Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance
Segui la storia  |       
Autore: Virgyl Item    25/10/2015    4 recensioni
Gerard Way ha sedici anni, qualche problema di troppo, e una disarmante voglia di vivere.
Le sue giornate passano velocemente, alternandosi fra lezioni private, sedute psicologiche ed inutili litigi con i genitori.
Ma quando inizierà a frequentare la Redflame, rinomata scuola superiore di New York, Gerard dovrà vedersela con un nuovo mondo, e con una diversa realtà.
Un insolito incontro con un ragazzo renderà la sua vita una scoperta ai confini dell’esistenza, una lotta fra razionalità e sentimento, un’ incredibile avventura che vedrà come protagonista l’indistruttibile forza dell’amicizia e dell’amore.
E soltanto allora, i colori riusciranno a vincere.
 
“Ognuno di noi è costretto a seguire una strada che non gli appartiene pienamente.
Niente di nuovo, niente di spettacolare.
Le solite, immutabili, fredde e cupe strade di Novembre.
Tutti camminano qua sopra.
Ma nessuno si chiede mai il perché.
Siamo cosí abituati a seguire la nostra via, che ci dimentichiamo di chi siamo realmente.
Il mio nome è Gerard Way, e sono un ragazzo indaco.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

  •  

     

                              Streets

                                 Of

                            November

                                 ***

    Canzone: Everybody hurts, REM.

     

    Capitolo nono.

     

     

    Ci dividiamo lentamente, con gli occhi ancora chiusi ed i visi arrossati.

    La mia mano si allontana dal suo collo, tornando a posarsi sul materasso su cui siamo seduti.

    Riusciamo a guardarci soltanto dopo profondi respiri e timidi movimenti.

    Le sue iridi chiare mi fissano sorprese, e le labbra lucide sembrano essersi perennemente serrate.

    Deglutisco sonoramente, per poi abbassare lo sguardo e socchiudere nuovamente le palpebre.

    Passano dolorosissimi minuti di sofferente silenzio, accompagnati dall'aria invernale che entra danzante dalla finestra.

    E non so cosa fare.

    E non so cosa dire.

    Dovrei scappare?

    Dovrei parlare?

    Oppure far finta di nulla? 

    Far finta che tutto ciò non sia accaduto.

    Far finta che non mi sia piaciuto.

     

    È Frank, il primo ad aprire bocca.

    «Scusa», mormora, con la voce impastata dall'emozione e dalla paura.

    Scuoto la testa.

    «Scusami, Gerard» ripete, con più enfasi.

    Continuo a negare.

    Stavolta non controbatte.

    «Forse dovrei preparare i bagagli», afferma poi, dopo essersi alzato dal letto.

    Alzo appena gli occhi, incontrando i suoi, che cristallini mi osservano dall'alto.

     

    Vuoi che se ne vada?

    Vuoi davvero che ti lasci qui, da solo?

    Dopo tutto ciò che è successo?

     

    «D'accordo», dico.

    Il ragazzo annuisce, e velocemente ammonta tutta la sua roba nella valigia che io ho portato qui il giorno in cui è arrivato.

    Lentamente mi avvicino a Lui, aiutandolo.

    I momenti che seguono sono silenziosi, tesi ed imbarazzati.

    Ogni tanto capita che la mia mano sfiori la sua, o che il suo gomito vada a toccare il mio fianco.

    E con resistenza ignoriamo tutto, ogni piccolo gesto che sembra volerci far avvicinare ancora.

    Quando i bagagli sono pronti, seguo Frank fino al piano di sotto, scendendo le scale a piccoli passi e non dando troppo nell'occhio.

    Mia nonna ci lancia un paio di sguardi sospettosi, mentre mia mamma finisce di sparecchiare la tavola ancora parzialmente imbandita.

     

    «Domani mattina Frank partirà per New York», esordisco.

    Elena stavolta sembra ignorarmi, mentre mamma cessa improvvisamente di sistemare le stoviglie.

    «Così presto?», domanda, con aria quasi dispiaciuta.

    Frank annuisce, improvvisando un timido sorriso che immediatamente si trasforma in una smorfia tesa e forzata.

    «Problemi in famiglia, Frank?», indaga mia madre, tornando ad impilare i piatti rimasti.

    «Oh, no. Si tratta di me. Della scuola. Devo assolutamente iniziare a studiare il programma dei mesi che ho perso mentre non-uhm-c'ero», spiega impacciato Lui.

    «Capisco. Gee, hai mostrato al tuo amico il parco dei Petali Neri? Dovrebbe davvero visitarlo prima di andarsene», dice poi la donna, rivolgendosi a me.

    Sposto il mio sguardo verso destra, incrociando quello del ragazzo.

    Lui ricambia, ma dopo pochi secondi è già nuovamente fisso sulla punta delle sue scarpe scure.

