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Autore: Zury Watson    26/10/2015    3 recensioni
Mycroft Holmes, si reca al 221B di Baker Street per incontrare Sherlock e il buon dottore con l'intenzione di rivelare qualcosa che potrebbe sconvolgere suo fratello. Ritenendo che sia arrivato il momento per lui di conoscere la verità e sapendo che non sarà semplice spiegare, decide di portare con sé questo qualcosa.
«You know what happened to the other one» - Mycroft Holmes (3x03 - His Last Vow).
Aggiornamenti sospesi fino a terminata revisione dei capitoli online
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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The Other One


H. W. H.

La giovane Holmes si svegliò molto presto, non fece colazione, non salutò Mycroft e uscì nei panni di se stessa.
Arrivò al 221B di Baker Street a bordo dei suoi rollerblade scuri, un mezzo di trasporto meno comodo di un taxi, ma più funzionale nel traffico di città e sicuramente più divertente del banale e comune jogging. Con un gesto sicuro azionò il meccanismo delle rotelle a scomparsa, potendo così salire senza alcuna difficoltà gli scalini antistanti il portone d'ingresso dal batacchio perennemente storto salvo intervento di Mycroft.
Si imbatté subito in Mrs Hudson e si fermò con piacere a salutarla. Quella donna le piaceva.
«Buongiorno cara», fece lei gentilmente. «Hai già fatto colazione? Ho appena sfornato dei deliziosi cookies... Una ricetta molto speciale!». Qualcosa nel tono di voce ricco di entusiasmo suggerì alla giovane donna che tra gli ingredienti di quei biscotti ci fosse qualcosa di non propriamente legale, qualcosa di speciale appunto. Del resto chi se non un tipo come la signora Hudson sarebbe stata disposta ad ospitare uno come suo fratello Sherlock?
«Magari più tardi», rispose con cortesia ed un sorriso. La ringraziò e fece per salire, ma la voce della padrona di casa richiamò nuovamente la sua attenzione.
«Sei qui per Sherlock? Oh, lui non è...».
Prima che potesse terminare la frase, la gemella Holmes intervenne.

«Proverò lo stesso ad aspettarlo di sopra», mormorò e si diresse decisa al piano superiore.
«Ti conservo una manciata di quei biscotti!», esclamò allegra.

John Watson uscì dalla sua camera da letto sbadigliando rumorosamente e si diresse in cucina grattandosi distrattamente la testa. Non si rese subito conto che il té era stato preparato e tenuto in caldo nell'apposita teiera, pronto per essere servito, ma quando mise a fuoco la strana realtà dei fatti - strana perché il suo coinquilino non era davvero il tipo che si esibiva in simili cortesie a meno che non avesse qualcosa da farsi perdonare o da chiedere in favore - si voltò istintivamente verso le due poltrone, sistemate come al solito l'una di fronte all'altra con la propria che dava le spalle alla cucina. Fu allora che incappò nel secondo fatto strano della giornata per lui appena cominciata: una testa ricciuta occupava proprio la sua poltrona. C'era, però, qualcosa di sbagliato in quella scena, qualcosa che aveva a che fare con le proporzioni, qualcosa che John non era in grado di determinare correttamente di prima mattina, con i neuroni ancora mezzi tramortiti e senza aver assunto almeno una dose di caffeina.
«Sherlock...?», domandò istintivamente.
«Ben svegliato, John», fece lei alzandosi.
Un inebetito John Watson la guardò per un minuto buono prima di riuscire a rimettere definitivamente in moto il cervello. L'aveva riconosciuta subito, naturalmente, solo non si aspettava di trovarsela in casa dal momento che, fino a prova contraria, la gemella di Sherlock abitava con Mycroft.
«Accidenti... sei tu. Buongiorno...», le rispose infine in evidente imbarazzo, lasciando la frase in sospeso.
«Hortensia. Serviti pure, non è molto che ho tolto il té dal fuoco», disse in tono neutro come neutra era l'espressione sul suo viso.
«Che... Come hai detto?».
«La colazione. Hai un evidente bisogno di zuccheri», rispose con naturalezza, fingendo di non aver notato lo stupore negli occhi del medico.
«No... Intendevo... Hortensia?», e la indicò nel tentativo di fare la corretta associazione mentale per quanto gli sembrasse assurdo che dalla sera alla mattina la gemella di Sherlock piombasse in Baker Street e si confidasse con lui senza un apparente motivo. Ed ecco che John ebbe l'illuminazione: gli Holmes non facevano mai nulla senza un reale motivo, che non sempre era un buon motivo.
«Hortensia Holmes. È il mio nome».
E intendeva dire "quello vero". Non l'aveva espresso ad alta voce, ma John sentiva che era così. D'altra parte anni trascorsi accanto a Sherlock dovevano pur avergli insegnato qualcosa su quella stramba specie forse-umana-oppure-forse-no catalogabile sotto il nome Holmes.
John Watson era sveglio da pochi minuti e si era visto coinvolto in ben tre stramberie holmesiane: la giornata non prometteva niente di buono.



