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Autore: LeanhaunSidhe    14/10/2015    33 recensioni
La lama brillava ed era sporca. Imuen girò il taglio della falce verso la luna e ghignò incontrando il proprio riflesso. Si sentiva di nuovo vivo. Non distingueva il rosso dei suoi capelli da quello del sangue dei suoi nemici. La sua voce si alzò fino a divenire un urlo. Rideva, rinato e folle, verso quel morto vivente che era stato a lungo: per quanto era rimasto lo spettro di se stesso? Voleva gridare alla notte.
È una storia con tanto originale, che tratta argomenti non convenzionali, non solo battaglia. È una storia di famiglia, di chi si mette in gioco e trova nuove strade... Non solo vecchi sentieri già tracciati... PS: l'avvertimento OOC e' messo piu' che altro per sicurezza. Credo di aver lasciato IC i personaggi. Solo il fatto di averli messi a contatto con nemici niente affatto tradizionali puo' portarli ad agire, talvolta, fuori dalla loro abitudini, sicuramente lontano dalle loro zone di comfort
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aries Kiki, Aries Mu, Aries Shion, Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Ballata dei finti immortali'
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Prequel: Una sventurata, Mnemosine, si presenta al Grande Tempio di Athene. Il suo villaggio è stato distrutto. Fin da subito mostra di avere poteri particolari (vede fantasmi) ed un certo feeling con Death Mask. Per motivi diversi, i due si troveranno a lottare contro Imuen, domatore delle anime dei morti nonché capostipite della razza della protagonista iniziale. La storia si chiude con la sopravvivenza di Death Mask e il ricongiungimento di Mnemosine con la razza d'origine.
La storia coinvolge il cavaliere di Cancer solamente: per i suoi pari è come se non fosse mai accaduto nulla.
Imuen è un essere a metà tra mondo umano e divino. Non è immortale ma certo parecchio longevo. Anticamente, aiutava Athena donando pace alle anime dei cavalieri che neppure i cavalieri di Cancer riuscivano a placare. Nel corso dei secoli si era innamorato di un'ancella del Santuario e la fanciulla era rimasta incinta. Vedendo nella gravidanza della giovane un grave peccato contro la dea, il padre la uccise. Il gesto scatenò la rabbia di Imuen che uccise diverse persone a Rodorio.
In quell'occasione, alcune divinità olimpiche pensarono bene di prendere la palla al balzo ed imprigionarlo, per assicurarsene i preziosi servigi. Da allora Imuen vive praticamente schiavo.
Haldir, gemello di Imuen, ha la sua stessa longevità ma una poteri opposti. Sta iniziando a muoversi per scongiurare una minaccia in cui la loro razza (sia la sua sia quella di Imuen) è coinvolta. Il male, se non arginato, dilagherebbe su tutta la terra
 