    Il parco dei petali neri è il luogo più interessante del posto, senonché l'unico parco nel giro di chilometri.

    Ci sono alcune panchine, c'è una quercia centenaria e c'è un enorme roseto che fa da cornice al prato cupo e arido.

    Il sole batte debole sulle piante selvatiche che nascono ai piedi dei pochi alberi ormai spogli, e molto spesso due opposte correnti d'aria s'incontrano allo sbocco verso il fiume parallelo al piazzale centrale.

    Ed è così maledettamente inquietante, e strano, e affascinante.

    E quindi meraviglioso.

    Così meraviglioso.

     

    «Più tardi lo porterò lì», acconsento, prendendo da solo la decisione.

    Ma che m'importa, oramai non c'è più niente da temere.

    Frank se ne andrà, e tutto tornerà come prima.

    Ogni cosa diventerà normale ogni situazione sarà affrontata nel modo giusto, ogni parola sarà detta senza alcun pelo sulla lingua.

    Tutto come prima.

     

    «No. Andiamoci adesso.», esclama poi Frank, facendomi sussultare.

    Entrambe le sue mani sono strette in due pugni, e lasciate cadere lungo i fianchi rigidi.

    Boccheggio per qualche secondo, poi lancio un'occhiata a mia madre, che con inconsapevolezza annuisce ed esclama:

    «Perché no?».

    Deglutisco sonoramente.

    «Adesso?», domando.

    «Sì», rispondono all'unisono loro.

    Alzo le spalle, lasciando che il mio potere di decisione diventi neutrale.

    «Come volete», dico.

    «Vi consiglio di uscire adesso, prima che il cielo diventi subito buio», ci invita mamma.

    «Cercate di non fare tardi, qui si cena presto», ci avvisa con fermezza la nonna, sbucando da non so quale punto della stanza.

    E noto qualcosa di strano nel suo sguardo.

    Faccio un cenno con la testa, per poi afferrare il giubbotto ed uscire di casa, seguito da un Frank serio ed incupito.

     

    Camminiamo i primi metri senza dire niente.

    Senza parlare, né ridere, né discutere.

    I nostri sguardi non s'incrociano, le nostre mani non si sfiorano.

    Ogni tanto siamo costretti a metterci da parte sul marciapiede per consentire il passaggio di qualche persona o della macchina di turno, ma pur sempre mantenendo le giuste distanze.

    Il viale che stiamo percorrendo è largo e ventoso, e sembra non voler finire mai.

    Oppure siamo noi che non vogliamo che finisca.

    Oppure siamo noi che non sappiamo cos'è che realmente vogliamo.

    Gli alberi ai nostri lati sono secchi e grigiastri, e slanciati verso il cielo ci guardano dall'alto con fare dominante.

    Le nuvole ricoprono gran parte della soffusa luce sopra le nostre teste, rendendo questo Dicembre un mese tanto vario quanto triste.

    Il contatto delle nostre scarpe sull'asfalto rovinato e sulle poche foglie ormai morte genera un susseguirsi di suoni e rumori che danno vita ad una melodia sporca, frastagliata e a tratti fastidiosa.

    Un po' come il rumore della pioggia, o della grandine.

    Inizialmente rilassa.

    Poi tartassa.

    Ed infine porta alla disperazione.

     

    Arriviamo all'ingresso del parco trascinandoci dietro lo stesso silenzio di quando abbiamo lasciato casa di mia nonna.

    Entriamo calpestando il terreno secco e dimenticato, avvicinandoci ad una panchina scura e rovinata dal tempo.

    Intorno a noi ci sono giusto un paio di malinconici anziani, che con sguardo perso fissano il nulla, in attesa che il passato ritorni, e che il futuro riesca a mantenerlo intatto.

    Ci sediamo senza dire niente.

    Senza guardarci e senza muoverci.

    Il parco è esattamente come la mia memoria lo raffigurava.

    Buio.

    Triste.

    E sofferente.

    Ricordo appena di quando mi ci portava mia nonna, ed io contavo le foglie mentre lei e la signora White chiacchieravano in un angolo.

    E mi ricordo anche che la signora White mi intimoriva e al tempo stesso affascinava, ogni volta che mi guardava e tendeva le labbra in quel suo strano sorriso magicamente perfetto.

    Mi ricordo di quando riflettevo su questo posto tanto ambiguo.

    Di tutte le domande che mi ponevo, e di tutte le cose che non capivo.

    Come se questo parco fosse la mia casa degli spiriti.

    Come se il roseto che lo circondava spingesse perennemente verso l'interno con le sue spine affilate, provocando dolorose urla mute.

    Gli alberi hanno smesso anni fa di vivere, e di far cadere le loro foglie al suolo.

