Anime & Manga > Hakuouki
Ricorda la storia  |      
Autore: Gipsy Danger    06/11/2015    3 recensioni
C'è una ragazza che corre.
{Afterdark Extra - Chapter. Riders on the Storm}
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: AU, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Derail'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Derail. The Inbetween.
Extra chapter. Riders on the Storm


*

Maggio 2010.
Pennsylvania – Tokyo – New York


C'è una ragazza che corre.

Il sentiero di terra battuta scorre veloce sotto i suoi piedi, un nastro marrone punteggiato di sassolini e fili d'erba schiacciati. La striatura grigia dell'asfalto è una linea di gesso calpestato appena percettibile all'orizzonte.
Nessuna macchina passa mai da queste parti, ma la ragazza non può fare a meno di controllare, con le palpebre strette per schermarsi dal sole morente. Un'occhiata rapida, una debole fitta – forse dolore, forse sollievo – al petto, poi via di nuovo con gli occhi puntati davanti a sé.
Il sangue le pulsa nelle orecchie. La brezza di questo fine maggio si trasforma in un rombo. Non porta auricolari, la ragazza: li avrebbe trovati indispensabili, in un'altra vita, ma non ora.
Sa che la musica coprirebbe qualunque altro rumore. E lei vuole ascoltare tutto. Il mormorio del piccolo corso d'acqua che scorre di fianco alla strada, il frusciare del vento leggero tra le canne monche e secche, l'ultimo ciarlare degli uccelli prima che il tramonto si spenga, ma non solo.
Se tende l'orecchio, riesce quasi a sentire altro.
Sono suoni senza nomi, un linguaggio che non ha parole, come sono solo le sensazioni. Il sibilo dell'aria si trasforma in quello del bokken. La fitta al fianco si trasforma in resistenza e tensione. La sua fatica ha piccoli sprazzi di gioia – gioia di muoversi, di mettersi alla prova. Di vivere per il puro, semplice impeto dello scontro.

Quando queste scintille la toccano, la ragazza sorride appena e accelera.
Si mordicchia il labbro inferiore e il sorriso torna una smorfia concentrata, ma dentro di lei gli echi continuano a cantare.

Non ha bisogno di musica quando ha questo a rassicurarla, a dirle che va tutto bene, che può prendersi ancora cinque minuti.
Il tempo di superare anche l'ultimo campo e infilarsi, senza rallentare, attraverso la piccola macchia di cedri, querce e aceri ai confini della proprietà.
Ecco, è arrivata: il sentiero si allarga in una strada bianca di polvere e pietruzze. Ci è caduta un paio di volte e ha perso il conto di quante l'ha percorsa camminando, ormai le è familiare. L'abitudine la spinge nel centro del nuovo percorso. Gli alberi sono una chiazza confusa intorno a lei, ogni tronco una colonna.
Oggi, però, l'aspetta qualcosa di nuovo.
Le immagini si formano da sole nella sua mente. Niente percezioni, stavolta: un ricordo. La visione di una lunghissima salita lastricata di pietre nere sotto a una serie infinita di torii. Il profumo d'incenso e muschio, il suono di piccoli sandali di legno in corsa – una corsa molto più goffa della sua.
Il suono delle campane del tempio.
Le campane di Gion, la fugacità di ogni cosa.
La ragazza boccheggia e rallenta.