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Era un susseguirsi di voci nella sua testa: urla, pianti, lamenti, maledizioni, guai.
Era al limite. Sopportava quello strazio da che era bambina, da sempre, da quando aveva iniziato ad avere memoria. Aveva impiegato anni a comprendere che quella non fosse affatto la normalità ed il peso diventava sempre più gravoso sulle sue spalle.
Mille volte sarebbe stato meglio nascere maschio ed impugnare un'arma piuttosto che sopportare quello strazio. Mille volte meglio essere trafitta dalla spada, piuttosto che essere dilaniata da quel dolore: dolore non tuo, di svariate forme e modi, di tutte le maniere più efferate e perverse avesse potuto concepire la mente umana. Non era vita esistere a quel modo.
Seleina era stanca: quel potere, ormai, non era più un dono da poter curare gli altri quanto piuttosto una maledizione rivolta contro se stessa. Tuttavia, non le reggeva il cuore di lasciare la terra in quelle condizioni. Perché lei lo sapeva: per ogni forma di male ve ne era una corrispondente di bene, meravigliosa, pura e semplice come solo un essere umano potrebbe concepirla ma il bene, ahimè, era troppo poco in confronto a tutto quel dolore. Lei lo sapeva, lo sapeva che sarebbe aumentato.
Lo sentiva nelle viscere di Asgard, nelle sue vene di ghiaccio lavico che scorreva anche nel suo corpo e nella testa e nel cuore. Le bruciava nel petto il grido dei Traditori che si risvegliavano. Oh, lei lo comprendeva: la data era vicina e non avrebbe potuto opporsi in alcun modo. Così, quella ennesima notte di incubi, in cui le sozzure che venivano da fuori continuavano ad imbrattarle la mente ed impedirle il riposo, esausta, spalancò le ante della finestra della propria camera da letto. Ormai era decisa.
Il vento di Asgard le sferzava i capelli ma non le tagliava la pelle: lei stessa era il vento di Asgard. Lo era sempre stata. Aprì le braccia al cielo stellato e si lasciò abbracciare dal vuoto. Pochi attimi dopo, o era del tutto già impazzita o stava correndo, senza alcuna difficoltà e dolore, nella neve fresca che le arrivava quasi al ginocchio ed in cui le sue leggere scarpette da notte affondavano appesantite e rovinate.
Quelli dovevano essere i suoi ultimi attimi di lucidità ed i primi di follia vera. Forse era già morta nell'impatto con il suolo o forse no. Percepiva l'energia che aveva sempre sentito nell'ambiente davvero dentro al proprio corpo e l'andatura della sua corsa saliva ancora di velocità: un secondo appena e posò il piede ormai nudo direttamente sul picco ghiacciato. A quel punto, prese un gran respiro. Non era senza fiato ma voleva che la sua voce risuonasse per ogni dove e giungesse fino ai suoi orecchi: il nome di Haldir si librò potente in aria. Era quella la malia, il richiamo: poco dopo, il gigante in armatura bianca l'avvolgeva col suo mantello.
 
Haldir la fissò coi suoi occhi profondi, con quelle iridi azzurre che svelavano sempre ogni segreto. La prese per le spalle e le chiese se fosse sicura di volerlo fare, se fosse conscia del prezzo pattuito.
Seleina disse ancora di sì, si incise i polsi e la neve accolse il suo sangue. Presto, le sue gote rosate impallidirono ancora e le palpebre calarono sui suoi occhi, così simili a quelli di Haldir. La ragazza, per gli altri, bramava la protezione dal male che stava per arrivare, per sé, solamente un po' di pace.
 
 
Haldir l'aveva protetta nel suo abbraccio molto prima che la neve reclamasse la sua tenera figura. Nel suo modo particolare, lui aveva davvero a cuore quella ragazzina: Seleina era nata per sbaglio in quella dinastia ed avrebbe dovuto mutare quasi completamente per vivere una vita degna, una vita normale. Era sbocciato da subito un legame speciale fra loro: erano fratello e sorella, maestro e allieva, padre e figlia. Avrebbe fatto ogni cosa in suo potere per aiutarla. Di solito i Dunedain erano restii a mostrarsi agli uomini ma con lei non era mai stato così. I Perduti stavano per svegliarsi. Molti fra gli umani sarebbero periti. Le difese di Asgard erano sguarnite e, probabilmente, non sarebbero mai state all'altezza di difendere la terra. La folle soluzione che avevano accprdato era di riportare i Dodici Cavalieri d'oro, il gioiello delle truppe ateniesi, nuovamente alla vita.
Riuscire, avrebbe anche significato superare quegli dei odiosi che si proclamavano onnipotenti e con cui i Dunedain avevano da secoli un conto in sospeso. Voleva dire ricucire la famiglia, riabilitare quel fratello senza nerbo che da troppo se ne stava a crogiolarsi per dolore ed inedia.
Il piano era ambizioso: almeno quindici persone sarebbero tornate alla vita. Loro erano Dunedain ma non erano divinità. La loro magia bramava sangue ed avevano avuto quello di Seleina. Ora, bisognava solo metterci la vita.