    Ma gli alberi anche se morti ci sono ancora, così come le rose secche e le panchine arrugginite e gonfie di lacrime.

    Questo è il parco in cui il tempo non esiste.

    In cui il tempo sembra essersi fermato.

    Questo è il parco in cui tutti soffrono, nessuno escluso.

    Questo è il parco dei petali neri, che tappezzano costantemente ogni piccolo spazio nudo sotto i nostri piedi.

     

    «Perché si chiama così?», chiede Frank ad un tratto.

    Mi volto, scoprendo che i suoi occhi sono ancora fissi di fronte a Lui.

    Ritorno anche io a guardare ciò che mi si presenta davanti, concentrandomi su un particolare cespuglio spinoso.

    «Per il roseto. Per il roseto nero. Dicono che anni fa questo posto fosse circondato da centinaia di rose nere», spiego.

    Il ragazzo resta impassibile.

    Decido di continuare a parlare:

    «Ogni petalo nero caduto da ciascuna di queste rose rappresenta il dolore di una persona».

    Stavolta riesco ad attirare la sua attenzione.

    Mi schiarisco la voce, poi proseguo:

    «Ed ogni dolore caduto insieme ad un petalo resta bloccato in questo posto per sempre».

    Rivolgo nuovamente lo sguardo a Frank.

    Lui deglutisce.

    «È per questo motivo che qui dentro il tempo non passerà mai. È stato già fermato troppe volte», aggiungo.

    Frank allora sembra allarmarsi improvvisamente, rivolgendomi uno sguardo impaurito.

    «È già stato fermato da troppi dolori», constata, gli occhi fermi su un punto indefinito.

    Annuisco.

    «Hai mai lasciato cadere un dolore qui dentro?», domanda poi.

    Alzo le spalle.

    «Venivo qui quando ero più piccolo, e non so se quando si è bambini i dolori esistano realmente», rispondo.

    Lui annuisce con la testa.

    «Oh sì che esistono, puoi contarci», ridacchia nervosamente.

    Sospiro.

    «Se lo dici tu», concludo, infilando entrambe le mani nelle tasche del giubbotto.

    Sento il vento scompigliarmi i capelli, e il freddo provocarmi migliaia di brividi lungo tutto il corpo.

    Il vento.

    Il vento è un po' come un immortale saggio anziano che sorveglia tutti con i suoi racconti magici e non troppo spesso silenziosi.

    Eppure viviamo in un mondo in cui raccontare è sempre più difficile.

    Io per esempio non ho mai raccontato di me a nessuno.

    E raccontare non vuol dire parlare del tipo di musica che si ascolta o dei titoli dei libri che più ci sono piaciuti.

    Quello è soltanto sussurrare.

    Sottili ed insignificanti sussurri.

     

    Raccontare è tutt'altra roba.

    Quando si racconta si è se stessi.

    Si parla nel modo che si preferisce, si usano parole insensate e si arriva a toccare le stelle con discorsi illogici e confusi.

    Raccontare è aprirsi, sventrarsi violentemente facendo uscire il nostro tutto e il nostro niente.

    Perché io non mi accontento dell'esterno, non mi accontento della mediocrità.

    Io racconto per vivere e per poi morire.

    Per nascondere e scoprire, scoprire e riscoprire.

     

    Non tutto è raccontabile come non tutto è vivibile.

     

    «Era un bacio?», mormora ad un tratto Frank.

    «Quale?».

    «Il nostro».

    Abbasso lo sguardo.

    Non rispondo.

    Lui non avrebbe mai risposto a questa domanda.

    Quindi faccio lo stesso, e me ne sto zitto.

    «Ho bisogno che tu mi risponda, Gerard», insiste però il ragazzo.

    Continuo ad ignorarlo, mordendomi violentemente il labbro inferiore.

    Lui sbuffa rumorosamente.

    «Gerard, cristo. Sono stanco di tutto questo silenzio», esclama.

    Deglutisco.

    Frank scuote la testa, innervosito, per poi alzarsi dalla panchina e piazzarsi davanti a me.

    Continuo a fissare il prato.

    Non guardarlo, Gerard.

    «Dannazione! Sarebbe il caso di parlarne, una volta per tutte!», esordisce con un tono di voce sempre più alto.

    Resisti, Gerard.

    Il ragazzo non ha intenzione di mollare.

    «Non sono gay, okay? E questo tuo atteggiamento mi fa innervosire, okay?», strilla, inciampando nelle sue stesse parole, e catturando l'attenzione dei soliti anziani seduti intorno a noi.

    Socchiudo le palpebre, cercando di scaricare tutta la tensione accumulata.

    Ma non ci riesco.

    E non ci riesco perché la tensione non è finita.

    E non è finita perché in realtà niente è finito.

    Niente.