Hortensia approfittò di un momento di distrazione di Irene per portarsi un fazzoletto alla bocca e vaporizzare il narcotico che teneva in borsa per qualunque evenienza. La Donna le rivolse uno sguardo sconvolto - come di chi è stato tradito dalla persona più improbabile - prima di cadere, profondamente addormentata, sull'ampio letto matrimoniale. La Holmes era certa che la Donna non le avrebbe tenuto il muso troppo a lungo per quel tiro mancino: lei stessa aveva tentato di giocargliene diversi nel corso della loro inusuale frequentazione.
In passato, Hortensia aveva perfino assecondato i giochi di Irene posando completamente nuda per lei senza mai esserlo veramente, - non si sarebbe privata delle lenti a contatto marroni per niente al mondo - lasciandosi fotografare per un personalissimo calendario sexy che la donna aveva appeso in bella mostra nella stanza da letto della sua abitazione dell'epoca, la stessa in cui avevano messo piede Sherlock e John la prima volta che l'avevano incontrata. Quel giorno, però, la missione della gemella di Sherlock aveva faccende più importanti da sbrigare.
Setacciò a fondo la stanza della Adler fino a trovare il misterioso biglietto scritto, ne era certa, da suo fratello al fine di ottenere informazioni su di lei. Fu in quel preciso istante che elaborò il piano di vendetta nei suoi confronti.
Prima di andarsene si colorò le labbra con il rossetto di Irene, le lasciò un "Ti bacio... Un'altra volta" sull'enorme specchio che usava per truccarsi e infine le stampò sulla guancia la perfetta riproduzione, in tonalità rubino, della propria bocca.


La giovane Holmes si rigirò tra le dita un biglietto piuttosto sgualcito - segno che il precedente proprietario doveva averlo letto e riletto diverse volte portandolo, con ogni probabilità, sempre con sé - prima di posarlo delicatamente sul basso tavolinetto tra le due poltrone.
«Sherlock sarà molto felice di conoscere il mio nome», mormorò lasciando spazio ad un mucchio di sottintesi.
John pensò che la ragazza avesse ragione dato che tutto ciò che la riguardava era diventato per Sherlock una malsana ossessione che lo spingeva ad immergersi in lunghe riflessioni silenziose alternate a picchi d'ira e frustrazione, digitazione frenetica di messaggi indirizzati a solo Dio sa chi e cerotti alla nicotina. Quindi il dottore pensò che forse sarebbe stato consono invitare Hortensia a fermarsi e provare a intrattenere una conversazione con lei fino al ritorno di Sherlock il quale, era ormai evidente, non si trovava in quell'appartamento da prima che la donna vi arrivasse. Per un momento John si sentì nuovamente in preda all'impaccio perché lei era stata in casa mentre lui dormiva e, sebbene Hortensia non avesse bisogno di un invito e sembrasse a proprio agio in quell'appartamento, gli parve che la situazione avesse un che di imbarazzante. Infine decise che sentirsi continuamente fuori luogo quando aveva a che fare con un Holmes che non fosse Sherlock non gli rendeva giustizia, perciò dirottò i propri pensieri indietro alla questione principale, ovvero la rivelazione da parte di Hortensia del proprio nome. A quel punto si accorse di aver già formulato un'ipotesi in merito e si diede dello sciocco per essersi lasciato distrarre; si ripeté che non poteva affatto essere un caso se la gemella aveva parlato in sua presenza chiamando poi in causa Sherlock: se voleva metterlo a conoscenza del proprio nome perché non l'aveva detto direttamente a lui?
Watson comprese e le sue
labbra formarono una O. Sembrava un bambino che assisteva allo spettacolo di un illusionista o un adulto cui veniva svelata una verità sconvolgente.
«Io non... No», balbettò sollevando entrambe le mani dinanzi a sé volendo estraniarsi completamente dalla questione.
Lei sorrise e lui ebbe un sussulto impercettibile.
«Certo che lo farai. E ti assicurerai anche che nessuno che non sia lui tocchi questo biglietto, te compreso». Detto ciò lo oltrepassò, recuperò quella che certamente era la sua tazza, la riempì e tornò indietro per porgergliela gentilmente in un'innegabile offerta di pace.
«Non puoi usarmi come un burattino per le tue faccende in sospeso con lui». Era più semplice replicare degnamente se quell'affascinante donna non si trovava a qualche centimetro da lui. «Grazie», aggiunse accettando di buon grado la tazza fumante. Preferì non domandarsi come avesse fatto a indovinare proprio quella che usava ogni mattina, tra le altre.
Improvvisamente determinato, l'ex soldato John Watson si mise sulla difensiva e guardò Hortensia dritto negli occhi.
Pessima mossa.
Lei si fece più vicina e quegli occhi quasi color ghiaccio, così familiari, così irresistibili e fin troppo simili a quelli di Sherlock, confusero John rendendolo più vulnerabile che mai.
Hortensia sapeva quel che faceva e non intendeva esattamente sfruttare John o prendersi gioco di lui che chiaramente era il miglior amico di suo fratello, anche se lei - e non era la sola - era convinta che fosse un rapporto molto più complesso di un'amicizia profonda il loro.
Trovarsi ad un soffio dalla bocca della versione femminile di Sherlock non era di alcun aiuto a John mentre tentava di non perdere completamente il controllo della situazione. Del resto si era abituato ad aspettarsi di tutto dagli Holmes, - era davvero necessario ricordare a se stesso di quando Sherlock aveva iniziato una relazione con Janine soltanto per arrivare a Magnussen? O ancora di quando aveva sparato a quest'ultimo rischiando di essere mandato lontano da Londra e dall'Inghilterra? O di quando aveva inscenato la sua morte? - anche se questa consapevolezza non gli era utile a capire cosa esattamente aspettarsi di volta in volta. Per quel che ne sapeva, Hortensia avrebbe potuto piantargli un coltello nel fianco, addormentarlo, andarsene senza alcuna spiegazione, baciarlo... "Baciarmi? John, concentrati!", si riprese mentalmente. La scomoda e inopportuna domanda che sorse spontanea da chissà dove fu: "Stai pensando davvero a lei?". John scosse il capo per scacciare quel pensieri e Hortensia interpretò il gesto come un ulteriore diniego alla sua non-richiesta.
«Il biglietto. Non dimenticartene», gli sussurrò all'orecchio prima di dirigersi verso la porta. «Mrs Hudson ha preparato dei biscotti», aggiunse uscendo.
Con un delizioso fagotto colmo di speciali cookies tra le mani, Hortensia decise di raddrizzare il batacchio soltanto per indispettire suo fratello e, sorridendo soddisfatta, si dileguò.