Questa è nuova, pensa. E all'improvviso c'è nuova urgenza nella sua corsa. Allunga il passo, aumenta l'andatura. Le colonne rosse spariscono: ora sono solo alberi, alberi che fuggono ai lati della sua visuale.
Con i muscoli che le bruciano e il respiro sempre più rapido, la ragazza corre e passa oltre.
Via, la macchia.
Via, il prato.
Via, il cancello arrugginito che si spalanca su un cortile dove il sole cade sbieco, morente.
Tre uomini si affrontano nel cortile. Due impugnano spade di legno lucidate, il loro avversario una lunga lancia sottile.
La loro zuffa è più seria di un gioco, meno letale di un duello all'ultimo sangue: mosse ripetute all'infinito, perché i corpi si riabituino ancora una volta a ciò che hanno imparato una vita fa. Di solito le fa piacere vederli allenarsi, la fa sentire sicura.
Non oggi.
“Souji!”
Uno dei tre alza la testa di scatto, deviando appena in tempo un colpo diretto al suo torace. Gli occhi verdi, vigili, sono puntati su di lei. I suoi avversari abbandonano il combattimento all'istante.
La ragazza li raggiunge quasi senza fiato, piegata in due per il male al fianco.
“Che c'è? Che succede?” chiede, brusco, l'uomo dai capelli neri. Il compagno – più alto, i ciuffi rossi come il pelo di volpe tirati indietro in una coda bassa – gli lancia un'occhiata e un mezzo sorriso.
“Un attimo, Hijikata – san, altrimenti scoppia.” commenta, ma nei suoi occhi c'è una punta di preoccupazione. La ragazza, ansimando, solleva lo sguardo sul giovane con gli occhi verdi.
“Ho sentito...”esala, in un soffio. “Ho sentito...qualcosa...”
Gli uomini si guardano, allarmati. Souji si avvicina alla ragazza, la sostiene prima che crolli a terra.
“Qualcosa...?” incalza. Lei si costringe a un respiro profondo, le mani sulle ginocchia. Per un attimo pensa che il petto le scoppierà.
“Non lo so con precisione,” continua. “Ma penso che fosse un indizio. Un messaggio.”
Una pausa.
“Dal Giappone.”
Le campane.
“Che cosa ti ha detto, Miki? Chi era?”
Miki si umetta le labbra secche. Poi, meccanicamente, una frase le esce di bocca.
Come se fosse sempre stata lì.
“L'orgoglioso non dura, è come un sogno in una notte d'estate. Il potente cade, polvere davanti al vento.”
Tunc, fa la lancia, cadendo dalle mani del suo proprietario. L'uomo è pallido – per un secondo vacilla come colpito da un pugno.
“Shinpachi.” mormora.
Hijikata socchiude le palpebre. Alla luce del tramonto, il viola delle iridi è quasi nero. Guarda Souji, in cerca di una conferma.
Il giovane ha gli occhi che brillano.
“Sta ricominciando.”

Miki, da parte sua, abbozza un sorriso tirato.
Oh my God, we're back again,” sillaba. Ride in faccia alla paura e guarda l'orizzonte aperto del New Jersey.
Dentro di lei, la Scintillanza vibra e le suggerisce che presto anche la pianura sarà un ricordo lontano.
Non può far altro che chiedersi se un mese passato a correre sarà sufficiente a non farsi ammazzare.


*


C'è una ragazza che corre.

Dieci passi e si ferma, ansimando, poi riprende. Il rumore del traffico che scorre di fianco a lei è quasi assordante, una cacofonia costante di macchine e motori. Niente clacson, non qui dove la cortesia è una regola che vale anche sulla strada.
A Londra si sarebbero già intasati, pensa la ragazza. Il suo naso si arriccia in una piccola smorfia e deve spingere di nuovo gli occhiali al loro posto. Non può permettersi di romperli: sono quelli che ha preso in prestito da Aiden. Tanto vale non tornare a casa, se li fa fuori.
Sempre che casa si possa definire.

Scatta di nuovo il verde. La ragazza passa la strada, il sacchetto che le sbatte sugli stinchi. Ogni tanto controlla che il suo contenuto sia ancora intero: sì, eccoli lì. Due o-bento preconfezionati, due lattine di birra Asahi, le bacchette usa e getta ancora intere nelle loro bustine bianche, due dorayaki.
Cibo per un esercito, si direbbe, e qualche passante – nonostante i giapponesi siano più che ferrati nell'arte del farsi gli affari propri – non riesce a non lanciare un'occhiata alla ragazza, chiedendosi come farà a demolire tutta quella roba. Dove la metterà, soprattutto: è poco più di uno scricciolo. Bassa, paffuta e occhialuta, i capelli biondi che le svolazzano sulla schiena come una nuvola.
Con la felpa Everlast scolorita che indossa e i jeans che le scivolano di continuo sui fianchi sembra appena sedicenne. E forse non è molto più vecchia.
La ragazza nota gli sguardi, e brontola sottovoce.
E pensare che dovrebbero essere uno dei popoli più riservati, diamine, cosa sono tutte quelle occhiate?
Non le piace essere osservata.
Se è per questo, non l'entusiasma neanche essere costretta a scorrazzare su e giù per il quartiere, ma il lavoro è lavoro: la pagano per sudare sette camicie, quindi non si lamenta.
Non ad alta voce.
Rosso, il semaforo dell'incrocio. La ragazza si ferma e riprende fiato, pulisce le lenti appannate sulla felpa. Cattura il proprio riflesso nella vetrina di un negozio di vestiti: incastrata tra un gruppetto di studentesse universitarie in divisa e un sarariman al cellulare, la sua faccia tonda è più rossa che mai.
Disgustosa, decreta. Si arrotola le maniche della felpa. E dire che, secondo il vecchio, il vero caldo deve ancora arrivare! L'afa è peggio di una coperta soffocante. Un piccolo rivolo di sudore le cola lungo la schiena, con un brivido. Lei rinuncia ad asciugarselo, conscia che se lo facesse finirebbe solo per lasciare uno stampo scuro sul viola della felpa.
Dai, semaforo, canterella tra sé, spostando il peso da una parte all'altra. Spera almeno che correre con questo maledetto caldo le tolga un chilo o due.