     

    «Gerard», mi chiama Frank.

    Lo ignoro ancora.

    «Gerard, ascoltami», insiste.

    Ed io insisto con l'ignorarlo.

    «Ho bisogno del tuo aiuto, Gerard», mormora, con la voce che inizia a tremare.

    Deglutisco.

    Sento i miei e i suoi affanni farsi pesanti.

    Soprattutto i suoi.

    «Gerard», ripete.

    Non parlare, Gerard.

    Lui prende un grande respiro.

    Poi allarga le braccia.

    E poi respira di nuovo, e respira ancora una volta.

    Infine lo vedo scuotere la testa:

    «Fai che questo giorno non venga dimenticato come tutti gli altri», inizia.

    «Fai che oggi qui dentro non sia lasciato cadere nessuno dei nostri dolori, Gerard», conclude.

    E non c'è più niente da cui scappare.

    Non c'è più niente di cui dubitare.

    Non c'è più motivo di resistere.

    Se questo è ciò che vuole, questo è ciò che sarà.

    Sollevo finalmente lo sguardo, incontrando il suo.

    E mi alzo, lentamente, lasciando che i nostri corpi si avvicinino.

    Frank ha ancora le braccia aperte, e l'espressione di chi non sa.

    Di chi non sa niente.

    Ed è la stessa espressione che si cela dietro il mio viso rigido e pallido.

    Mi inumidisco le labbra con la lingua, prima di sfilare le mani dalle tasche.

    “Gerard...”, mormora Frank.

    Ma le mie dita precedono le sue parole e vanno ad afferrarlo da dietro al collo, attirandolo velocemente a me, e facendo incontrare, di nuovo, le nostre labbra.

     

    Ciò che ne segue è esattamente l’opposto di ciò che ne è preceduto.

    Il vento sembra placarsi, e intorno a noi non c’è alcun rumore.

    Gli anziani signori che poco fa ci fissavano straniti, adesso sono tornati a contemplare il roseto.

    Ci sono gli alberi morti, ci sono le panchine rovinate, ci siamo io e Frank che ci stiamo baciando.

    Ci stiamo baciando e ci stiamo avventurando l’uno nel profondo dell’altro.

    E se le nostre labbra inesperte non riescono a rendere la situazione abbastanza perfetta, a noi non importa.

    Perché in fin dei conti la perfezione è soltanto una conseguenza di tutta l’imperfezione che compone questa nostra vita così breve.

     

    Quando l’aria inizia a mancare ci separiamo, e con clemenza ritorniamo a sederci sulla panchina.

    Guardo il roseto morto e scuro che tutt’intorno ci spia con invidia.

    Invidioso del nostro essere vivi.

    Invidioso del nostro essere noi.

     

    Senza farci troppi assurdi complessi, ritorniamo a sederci, ignari di tutto il male che stiamo e ci stiamo causando.

     

     

     

     

    «Gerard».

    «Dimmi».

    Frank esita qualche istante, prima di continuare a parlare.

    E anche io lo faccio, prima di ricominciare a respirare.

    «Dovremmo smetterla?», domanda.

    Adesso, cosa risponderebbe una persona consapevole? 

    Consapevole del fatto che il ragazzo che ha appena parlato sappia benissimo cosa è appena successo.

    Consapevole della gravità della situazione.

    Consapevole del mancato senso di tutto ciò.

    Probabilmente, tutto sarebbe più semplice se soltanto io accettassi la mia consapevolezza.

     

    Ma la consapevolezza di essere consapevoli non è niente su cui poter sempre fare affidamento.

    Ed io non sono bravo con queste cose.

     

    Quindi, decido di interpretare il ruolo dell'ingenuo sognatore sedicenne con problemi mentali, e con notevole inespressività mi limito ad un:

    “Che importa”.

     

    Lasciamo il parco dopo non molto, zampettando sopra il tappeto di foglie secche e scricchiolanti, provocando il solito piacevole rumore ad ogni passo.

    Il cielo sembra essersi quasi del tutto scoperto, e man mano che avanziamo verso casa di mia nonna con i nasi rivolti all'insù, io mi chiedo se il cielo si sia davvero schiarito oppure è soltanto dentro il parco che sembra più scuro.

    Lascio le risposte ad un momento più opportuno, e seguo - sì, seguo - Frank fino alla meta.

     

    Lui apre la porta velocemente, e con altrettanta velocità corre in camera sua, lasciandosi cadere sul letto con un rumore sordo che riesco a sentire dal piano di sotto.

    Mamma sta guardando una qualche trasmissione indiscutibilmente interessante alla TV, Michael sta usando il Pc nella stanza accanto.

