore nuovamente nei dintorni di Londra. E nessuna delle due
opzioni la entusiasmava particolarmente. Ancor meno le piaceva l'idea
di dover indossare capi d'abbigliamento con cui non si sentiva
propriamente a suo agio, ma dal momento che rifiutare l'invito non era
una possibilità degna di essere presa in considerazione, si
arrese alla necessità di calarsi nei vecchi panni della
donna in
carriera.
Quando uscì dall'abitazione di Mycroft collant color carne
le
fasciavano le gambe lasciate scoperte dal ginocchio in giù,
lo
sguardo color ghiaccio aveva lasciato spazio ad un rassicurante marrone
intenso e, sorretto gentilmente dal naso, regnava sul suo viso uno
stiloso finto paio di occhiali da vista.
Se gli fosse stato possibile, il tassista l'avrebbe accompagnata fin
dentro l'abitazione e sarebbe rimasto ad attenderla lì fuori
per
riaccompagnarla a Londra, ma dovette accontentarsi di una risatina
civettuola accompagnata dalla speranza di rivederla prima o poi.
Una volta all'interno dell'elegante casa sull'oceano, appese la corta
giacca all'appendiabiti a sua disposizione e camminò fino al
grande salotto. Mancavano dodici minuti alle cinque.
«In orario
perfetto», mormorò la voce familiare, soddisfatta.
«Era
davvero necessario per un banalissimo té?»,
domandò
retorica la Holmes indicando con un gesto leggero il non-abbigliamento
della figura dinanzi a sé.
«Nascondere
il mio naturale fascino sotto strati di inutile stoffa non è
nei
miei programmi, mia cara, non quando sono a casa.
Accomodati»,
rispose con calma, sorridendo.
Ma la giovane donna era già sprofondata volentieri in una
grande
poltrona, accavallando le gambe con naturalezza. Non le rispose.
«Gli ho
chiesto di cenare assieme», continuò.
«Di
nuovo?», fece lei con una punta di scetticismo, senza
chiedere di chi stesse parlando.
Inviare sms ad una persona nella consapevolezza di non ricevere alcuna
risposta era segno di una spiccata inclinazione al masochismo, ma forse
in un caso così particolare la perseveranza avrebbe prima o
poi
ripagato il mittente. Dopotutto Sherlock le aveva salvato la vita.
Una sonora, musicale, risata riempì ogni angolo attorno alle
due
figure e solo quando si affievolì fino a spegnersi una
ragazza
spinse nella stanza il carrello su cui aveva precedentemente sistemato,
su di un vassoio, due tazze, una teiera, un'alzatina su più
piani ricca di pasticcini e una zuccheriera.
«Mrs
Adler, il té».
Erano le cinque in punto e il reggicalze della ragazza le copriva una
porzione di pelle più ampia in confronto allo striminzito
completino intimo del tutto trasparente che indossava con la stessa
grazia che usava per spostarsi sui vertiginosi tacchi a spillo che
aveva ai piedi.
La Holmes alzò gli occhi al cielo.
Sorseggiarono la bevanda in silenzio, come in preghiera, e la gemella
di Sherlock ne approfittò per concentrarsi sul proprio ruolo
nelle vicende che coinvolgevano Irene Adler.
«Quando
mi rivelerai il tuo nome?», chiese la Donna alzandosi in
piedi.
Iniziò a camminare lentamente - mostrando senza alcun pudore
le
sue grazie celate soltanto da un sottile strato di nylon nero che la
ricopriva per intero
come una sorta di muta da sub particolarmente sexy - fino a raggiungere
il bracciolo della poltrona su cui era comodamente seduta la Holmes.
«Non fa
parte dei nostri accordi», fece lei, lapidaria.
Irene
Adler distese le labbra rosso rubino in un sorriso malizioso mentre
allungava l'indice verso la guancia sinistra della gemella di Holmes,
dettaglio a lei completamente sconosciuto.
«La tua
pelle è così vellutata»,
soffiò melensa. «Avrei
voluto esserci io con te nella mia tenuta di campagna, qui nel
Sussex», aggiunse con l'intento di spiazzare la sua ospite.
Ma lei non si scompose né si ritrasse al contatto, anche se
istintivamente avrebbe voluto farlo.
«Sei con
me adesso», replicò ostentando calma.
La
Donna si stese sul bracciolo appoggiandosi con un braccio allo
schienale e accavallando le gambe. Perfettamente in equilibrio.
«Ne approfitterò più tardi. Parliamo
del tuo biglietto adesso».
Le pupille della Holmes si dilatarono per la sorpresa che non raggiunse
mai i lineamenti perfetti del suo viso. Tese invece prontamente le
dita, il palmo verso l'alto, in direzione di Irene. Era certa di non
aver lasciato, volutamente o meno, alcun biglietto nella tenuta in cui
era stata insieme a suo fratello Sherlock diverso tempo prima su
suggerimento - o meglio obbligo - di Mycroft e John, per una volta
davvero coalizzati, quindi l'unico modo per saperne di più
era
farsi dare quel fantomatico biglietto, leggerlo e comportarsi di
conseguenza.
Per tutta risposta la Donna le prese la mano, si alzò -
costringendo anche la Holmes ad abbandonare la sua comoda posizione - e
con atteggiamenti sensuali le indicò quella che entrambe
sapevano essere la camera da letto, due stanze più avanti.
Sherlock Holmes aveva
messo piede
nella tenuta di sua sorella - della quale ancora non conosceva neanche
il nome - appartenente in realtà ad Irene Adler con il
pensiero
fisso di scoprire perché le due si conoscessero senza che
lui ne
sapesse niente, come mai sua sorella possedesse le chiavi di una tenuta
nella campagna del Sussex intestata alla Donna e in che modo
quest'ultima fosse coinvolta nei giochi della fotocopia femminile di se
stesso. Così aveva messo in moto un meccanismo.
Assicuratosi che sua
sorella fosse
impegnata in altre faccende, si era messo a scrivere con grafia anonima
una lettera molto sintetica che poteva essere facilmente attribuita ad
una persona intelligente e dedita al trasformismo quale era sua
sorella. Nel biglietto esprimeva la necessità di un incontro
e
lanciava un'esca particolarmente appetitosa: alcune informazioni
strettamente personali, come ad esempio il suo nome.
N.d.A.
Dopo veramente tanto tempo dall'ultimo aggiornamento, eccomi di nuovo qui alle prese con "l'altra".
Prima di dire qualunque cosa voglio ringraziare di cuore Amalia che non solo si è sorbita la OS in anteprima e a puntate, mi ha dato una spinta a continuare approvando il lavoro precedentemente svolto e ha trovato il titolo per questo capitolo, ma - ultimo non certo per importanza - mi ha anche aiutata ad arricchire le generalità della gemella di Sherlock. Sì, finalmente potrete presto chiamarla per nome. Grazie, sei indispensabile.
Inoltre un ringraziamento speciale va Relie Diadamat che ha pazientemente letto e recensito tutti i capitoli a disposizione dicendomi di volta in volta la sua, consigliandomi e stimolandomi a non fermarmi qui.
Spero di essere stata credibile, di non avervi annoiati troppo e di non aver deluso eventuali aspettative. In quanto al paragrafetto conclusivo è nient'altro che un flashback che fa riferimento alla OS/capitolo "Sussex".
Vi sarei davvero grata se condivideste con me le vostre impressioni.
Alla prossima!