Verde. Le macchine si fermano, i pedoni si fanno avanti. La ragazza zigzaga tra di loro – è diventata brava a farsi largo senza urtare nessuno – approda sul marciapiedi opposto, va avanti ancora per dieci metri e poi gira in una laterale.
Tokyo è una città bizzarra. Grattacieli e palazzi di luci in un angolo, strade secondarie di case con il giardino e piccoli templi di uno o due monaci in un altro.
Sugamo fa parte della seconda categoria.
È come essere proiettati in un altro universo: sopra di lei incombe l'ombra del gigantesco palazzo a quasi dodici piani, ma la strada si stringe tra case dalle facciate bianche e marroni e pali della luce sovraccarichi.
Il rumore del traffico si spegne, lasciando spazio alla quiete: qui il tintinnio di pentole che vengono spostate dentro una casa, qui un'anziana che versa acqua sulla strada con un cestello di legno e un mestolo. Si ferma per lasciarla passare, e la ragazza si ferma per ringraziarla con un piccolo inchino formale e un sorriso – corrisposti entrambi – prima di ripartire, accompagnata solo dal rumore delle proprie scarpe sull'asfalto.
La cortesia, questa strana tradizione. Non ci ha ancora fatto l'abitudine, nonostante viva a Tokyo da quasi quattro mesi, ormai, Ma a Londra o ti fai strada a gomitate o ti devi rassegnare a essere lasciato indietro, ed è difficile perdere la diffidenza con cui si ha sempre convissuto.

Ecco, è quasi arrivata. Ancora una svolta a destra, e poi finalmente l'insegna incassata nel muro.
Shieikan Dojo, recitano i kanji sul legno. La porta di legno è spalancata, come al solito.
La ragazza entra, calcia via le scarpe da ginnastica e le lascia nel vano d'ingresso. Percorre a passo rapido il largo corridoio di legno.
Qualcuno ha lasciato la ventola accesa nell'ufficio: un soffio di aria fresca la investe mentre passa di fianco alla porta e la ragazza si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, fermandosi. Solo un secondo, si ripromette. Dopotutto, non ha nessuna intenzione di presentarsi davanti ai suoi datori di lavoro così stravolta. Anche se dubito che lo scemo noterebbe la differenza, commenta tra sé, assorta. È già tanto se sa che sono femmina.
In un dojo di soli uomini, è normale.
Suppongo.
Un rapido controllo al suo fardello – tutto ok? Non è esploso niente? Ottimo – e riparte, calma.

La sala principale del dojo è deserta. Gli alunni della mattina sono tornati a casa già da un'ora, lasciando i bokken impilati con ordine sulle rastrelliere della parete sinistra. Qualcuno ha pulito il pavimento, togliendo ogni traccia di polvere dai tatami. Alla ragazza sfugge un sospiro divertito davanti alla cura maniacale con cui è tenuta la palestra.
Certi uomini provano un amore incondizionato per la loro macchina. Sugimura Yoshie, allo stesso modo, è innamorato del proprio dojo. E lei dubita che, se si trovasse una ragazza, le porterebbe la stessa cura.
Ammesso che riesca a non farla scappare, a forza di parlare di kendo. Kendo, kendo, kendo. Tutto quello che esce dalla bocca del capopalestra ruota intorno alla spada.
“Thatcher!”
...o quasi.