    Mia nonna probabilmente si sarà già scordata della nostra presenza, e posso verificarlo non appena la sorprendo nella sua stanza nel bel mezzo di un riposino, con la bocca spalancata e il petto che si sgonfia ad intermittenza lasciando uscire quel tipo di imbarazzanti suoni che soltanto gli anziani sono in grado di emettere.

    Scuoto la testa con disappunto, poi entro in cucina e bevo qualche sorso di quella roba che somiglia alla Coca Cola, ma che si chiama Pepsi. Vuoi che sia il colore, vuoi che sia il materiale della bottiglia. 

    Ma a me sembrano esattamente uguali.

     

    Il pomeriggio passa nello stesso modo in cui passerebbero tutti i pomeriggi in questa casa, niente eccezioni per le feste come questa.

    Il silenzio è rotto giusto da qualche telefonata casuale da persone che non si fanno sentire durante tutto l’anno, che manifestano così la loro ipocrisia in tutta la sua prosperità e magnificenza.

    Poi è il turno di mio padre, che mi chiama per chiedermi se ho trovato una ragazza, e per sentirsi rispondere allo stesso modo di sempre.

    Infine tocca a Michael, che passa ore a lamentarsi di quanto il Jersey sia noioso e di quanto gli manchino i suoi amici di New York.

    Per non parlare di mamma, alterata ed arrabbiata con sua madre per non averle regalato il vaso in porcellana che le aveva chiesto lo scorso Natale.

    E così via.

    Frank, invece, preferisce starsene da solo, come me.

    Più o meno.

    Abbiamo evitato di passare altro tempo insieme, ma è inevitabile: ci cerchiamo a vicenda.

    Ovunque ed in qualunque momento.

    Ci incontriamo più volte nel corridoio del piano di sopra, e i nostri sguardi puntualmente si agganciano inarrestabilmente.

    Lui decide di giocare alla play Station insieme a Michael, io decido di chiudermi nella mia stanza e disegnare.

    E disegno Lui, soltanto Lui.

    Disegno i suoi occhi, e i suoi capelli, ed ogni cosa che mi ricordo del suo corpo e del suo viso.

    E dannazione, vorrei poter non averlo mai incontrato.

    Ma al tempo stesso sì, cazzo!

    E vorrei averlo osservato di più, vorrei non aver dimenticato nessun particolare.

    Vorrei che la figura che sta prendendo forma sul mio foglio diventasse Lui, e vorrei tenera stretta a me finché non ci incontreremo di nuovo, là fuori, nel corridoio.

    E mi sento così stupido.

    Così confuso.

    Così fottutamente ridicolo.

     

     

    Scendo in salotto trascinandomi dietro la solita bottiglia di Pepsi, quando ad un tratto Frank mi sfreccia davanti ed entra fulmineo in bagno.

    Capisco che non sta bene perché non ha avuto l'accortezza di chiudere la porta e neanche quella di limitare il suono dei suoi conati mentre rigettava violentemente il pranzo di Natale nel WC.

    Lo seguo a passo lento, scoprendo di essere seguito da mio fratello.

    Non c'è più alcun rumore, e tutto sembra essere tornato alla normalità.

    «Sarà morto?», sussurra Michael.

    «Torna al tuo computer», gli ordino.

    «E se fosse morto?», insiste.

    «Vorrà dire che presto qualcuno andrà a fargli compagnia nell'altro mondo», esordisco con sarcasmo, alludendo a mio fratello, che capisce che sto scherzando poiché a) non uccido persone e b) non credo in un “altro mondo”.

    Dopo qualche secondo di esitazione, Mikey si arrende, e si accascia sulla sedia di fronte al suo Pc.

    Bene.

    Mi avvicino ancora al bagno, in attesa di un qualche segnale da parte di Frank.

    «Frank?», lo chiamo.

    «Cosa c'è?», domanda Lui, come se la situazione fosse la più normale delle situazioni normali.

    «Dico, stai bene?», esclamo.

    «Hm hm hm», farfuglia il ragazzo, ed io lo prendo come un cenno di assenso e di contemporanea negazione.

    Poi uno scatto metallico, ed ecco che l'ospite esce dal bagno, strofinandosi sulla bocca il polsino della felpa che indossa.

    Lo guardo accigliato, e Lui sembra innervosirsi.

    «Ho vomitato», mi informa, quasi fosse una confessione.

    «Uh, ma davvero?», dico io, con il sarcasmo che sembra uscire a fiotti dal movimento delle mie mani a mezz'aria.

    Frank fa roteare gli occhi, mentre con violenza mi passa avanti, e ritorna sulle scale che lo portano in camera sua.

    Ma con uno scatto felino lo seguo, e in pochi secondi ho il suo polso stretto fra le mie dita.

    «Cosa cazzo hai?», esclamo riluttante.

    «Lasciami stare», ringhia.

    Sbuffo, avviandomi verso la mia stanza, senza allentare la presa sul suo braccio, e quindi trascinandomelo dietro.