 
****************
 
Da secoli Haldir non si mostrava mai fuori dai propri domini: più o meno da quando il suo gemello era stato reso schiavo. L'affronto bruciava tremendamente.
Solo il suo amore perduto avrebbe smosso il domatore delle anime dei morti dal suo torpore e, in quella parte di cimitero malmesso e consacrato alle sterpaglie, con unica testimone silente e lontana la luna, Haldir si apprestava a compiere una magia che mai aveva tentato prima di allora.
Pronunciò le parole dell'incantesimo e, lentamente, lo spirito della fanciulla tanto cara al suo gemello apparve e prese forma. I capelli chiarissimi di Haldir saettavano in ogni direzione, vittime di quel vento glaciale ed indomabile che era l'essenza stessa sia di Asgard che sua. Il vento, da freddo, diventò caldo alito di vita. Haldir tese le dita artigliate e semiguantate dal metallo verso la fanciulla che restava immobile ai suoi piedi. Compiaciuto, il Dunedain ne sentiva il cuore battere, il sangue correre nelle vene. Esitante, Eli strinse le dita calde di quella creatura ed un gemito strozzato, di sorpresa più che di paura, sfuggì alle sue labbra esili e rosse.

“Alzati.”

La fanciulla boccheggiò. Credette che quella forse una strana forma di condanna: che senso aveva donarle un corpo se era ancora al cimitero?
Non abituato a ripetersi, Haldir si chinò appena e la sollevò per la vita.

“Sei libera.”

Ripeté confuso, posandole poi la mano sul ventre, soddisfatto di essere riuscito di restituire a quel mondo persino suo nipote.
Mentre prendeva finalmente consapevolezza che quella fosse davvero la libertà che aveva tanto desiderato ma mai osato sperare, Eli lo ringraziò e gli chiese dove fosse il suo amato.
Lei, infatti, era perfettamente conscia dell'essere che aveva davanti e somigliava a Imuen ma Imuen non era.

“Tu sei suo fratello gemello. Che ci fai qui?”

Haldir si privò dell'elmo e le si rivolse col suo viso calmo e senza espressione.

“Imuen è ancora prigioniero. Sai cosa gli è successo dopo la tua dipartita?”

Triste, la ragazza annuì.

“Tu eri la sua ragione di vita. Non sono mai riuscito a convincerlo a liberarsi della condizione odiosa in cui lo tengono, senza di te. Con te, però, tutto potrà essere diverso.”

La giovane lo fissò intimorita coi suoi grandi occhi color miele. Poi, ripensò al fatto che Imuen si fidava ciecamente lui.

“Come posso aiutarlo?”

Haldir non tradì espressione ma il suo cuore esultò. Le poggiò la mano sulla spalla e gli artigli la avvolsero fino all'avambraccio. In pochi attimi la trasportò lontano.
Le aveva ordinato di restare nascosta tra gli scogli. Nei rari attimi in cui Imuen era solo, gli piaceva assistere allo spettacolo di quel mare in tempesta, in una lingua di terra talmente aspra, selvaggia e sporca che gli dei se l'erano dimenticata proprio per quant'era inospitale.

“Che vuoi ancora?”

Come al solito, il comitato di benvenuto non era stato dei migliori per il gigante bianco.

“Voglio che ritorni in te. Ho bisogno di te. I perduti si stanno svegliando. Non posso e non voglio più occuparmene da solo.”

I capelli rossi di Imuen si gonfiavano impazziti. Recalcitravano, come la sua anima.

“Che gli esseri umani si fottano. Il loro benessere non è più un mio problema.”

Haldir sbuffò. Girò il viso verso gli scogli.

“Neppure per questo odore che si mescola nel vento?”

Annoiato, il gemello minore aguzzò l'olfatto. Per una frazione di secondo credette di essere impazzito. Poi si alzò di scatto e corse verso la fonte di quel profumo.
Non fu in grado di emettere un suono. Semplicemente pianse mentre l'abbracciava con forza.

“Tu sei libera.”

Ripeté due o tre volte, imbambolato.

“Tornerò a combattere.”