Jodie sospira, raddrizza le spalle e indossa la sua migliore maschera stoica. Eccoci qui, si dice, avviandosi verso la porta sul retro. La fusuma fruscia, leggera, aprendosi su un piccolo porticato di legno e un giardino.
“Eccomi, eccomi!” replica, uscendo. Il legno è piacevolmente fresco sotto i suoi piedi – probabilmente questo è l'unico punto dove l'afa non riesca ad arrivare. “Sono qui, eccomi.”
“Bentornata,” la saluta uno dei due uomini. È alto abbastanza da dover stare tutto rannicchiato per sedere sulla panca del portico, e il suo naso è storto come quello di un pugile, ma il sorriso che le rivolge è gentile. “Hai trovato la strada senza difficoltà, spero.”
“Shimada, non farti intenerire, andiamo!” protesta il suo compagno. “Ormai è a Tokyo da abbastanza tempo. Sa benissimo dove deve andare.”
Jodie sbuffa, con una piccola smorfia. L'altro le rivolge un'occhiata imbronciata, incrociando le braccia.
“Sei in ritardo,” decreta, scrutandola con occhi azzurri e severi.
“Lo so.”
“Ah, lo sai. Stavo per mangiarmi il tuo bento, signorina LoSo, non ci vedo più dalla fame!”
“C'era coda al konbini,” taglia corto Jodie, porgendogli la busta. Si sporge per vedere oltre, indirizzando un sorriso all'altro. “Mi spiace per il ritardo, Shimada – san. I mochi dolci erano finiti, quindi ho dovuto ripiegare sui dorayaki, e non ero sicura quale fosse più gradevole.”
“Non fa nulla, tranquilla.” replica Shimada. La sua voce è un basso vibrante, ogni volta che pronuncia il suo nome sembra dire “Bocchan”. Al contrario, quella del proprietario è secca.
“Ehi! E io?”

Jodie lo guarda sbattendo le palpebre.
“Cosa? Che?”
Riceve uno sbuffo in cambio. “Lascia perdere, ragazzina. Continua pure a fare gli occhietti dolci a Shimada e lascia perdere.” brontola il giovane istruttore, arraffando la busta. “Oh, bene, la birra c'è.”
“Non avrai intenzione di cominciare a bere adesso, Chase – kun.” lo rimprovera bonariamente Shimada, accettando con un cenno il suo o-bento. Chase fa spallucce, rompendo l'incarto del dorayaki.
“Chi, io? Nah! E poi è solo birra. Non si può neanche parlare di bere.” replica, azzannando il dolcetto. Tempo due secondi e l'ha già demolito. I suoi occhi cercano Jodie e la sua bocca si apre-
“Ah- giusto.” ricorda lei, togliendosi un secondo dorayaki di tasca. “Oggi ne davano via gratis. Una promozione o qualcosa del genere. Ho pensato di prenderne qualcuno in più, visto che ti lamenti sempre che sono troppo piccoli.”
Glielo lancia. Chase arraffa il dolcetto al volo, guarda l'incarto, poi lei.
Sorpreso.

“...ah. Grazie.”
Jodie risponde un abbozzo d'inchino ironico, gira sui tacchi e va a prendere il suo pranzo dal frigorifero scalcagnato dell'ufficio. Quando torna fuori, Shimada e Chase stanno preparando la lezione del pomeriggio, facendo sparire con perizia il contenuto dei loro bento. Li lascia in pace, andando a sedersi contro una delle colonne del portico. Lascia le gambe penzoloni e si sistema il vassoio sulle ginocchia.

Niente bento per lei, solo semplici sandwich. E un thermos di té freddo, perché le abitudini sono dure a morire. Mentre scarta il primo e appallottola la stagnola, si dice sempre la stessa cosa.
Un altro giorno di questo lavoro e mollo tutto, lo giuro.
Sa che non è vero. Ha preso a lavorare al dojo solo da due mesi: non è stufa, non davvero. L'aiuta a prendere aria. A staccare un po' dalle ricerche che la tratterrebbero troppo tempo all'osservatorio, sotto l'egida dispotica del nonno.
Solo, qualche volta pensa che le piacerebbe qualcosa di più di quella routine. A volte le piacerebbe essere qualcos'altro, invece che solo la ragazza che corre quando il capo schiocca le dita.
Datti tempo, si ripete. Stacca un morso dal sandwich e tra sé sorride, chiedendosi se quella tranquillità apparente è la fine di un percorso o l'inizio di uno nuovo.

PSH- fa la birra, esplodendo in un tripudio di schiuma sulla maglietta di Chase.