    Lo faccio entrare nella camera, chiudendomi rumorosamente la porta alle spalle.

    Il ragazzo si siede sul letto, con le braccia incrociate sul petto.

    Il cuore va un po' veloce, e le gambe tremano vistosamente.

    Neanche io so dove abbia trovato il coraggio di portarlo qui.

     

    «Frank», esclamo con fermezza.

    Lui si limita a guardarmi, dal basso, con i suoi occhi grandi e luminosi.

    E ho quasi la tentazione di rimandare ad un altro momento il discorso che sto per fargli, e di stringerlo fra le mie braccia fino a domattina, inalando il suo odore e assorbendo il suo tepore.

    Di passare la notte al suo fianco, di rassicurarlo nel sonno, e...

     

    Accidenti, Gerard. Lui non ti piace. Non può piacerti. 

     

    Scuoto la testa, con disgusto.

    «Frank - ripeto - io... Io forse sono la causa di tutto questo», riprendo fiato.

    Il ragazzo rimane fermo, impassibile.

    Stavolta inizia a tremare anche una mano, e poi l'altra, e poi tutto il resto, finché non arriva il freddo.

    Ed è un freddo violento, che si scaglia con forza contro di me, destabilizzandomi.

    Strizzo più volte le palpebre, cercando di assumere un aspetto quasi tranquillo.

    Sto per ricominciare a parlare, sto per affrontare finalmente la situazione.

    Ma Frank mi precede, alzandosi, e posizionandosi di fronte a me.

    Da questa posizione posso facilmente provare che sì, Frank è più basso di me e che no, non è esattamente tranquillo.

    Quasi meno tranquillo di me.

     

    «Gerard, smettila...», inizia, con un mormorio.

    Lo guardo confuso.

    Lui scuote lentamente la testa.

    «Smettila di cercare di aiutarmi», conclude, mordendosi violentemente il labbro inferiore.

    Deglutisco sonoramente, boccheggiando per qualche istante in cerca delle parole adatte.

    Ma accidenti, parole adatte non ce ne sono.

     

    «Sembra una fottuta montagna russa», dice poi.

    «Io sono il passeggero, tu sei il carretto», poi indica ciò che ha intorno, esclamando:

    «E questa è la nostra cazzo di pista! Alti e bassi che soltanto tu puoi aiutarmi a superare».

    Inizio a non riuscire più a seguire il filo del discorso, e mi ritrovo a massaggiarmi le tempie con una mano.

    «E se tu sei il mio carretto, allora sei anche la mia paura, il mio soffrire di vertigini, e la mia nausea, Cristo!», urla infine, respirando affannosamente.

    Abbasso lo sguardo, lasciando cadere il braccio lungo il fianco.

    Ha ragione.

    La verità è questa.

    Devo smetterla di aiutarlo.

    Devo ritornare ad essere il vecchio Gerard egoista di sempre.

     

    Decido di annuire, in silenzio, con un cenno della testa.

    Poi, con il cuore che raggela nel petto, mi allontano, uscendo dalla stanza.

     

    «Domattina partirò presto, non ci sarà il tempo di salutarci», mi avvisa qualche istante prima che io apra la porta.

    Allora mi fermo, mi volto, e gli sorrido.

    Ed il mio è un sorriso triste, probabilmente.

    «Ciao, Frank», mormoro, prima di abbandonare definitivamente la camera da letto.

     

    ***

     

    Il piacevole sottofondo musicale del tamburellare della pioggia sul lucernario sopra la mia testa rende il mio sonno tranquillo, sereno, pulito.

    Tutto il resto non sembra avere peso su di me, sul mio corpo leggero e magicamente irreale.

    Irreale come i sogni che si uniscono e si intrecciano dentro la mia testa, che suonano e si colorano di assurdo, esplodendo in milioni di ardenti e perenni fuochi.

    Irreale come l'azzurro acceso del cielo, che ci illude con la sua insensata allegria.

    Irreale come bene ed irreale come il male, insignificanti parole che le persone hanno inventato per giustificare gli errori, e per giustificare la diversità.

    Ed infine, irreale come me, e come Lui, e come i nostri baci.

     

    Un improvviso e potente colpo di vento fa spalancare le persiane della finestra, ed io sussulto nel mio letto.

    Respiro affannosamente, strizzando le palpebre per mettere a fuoco ciò che mi circonda nel buio della stanza.

    Mi sollevo velocemente, e corro a chiudere le persiane, imprecando contro il pavimento freddo sotto i miei piedi.

    Ne approfitto per sbirciare dal vetro della finestra, soltanto per poter guardare come si comporta la notte di fronte ad un pericolo come il vento.