Quando Sherlock Holmes rientrò in Baker Street rivolse una smorfia al batacchio raddrizzato e, come faceva tutte le volte, lo spostò a suo piacimento.
Se uno psicologo decidesse, in un momento di pura follia, di mettersi a studiare quello che passerebbe certamente alla storia come "lo strano caso dei fratelli Holmes", finirebbe lui stesso in cura da uno psichiatra e alla fine entrambi, dopo accuratissime analisi, notti insonni e crolli nervosi, sceglierebbero in comune accordo di mollare tutto e trascorrere il resto della vita seduti ad un bar a bere e rimorchiare. In fin dei conti, però, a pensarci bene, la soluzione al rompicapo è davvero semplice.
Tutti i dispetti e il continuo punzecchiarsi altro non erano che la testimonianza di un sentimento che entrambi si ostinavano a negare, ma che sapevano di provare l'uno per l'altro.
Si volevano bene.
Che poi avessero un modo originale, a tratti forse anche piuttosto infantile, di dimostrarselo era un altro paio di maniche e, a dirla tutta, non c'è neanche da stupirsi considerato che stiamo parlando degli Holmes. E in effetti Hortensia, pur non avendo avuto alcun contatto diretto con la sua famiglia d'origine si portava comunque dietro un bagaglio genetico che la rendeva molto simile ai suoi fratelli dal punto di vista comportamentale.
Probabilmente il nostro psicologo di poco prima concluderebbe che gli Holmes non sono così come appaiono a causa di chissà quali traumi infantili o adolescenziali, - oppure qualora ne abbiano subìti, questi incidono soltanto in parte sulla loro riluttanza a frequentare altre persone - ma manifestano una spiccata sociopatia per cause da ricercarsi quasi eslcusivamente nell'eredità genetica ricevuta e, più in particolare, nelle evidenti doti intellettive che, essendo decisamente sopra la media, fanno dei fratelli Holmes degli esclusi a priori in quanto diversi dal resto della popolazione sulla base di un campione di coetanei e forse anche un po' più inquietanti di un qualsiasi soggetto problematico.
Dopo aver stilato una simile diagnosi sulla cartella di riferimento, si presume che lo psicologo abbia allentato la cravatta, si sia buttato la giacca sulla spalla, abbia lasciato il proprio studio e si sia recato dal suo amico psichiatra.
Fortunatamente John Watson era piuttosto resistente dal punto di vista psicologico.
Passeggiava lentamente attorno alle due poltrone, quasi fosse sul serio a guardia del biglietto, con ancora la tazza ormai vuota tra le mani, suo unico appiglio alla realtà che lo circondava. I suoi pensieri, infatti, erano molto lontani da quell'appartamento e somigliavano molto ad un campo di battaglia. Benché fossero trascorse circa due ore da quando Hortensia l'aveva lasciato solo con il piccolo foglio ripiegato di cui lui non conosceva neanche per sbaglio il contenuto, John Watson non era riuscito a stabilire quale fosse il modo migliore per informare Holmes di quanto era successo. Non si era neanche ricordato di vestirsi, così quando Sherlock rientrò lo trovò in pigiama.
I due si guardarono per un attimo prima che il consulente investigativo sottoponesse l'intera stanza ad un'ispezione profonda in cerca di quel dettaglio che aveva evidentemente turbato l'amico. I suoi occhi chiari si fissarono sul tavolinetto tra le due poltrone. Sherlock si chinò sulle ginocchia e inspirò a pieni polmoni diverse volte prima parlare senza staccare lo sguardo dal cartoncino.
«È stata qui mentre io non c'ero», mormorò più a se stesso che a John prima di annusare nuovamente l'aria. «Si è seduta qui prima che tu ti svegliassi visto l'attuale stato in cui ti trovi. La vostra conversazione ha riguardato sicuramente me. È evidente che se non l'hai invitata a fermarsi è perché sei tu il custode di tutte le informazioni che devo avere».
Detto ciò
sollevò le iridi verso l'alto per cercare un contatto visivo con Watson.
Quest'ultimo si mise a riflettere su quanto la mania di Sherlock di radiografare qualsiasi ambiente e persona gli stesse tornando utile in quella situazione: non era stato necessario rivelargli alcunché della visita di Hortensia, almeno per ora, perciò - ritenendo che se la donna gli avesse raccomandato di far avere a Sherlock quel pezzo di carta doveva pur esserci una ragione - decise di tentare la fortuna.
«Sì. Hai ragione. Ho custodito per voi questo prezioso rettangolino e ora mi faccio una doccia», disse con ironia e un pizzico di timore, desiderando soltanto sparire dalla circolazione.
Non aveva neanche finito di dirlo che lo sguardo di Sherlock era già incollato sul misterioso contenuto.
John non riuscì a muovere un passo così come il volto del suo amico parve farsi d'un tratto di cera.
Il biglietto, oltre al vecchio messaggio scritto da Sherlock, recava un'aggiunta dal tratto bello e sottile.