“THATCHER!”

...ripensandoci, se non si dà una mossa, questa volta sarà sicuramente la fine del mondo.




*


C'è una ragazza che corre.

È il suo incubo e il suo sogno, e non le importa d'altro.
Veloce. Veloce. Ti troverà.
Il cielo di New York un'ora prima dell'alba è nero e viola come un livido, un ematoma. Le luci dei grattacieli in lontananza sono gemme false nello strato di patina grigia di nebbia smossa dall'afa. Non c'è sollievo dal caldo, nemmeno di notte. Non tra queste strade piccole e strette come un budello.
La ragazza incespica, perde l'equilibrio, si tira su. Ha la schiena madida di sudore freddo. I capelli s'incollano alla sua nuca, ciocche nere tagliate tutte alla stessa lunghezza che ondeggiano come corde ad ogni passo: ora a destra, ora a sinistra, e d'accapo.
Se li scosta dal viso e prosegue, saltando una pozzanghera d' olio e un tombino che esala vapori che sanno di piombo, di marcio. Le scarpe colpiscono l'asfalto senza tregua.
Nel silenzio tombale, etereo, ogni tonfo è un colpo di cannone per lei.
Gira nel prossimo vicolo e si ferma di scatto, il cuore che le martella nel petto come volesse scoppiare.
Un bivio.
No.
Si guarda intorno, la bocca aperta, inghiottendo aria. Destra, sinistra. Destra, sinistra. Dove vado? Dove vado? I suoi occhi scattano alle sue spalle, verso il rumore di passi che crede in avvicinamento, poi di nuovo in avanti.
E si chiudono.
Mi serve tempo. Mi serve tempo, ti prego, ti prego, ti prego, fa che funzioni-

Non sa da dove venga il potere. A volte è un torpore che le penetra sin nelle ossa, altre una corrente che la travolge e la trascina via con sé, lasciandola aperta e vulnerabile al mondo. Ogni tanto, dopo averlo usato, si stende e non riesce più a muoversi per molto, molto tempo, come se i suoi muscoli avessero dimenticato come si fa.  E più di rado, sente che non potrebbe fermarsi mai più.
Supplica il suo corpo traditore e la fonte nascosta dentro di lei perché non succeda. Non adesso.
Mi serve un ostacolo. Un muro andrebbe bene, ma non ha tempo di crearlo: basta un reticolato.
Lo immagina dietro di sé e l'asfalto si crepa all'istante, mentre bastoni di acciaio scivolano fuori grattando il cemento. Puntali di freccia neri si slanciano verso il cielo, fili di ferro prendono vita e s'intrecciano, strisciando gli uni sugli altri come serpenti. La ragazza immagina il luccichio dell'insegna neon semispenta sul metallo, l' odore di ruggine, la forma delle schegge di vernice.
Ha chiesto un ostacolo, e un ostacolo ottiene. Dal nulla, solo per lei. Per un istante ne è quasi meravigliata.
Poi, implacabili, arrivano le parole.

Il mondo non vede l'ora di lasciarsi plasmare da te. Di farti piacere. Di esserti utile.
Mi domando, Sayuri, quale sia la tua inclinazione verso di me.
Provi la sua stessa spinta?

La ragazza rabbrividisce. Si guarda intorno d'istinto, e la rete perde all'improvviso consistenza, come ammosciandosi. Lei geme.
“No, no, no, torna su, ritorna reale-” soffia. L'illusione, sorda, resta grigia e priva di vita. Gliel'ha sottratta lei, distraendosi. Ora è rovinata.
E lei non ha il tempo di rimetterla a posto.
Si gira verso il bivio. Destra, sinistra. Sinistra, decide, alla disperata. E riparte. Ogni sussulto è una lama che s'infila un po' di più nel suo fianco, devastandola. Fa male, ma lo ignora.
È diventata brava a sopportare in silenzio.