    Le punte degli alberi sono inclinate, il prato che fino ad oggi brillava lucente sotto il debole sole invernale adesso sembra essersi unito all'asfalto della strada, creando un vastissimo piano scuro.

    Ho mentito, oggi, quando ho pensato che il vento fosse un anziano saggio.

    Accidenti, ho paura del vento.

    Ho paura del suo verso, ho paura dei suoi movimenti, e ho paura della sua inaffidabilità.

    O meglio, non da sempre.

    Tutto è iniziato da quella notte, quella fottutissima notte in cui il vento esplose nel Jersey, portandosi via i fiori del giardino, e con i fiori l'armonia, e con l'armonia mio nonno, che respirava per l'ultima volta nello stesso ospedale in cui io ho iniziato le mie prime sedute. 

    E se da piccolo il vento era la mia saggia ancora di salvezza, adesso è soltanto la grande onda che spezza la prua e fa affondare la nave.

     

    Sospiro rumorosamente, accostando meglio le tende, e voltandomi per ritornare a dormire.

    Ma la porta della camera si spalanca, facendo entrare una sagoma scura e sottile, che con uno scatto mi si getta contro, destabilizzandomi.

     

    «Gerard, ho paura», sussurra Frank al mio orecchio, senza allentare la presa delle sue braccia sul mio corpo.

    Dopo qualche istante di esitazione ricambio la stretta, e con confusione bisbiglio:

    «Di cosa?».

    «Di tutto», risponde.

    «Del vento?», insisto, col solito tono di voce.

    «Di me stesso», sibila Lui.

    Probabilmente sgrano gli occhi, o magari li chiudo particolarmente forte.

    Fatto sta che il ragazzo non cede, e l'abbraccio - o quel che è - si intensifica.

     

    Quando Frank si separa da me sono passati molti minuti, e la sorpresa è grande quando sento le sue labbra poggiarsi sulle mie.

    Non so cosa stia succedendo.

    Non so perché ciò che io non so cosa sia stia succedendo.

    Non ho la più pallida idea del perché di questa stramaledetta situazione.

    Ma c'è Frank che mi sta baciando, e ci sono io che sto facendo la stessa cosa con Lui.

    Merda.

    Il bacio dura poco, tutto dura molto poco.

    Frank mi spinge indietro, e si allontana di qualche passo.

    Scuote la testa, arriva indietreggiando fino alla porta da cui è entrato, e si blocca per qualche secondo.

    «Aiutami a cercare il me stesso che ho perso», tartaglia bisbigliando, mentre l'oscurità torna a coprirci.

    Poi, scompare definitivamente nel corridoio.

    Ed il vento, sembra essersi calmato.

     

    ***

     

    25 dicembre- Natale.

     

    Quando ti ho detto che ti avevo comprato un regalo, non scherzavo.

    Il regalo te l'ho comprato, l'ho anche incartato.

    Ma non significava un cazzo.

    Quindi ho deciso di fare la cosa forse più stupida di sempre.

    Ho cercato i pantaloni che indossavo quel fottuto giorno, ho frugato in una tasca, poi nell'altra, e infine l'ho trovata.

    Eccola qui, tutta per te.

    Ecco l'arma che ti ha ucciso, ecco la causa di tutto.

    È la chiave del bagno.

    Quello in cui mi ero chiuso.

    Perché volevo morire, volevo ingoiare una ad una tutte le pasticche che avevo trovato in giro.

    Volevo chiudere gli occhi e poter essere fiero di aver fatto una cosa giusta.

    Volevo soltanto fare un'esperienza che non avrei avuto modo di raccontare.

    Solamente per dimostrare che alcune esperienze non hanno bisogno di essere raccontate.

    Ma quando pensavo che questa chiave fosse la mia unica salvezza, è arrivato l'unico stronzo che avrebbe potuto salvarmi.

     

    Ti chiedo di gettarla nel più profondo degli abissi.

     

    Auguri,

    Frank.

     

    Ripiego velocemente la lettera, infilandomela nello zaino che porto sulle spalle, e afferro la busta che la conteneva.

    Eccola qui, argentea e splendente.

    La sollevo lentamente, bloccandola fra l'indice e il pollice.

    E non ci posso credere.

    Non posso credere di averla fra le mani.

    Di averla adesso, fra le mani.

    Ora che non serve, ora che è diventata una banale e comune chiave.

    Frank l'ha lasciata qui qualche mattina fa, quando se n'è andato.

    Aveva detto che sarebbe partito presto, e che non ci saremmo potuti salutare.

    Ma io l'ho visto lo stesso.

    Mi sono svegliato con Lui, in silenzio.

    E l'ho guardato uscire di casa, lasciare la busta sotto la porta, e poi girarsi indietro un'ultima volta, prima di entrare nell'enorme Jeep di Cheech e partire verso New York.