H.W.H.
Chiedi al dottore.

«H.W.H.», scandì il consulente investigativo dopo mezzo minuto di totale silenzio. «Perché dovrebbe significare qualcosa per te?», chiese.
«Sherlock... Io proprio non ne ho idea», gli rispose John, confuso, facendo scattare in piedi l'amico.
«E allora perché c'è scritto di chiedere a te?», fece lui mostrandogli la bella grafia di sua sorella.
John sbiancò. Avrebbe dovuto aspettarselo da una come Hortensia.
Evidentemente era più scaltra di quanto sia lui che Sherlock pensavano se, pur non conoscendo da molto Watson, era stata in grado di non prendere sul serio in considerazione l'eventualità che lui avrebbe assecondato il suo gioco costringendo, però, contemporaneamente John a credere che lei contasse esclusivamente sulla sua partecipazione al piano. Invece si era affidata ad astuto giochetto psicologico che avrebbe presto mandato fuori di testa sia Sherlock che John, il quale infine avrebbe ceduto pur di sfuggire all'insistenza del primo.
Sherlock non si aspettava certo una risposta dal momento che la sua domanda era retorica, eppure l'irritazione fu palese. Si cacciò il biglietto nella tasca del cappotto e quasi si lanciò di peso sul divano in pelle, diede le spalle a John in un gesto decisamente infantile e mise il broncio.
«Tu sai il suo nome e non vuoi dirmelo», piagnucolò.
Sembrava un bambino.
John sospirò e si lasciò cadere sulla poltrona: la tortura era appena iniziata.





N.d.A.
Nel caso in cui qualcuno di voi si stesse interrogando su una possibile liaison Hortensia/John, la risposta è no. Non intendo commettere lo stesso "errore" (mi perdoneranno gli eventuali fan) commesso in Elementary. Se proprio una relazione Holmes/Watson deve essere esplicitata, che sia la Johnlock e nessun'altra.
Quindi perché ho creato questa sorta di tensione tra la Holmes e il dottore? Semplice. Lei è pur sempre la molto somigliante versione femminile di Sherlock e ha su John un effetto decisamente strano.
Ancora una volta ringrazio di cuore la mia amica Amalia, senza il cui supporto mi sentirei persa.
E naturalmente grazie a voi che siete arrivati fin qui, che abbiate o meno deciso di lasciare traccia del vostro passaggio.
Alla prossima!

   
 
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