Lo promise con la mano sul ventre della sua donna, su quelle due vite rinate insieme alla sua, in una sera di tempesta.

 
****************
 
La lama brillava ed era sporca. Imuen girò il taglio della falce verso la luna e ghignò incontrando il proprio riflesso. Si sentiva di nuovo vivo. Non distingueva il rosso dei suoi capelli da quello del sangue dei suoi nemici. Rise. La sua voce si alzò fino a divenire un urlo. Rideva, rinato e folle, verso quel morto vivente che era stato a lungo: per quanto era rimasto lo spettro di se stesso? Voleva gridare alla notte.
Come fosse un infante che emette il suo primo vagito, ringhiò ancora. Euforico, pazzo, con l'anima che ritornava piano piano a far pompare davvero il cuore nel petto. Solo dopo parecchi secondi riuscì a calmarsi. Serrò le iridi verdi dietro lo schermo delle palpebre e prese ad avanzare in mezzo al groviglio di budella opalescenti con cui aveva macchiato il terreno ai propri piedi. Sollevò il trofeo di guerra e incrociò lo sguardo vitreo e assente di quell'ultima testa mozzata.

 
Con disprezzo, la gettò, poi, nella polvere. Si girò e raggiunse quell'immenso obelisco. Sembrava la scultura deforme di un titano impazzito. Haldir gli aveva spiegato che conteneva le anime dei passati difensori della dea della giustizia. Gli aveva chiesto di aiutarlo a liberarli. Gli sembrava sciocco disperdere tante energie per degli umani, ma la sua ricompensa lo ripagava enormemente. Puntò gli occhi su uno di loro, l'unico che conoscesse, tra quelli che emergevano dalla roccia. Gli venne da ridere, al pensiero che tutti i cavalieri avrebbero potuto essere oscuri come Cancer. Allora si, che sarebbe stata possibile un'alleanza tra le loro razze. Srotolò la pergamena con la formula da recitare. Si concentrò sul ritmo della propria voce. Camminando in circolo, non si curava delle ossa che scricchiolavano sotto i suoi calzari metallici. In seguito, li avrebbe ripuliti da tutti quegli umori putrescenti con disprezzo. Riaprì le palpebre, prima di poggiare il palmo aperto sulla pietra grezza. La pergamena che svolazzava finì incenerita dai bagliori sinistri del suo cosmo arcano. Quando le sue unghie si conficcarono nell'obelisco, una raggiera di minuscole crepe si dipartì da esse.
Il guerriero poté sentire il tormento delle anime intrappolate dentro ed istintivamente ringhiò. Era lo stesso a cui gli olimpici obbligavano lui e la sua razza. Lo sdegno, in lui, si propagò come una morsa allo stomaco. Quando le sue mani tornarono inerti, lungo i fianchi, le aperture in quella colonna di morte si allontanarono rapidissime, come le schegge in cui si sgretola il cristallo che impatta sul terreno. Immobile per alcuni secondi, Imuen restò ad assistere all'esito della sua opera. La linfa che usciva dalle fessure soffiava come se fosse vento. Una luce azzurra filtrava attraverso di esse e sarebbe presto esplosa. Solo a quel punto il demone si decise ad infilarsi l'elmo. Gridò al cielo e la sua voce era completamente ferina.
Sulla terra, solo un'altra volta era stato udito quell'urlo. Come allora, gli dei avevano tremato. Quelli perduti reclamavano la loro la libertà offesa. Le teste dei primi immortali erano rotolate via. Non era un problema farne saltare ancora. La falce di Imuen bramava il loro sangue come il naufrago sogna la terraferma. Cinque semidei di cui non importava il nome e un dio di basso lignaggio erano stati fatti fuori nel brevissimo arco di un istante, da uno solo. Zeus avrebbe dovuto inviare avversari migliori in seguito o, meglio, muoversi lui di persona. Se avesse osato tanto, però, non si sarebbe misurato con lui solamente. Lui e Haldir erano insieme. Cosa significava, gli immortali lo avrebbero scoperto a loro spese, sicuramente.
 
 

 
   
 
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