    Sì sarà rivolto al padre con un sorriso, gli avrà detto che ha passato delle buone vacanze in mia compagnia, e insieme si saranno avviati verso casa.

    Sarà sceso dall'auto trascinandosi dietro la valigia che non risentiva più dello struggente peso della chiave che mi ha lasciato, e avrà salutato Linda con un abbraccio.

    Sarà andato nella sua stanza, avrà disfatto i bagagli e infine aperto la finestra.

    Si sarà disteso sul letto e avrà pensato:

    “Questa è casa mia. Questa è la mia stanza. E questo sono io. Adesso iniziamo a vivere.”.

     

     

    Seguo Michael e gli altri cercando di restare in equilibrio, mentre con forza trattengo il trolley con una mano e lo zaino con la spalla destra.

    «Cercate di non fare incidenti», ci raccomanda la nonna, con il suo solito tono tragicamente incoraggiante.

    Mamma ridacchia, ed io cammino in fretta per entrare velocemente nell'auto.

    Ma una mano di nonna Elena mi blocca, obbligandomi a voltarmi verso di lei.

    Sbuffo, ritrovandomi i suoi occhi chiari che mi fissano rigidi.

    «Tu credi in Dio, Gerard?», domanda.

    Sollevo un sopracciglio.

    «Io sì, e posso dirti che ti sta guardando, da lassù», prosegue, senza aspettare la mia risposta.

    Deglutisco.

    Ci guardiamo per qualche secondo.

    Lei non trasmette alcuna emozione, e sembra arrabbiata.

    Io non so cosa trasmetto, e ho paura di saperlo.

    Ma quando mia nonna assume questa espressione, allora a) hai combinato qualcosa di grave e lei ti punirà oppure b) hai combinato qualcosa di estremamente grave e lei ha intenzione di organizzarti un personale percorso spirituale presso l'Oratorio della Chiesa.

     

    Ad un tratto, però, Elena fa roteare gli occhi, rilassando i muscoli facciali e facendo scivolare sui fianchi entrambe le braccia, fino ad ora conserte.

    Mi afferra nuovamente il polso, e mi trascina dietro il muro della facciata di casa sua.

    «Ascoltami bene, figliolo - inizia - qualunque cosa tu e quel ragazzino depresso abbiate intenzione di fare, allora cercate di riflettere bene e di non prendere tutto ciò come una cosa da niente, intesi?», conclude, con fermezza.

    Spalanco leggermente la bocca, provando a controbattere, ma...

    «Niente ma. Puoi mentire a tuo fratello, a tua mamma e anche a quell'allocco di tuo padre. Ma nessuno è in grado di ingannare Elena. Intesi?», mi rimprovera.

    Deglutisco sonoramente.

    Ingannare, mentire, cosa?

    Che sta succedendo?

    Poi improvvisamente capisco.

    Lei.

    Me.

    Frank.

    Frank ed io.

    Insieme.

    Il mio cuore pare sussultare.

    Una mano di mia nonna va ad accarezzarmi una guancia.

    «Cerca soltanto di stare attento, Gerard», mi intima, cambiando radicalmente il suo tono di voce.

    Sto per dire qualcosa.

    Sì, lo sto per fare.

    Ma ad un tratto capisco che parlare non serve.

    Non con Elena davanti.

    È lei che parla.

    Ed è lei che sa.

    Così, mi limito ad annuire, con un movimento del capo.

     

    In un attimo, mi ritrovo dentro la macchina di mia madre, appollaiato in un angolino dei sedili posteriori, con le cuffie nelle orecchie e la mano fuori dal finestrino, che con lenti movimenti, sembra navigare dolcemente fra le onde del freddo vento di Gennaio.

     

     

    ***

    Salve.

    Probabilmente sarà passato qualche lustro dall’ultimo aggiornamento.

    E questo capitolo è probabilmente uno dei peggiori.

    Come se non bastasse, è più corto degli altri, e particolarmente insensato.

    E inoltre, non è neanche stato betato perché l’ho finito di scrivere poco fa e avevo fretta di pubblicarlo.

    Abbiate clemenza e sopportate i miei tempi.

    Non ho potuto scrivere molto poiché

  • Ho dovuto fare gli esami di riparazione
  • È un periodo abbastanza orribile, e
  • Non ho mai ispirazione perché sono quasi sempre sola (e le persone mi fanno venire ispirazione, solitamente).
  •  

    Per il resto, ho scoperto di essermi completamente dimenticata di Wattpad e anche di un profilo Twitter di non so di quanti mesi fa. Quindi, per chi mi seguisse anche lì, chiedo di avere un po’ di pazienza :’)

     

    Virgyl,

     

    Ps. Cosa ne pensate del regalo di Frank?

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance / Vai alla pagina dell'autore: Virgyl Item