Avanti, avanti, ancora avanti. Supera un senzatetto che dorme tra i rifiuti, bidoni della spazzatura, cercando di non pensare che una volta era come lui. Un gatto nero la scruta con i suoi occhi luminosi e lei si scansa precipitosa, perché le ricordano troppo quelli del mostro che la insegue. Avanti, ancora. Altri vicoli da cui esce il gemito dei depuratori d'acqua e delle caldaie.
Non dovrebbe essere lì, dovrebbe essere da tutt'altra parte. Scappare verso la stazione, o  dirigersi verso il ponte di Brooklyn. Anche l'East River andrebbe bene, si butterebbe in acqua – forse se la caverebbe. Ma qui, nella fogna a cielo aperto che sono i bassifondi di New York, non troverà mai la strada per uscire dalla città.
Stupida lei, e maledizione all'istinto da squatter che l'ha spinta dove un tempo si sentiva sicura. Stupida lei-
L'ombra esce dal buio così all'improvviso da strapparle un grido strozzato. Alta, massiccia, scura – la falce di luna ne è oscurata, le luci del centro si spengono mentre allunga una mano verso di lei. La ragazza si scansa all'indietro, d'istinto.
NonoNO!
E cade in braccia aperte solo per lei.

“Ahi, chérie, ci fidiamo ancora troppo della vista.” mormora una voce al suo orecchio – una mano sale a sfiorarle una ciocca di capelli, quasi con dolcezza. Lei sbarra gli occhi, si scansa.
Era un'illusione. La consapevolezza è fredda come il qualcosa che si arrampica su per le sue gambe. Catene, pensa, lacci. E poi. SPEZZALI.
Si divincola con uno strattone, rompendo l'illusione di Bartholomé. L'altro Aludra la lascia andare. Una scintilla divertita gli danza negli occhi dalla sclera nera, un sorriso gioca sulle sue labbra – ma il volto è scavato e trasformato, una maschera del potere che gli vibra nel sangue.
“Te ne vai un'altra volta?” chiede, avanzando di un passo. “Pensi di farcela?”

Lei non gli risponde. Ha il panico alla gola, e non ha bisogno di sforzi stavolta. Il potere si torce dentro di lei e si scaglia sull'altro.
Il muro esplode dalla strada, ogni mattone rosso come se qualcuno vi avesse versato del sangue. Un metro, due metri, così – di slancio verso il cielo plumbeo. La ragazza vacilla, il fiato mozzo. Ha i polmoni pieni di polvere, di fil di ferro.
Le gambe le tremano. Le braccia le tremano.
No, geme, no, no, no-
Inutile. Conosce i sintomi – ce li ha addosso, la divorano mentre si affloscia. Prima le ginocchia: un tonfo sul cemento crepato, il riverbero che le percorre le ossa. Si morde la lingua per il contraccolpo. Poi le mani, subito dopo. I polsi le bruciano quando ricevono il suo intero peso. Un calore momentaneo.
Quindi c'è solo torpore. Torpore che le risale le dita, le avvolge i gomiti. Torpore che l'afferra per le spalle e la tira giù, a rannicchiarsi contro l'asfalto, il nero dello smog accumulato che le sporca la guancia.
Torpore. Nulla di più.
Dall'altra parte del muro, il suono dell'accendino. Il fumo della sigaretta è l'ultima cosa che le arriva al naso prima che la paralisi la strappi dal mondo.

Quando una seconda sagoma, molto più massiccia di quella del ningen, si posa su di lei, Sayuri non riesce nemmeno a sollevare la testa.
“Ne hai avuto abbastanza?”
Non c'è risposta. Non c'è mai – come si fa a parlare quando hai un pezzo di carne marcia al posto della lingua, Sayuri non lo sa. I suoi occhi, l'unica cosa che ancora si possa muovere, puntano il demone che incombe su di lei.
Amagiri sospira. La fievole luce di un'alba pallida e oppressa dall'afa getta riflessi biancastri sui suoi capelli. Forse è solo una sua impressione, ma le iridi che la scrutano sembrano quasi oro per il tempo di un respiro.
Quello successivo Sayuri capisce che il muro è crollato e lo sgomento le crolla addosso, frantumando anche la paura.
Ho perso. Di nuovo.
Amagiri si china. Sayuri serra gli occhi. Muori, ordina al proprio corpo, ma non può chiudersi fuori da sé stessa. Muori, ora muori, dai.
Niente.

È bloccata in quel grumo di muscoli indolenziti e immobili. E sente tutto: le mani dell'oni che le circondano la vita, lo strattone che la stacca da terra, lo spigolo duro della spalla di Amagiri contro il basso ventre.
Ha fatto il callo all'assenza di sforzo con cui il demone se la carica sulla schiena, al distacco con cui la maneggia. Ad Amagiri non importa nulla di dove la tocca, per lui trasportarla equivale a sollevare un gattino per la collottola. È il resto che non riesce a mandare giù: quel nodo allo stomaco, la certezza che nelle prossime ore si pentirà di non essere riuscita a scappare.
Lui.
“Lasciami andare.”
La sua voce è ridotta ad un soffio, ma Amagiri la sente lo stesso. Questo non significa che le risponda sempre.
“Non ce la faccio più. Lasciami andare.”
Oggi non è una di quelle rare occasioni. Sayuri lascia penzolare le braccia, inerti, le spalle che bruciano. Chiude gli occhi e li tiene chiusi. Non metterti a piangere. Non ci provare. Hai vent'anni per il cazzo.

Vent'anni o no, quando l'oni la posa a terra di nuovo va tutto in merda. Perché anche ad occhi chiusi, Sayuri vorrebbe sprofondare lì dove l'hanno lasciata: per terra. A un metro e mezzo da un paio di anfibi neri e immobili.
A un metro e mezzo dal suo cacciatore. Il suo mentore.
Per un lungo attimo c'è solo silenzio. Quel silenzio che le rinfaccia ogni cosa: di non essere stata abbastanza svelta, di non essere stata abbastanza furba. Di avere provato lo stesso, ma di non essersi sforzata abbastanza.
Lento, un passo alla volta, lo sente avvicinarsi e accovacciarsi di fianco a lei. Un ginocchio per terra, l'altro piegato – come se stesse osservando una bestiola fremente. Kyou non la tocca mai, quando la riprendono. Da quando l'ha tratta in salvo da quella stanza d'ospedale, prima che la eutanizzassero, il contatto fisico tra loro è un tabù. Forse gli fa schifo. O forse, l'oni è consapevole che è abbastanza furioso da rischiare di spezzarla in due al minimo tocco. Suo malgrado, il potere ha un debole guizzo dentro di lei e Sayuri si ritrova a desiderare quelle mani che la scansano accuratamente.

Non sono le sue mani che teme. Shiranui Kyou è in grado di farle male semplicemente esistendo.

Per ora, si limitano a impugnare la Glock. La canna fredda le sfiora la nuca, leggera come un bacio, cattiva come un morso. Il cane viene tirato indietro. Il dito si posa sul grilletto.
Sayuri spalanca gli occhi.

“Sei morta un'altra volta, ningen.”

Click.




.:Author's note:.

Una piccola specifica prima di imbastire discorsi, ché mi conosco e poi so che mi perdo in chiacchiere. No, questa pubblicazione non sta a segnalare la ripresa di Derail.
Se qualcuno di voi ci ha sperato me ne scuso, e se alla maggior parte non interessa una bega me ne rallegro, almeno non ho creato false aspettative u.u

Avevo detto che, di Derail, non avrei messo altro online - nulla che fosse a metà strada, almeno. Questo capitolo, in effetti, era pronto da un pezzo. Per qualche motivo, prima di abbandonarlo in una cartella e dimenticarmene, avevo cambiato il titolo, cosicché è passato praticamente in sordina alla revisione di qualche mese fa. Non l'ho riscoperto fino ad oggi, e paradossalmente si è rivelata la data migliore per rispolverarlo.
In between avrebbe dovuto essere un interludio tra Afterdark. Rebirth e Firebird. Renewal. Uno stacco per presentare la situazione dei personaggi vecchi e nuovi - tra i primi Miki e Bartholomé, che ricordo appartengono a Ellie_x3; tra i secondi, Jodie, che avrebbe dovuto comparire nel seguito. Un periodo sospeso, come lo hiatus protrattosi per due anni. Il filo di vento dopo la bonaccia.
E in effetti,  un anno fa, in questi giorni, avevo appena cominciato una  storia che sta vedendo la stesura dell'ultimo capitolo in questo periodo, e che mi ha aiutata a far pace con la scrittura, e con D.  Mi sembrava calzante, trovare un modo per festeggiare la fine della *mia* bonaccia.

Quindi...un buon non - compleanno a quella storia, e verso nuovi orizzonti (specificatamente, su AO3 <3 ).

Colgo ulteriore occasione per ringraziare le personcine che hanno lasciato un parere sui capitoli di Derail, peraltro, ancora una volta. Grazie, grazie, e grazie ancora. (L) Spero che questo snippet vi piaccia.

Kei


   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Hakuouki / Vai alla pagina dell'autore: Gipsy Danger