Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Lady Five    11/11/2015    5 recensioni
Per anni aveva dedicato ogni gesto, ogni pensiero, ogni respiro alla sua missione, sacrificandovi tutto, perdendo tanti compagni, senza mai voltarsi indietro, senza avere mai la tentazione di mollare tutto. Ma la missione era giunta al termine e lui doveva voltare pagina.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Irvin, Smith
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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(….)
Ed ho avuto compagni di strada, perduti a contare le stelle coi tempi scaduti, che dentro alla cenere trovano pace da sempre sognata.
(…..)
Ho camminato su lame taglienti, malgrado le corde strappate coi denti e le bende macchiate di sangue più rosso del vino bevuto.
Ed ho visto coprire di terra gli amici portando orgoglioso le mie cicatrici, giocando la vita a bruciare del tempo per niente perduto.
(…...)
E ora che sono più solo di prima, la barca nel porto legata alla cima è uno scheletro nero antracite che dondola lento sul mare.
E consegno i peccati ad un Dio sconosciuto che spero non sappia di come ho vissuto e conosca soltanto il dolore provato nel farmi lasciare, di quando, guardando quegli occhi per terra, ho portato persone alla guerra mettendole in viaggio.
(...)
Enrico Ruggeri, Il capitano (album “Frankenstein 2.0), 2014

 

 

 

Il sole stava tramontando dietro le dolci colline all'orizzonte, in un tripudio di nuvole rosa e violette. Quello era il momento della giornata che preferiva in assoluto, in qualunque stagione. Allora sospendeva qualsiasi attività e si metteva seduto sotto il portico, con una birra fresca, se era estate, o un tè bollente, se era inverno, e ammirava lo spettacolo, finché le tenebre lentamente non cominciavano ad avvolgere ogni cosa, ed era ora di prepararsi la cena.
Levi non era mai stato un sentimentale e non riusciva lui stesso a spiegarsi il perché di questa predilezione. Forse perché con il buio i Giganti non erano attivi?
Ma i Giganti non c'erano più da molto tempo, ormai. Dopo anni di lotte apparentemente senza senso, battaglie perse, sacrifici, e sangue, tanto giovane sangue versato, tanta carne innocente maciullata... ce l'avevano fatta. Avevano messo la parola fine a quell'incubo, per sempre. Il sogno visionario di Erwin, Hanji e dell'intero Corpo di Ricerca, tante volte disprezzato, deriso, o, nel migliore dei casi, incompreso, si era realizzato. Loro stessi, quando era accaduto, erano così increduli da non riuscire nemmeno a esultare insieme agli altri.
La gente era come impazzita. Si era riversata nelle strade, piangendo e ridendo al tempo stesso, abbracciandosi, gridando, ubriacandosi... Per l'umanità si apriva un meraviglioso avvenire, traboccante di speranza e di promesse. Li avevano perfino presi e portati in trionfo, acclamandoli come degli eroi. Prima, invece... Ma è così che va il mondo, aveva commentato Erwin. L'unica cosa che conta è il risultato.
Poi c'erano stati i festeggiamenti ufficiali, le parate, le commemorazioni e le medaglie... E lui aveva sopportato stoicamente anche questo, sapendo bene che il suo compito lì era finito e avrebbe dovuto inventarsi un'altra vita. Questo fatto un po' lo sgomentava... lui che non sembrava avere paura di nulla, era spaventato dal vuoto che gli si spalancava davanti. Per anni aveva dedicato ogni gesto, ogni pensiero, ogni respiro alla sua missione, sacrificandovi tutto, perdendo tanti compagni, senza mai voltarsi indietro, senza avere mai la tentazione di mollare tutto. Ma la missione era giunta al termine e lui doveva voltare pagina.
Spentasi finalmente l'eco dell'ultima celebrazione, aveva chiesto il congedo.
In realtà, Erwin e Hanji avevano cercato in tutti i modi di convincerlo a restare nel Corpo. I Giganti non c'erano più, ma restava ancora così tanto da fare... un intero mondo da ricostruire, un'umanità, smarrita e ormai incapace di vivere in una realtà senza mura, da guidare e aiutare... Ma lui sentiva che il suo posto non era più lì.
No, c'era stato un ultimo compito che aveva voluto svolgere, prima di andarsene per sempre: l'evacuazione del ghetto. Il mondo sotterraneo non aveva più senso di esistere, adesso, e lui si era battuto con le autorità perché i poveri disgraziati che languivano là sotto potessero uscire e vivere legalmente alla luce del sole. Quando l'ultimo di loro aveva lasciato la sua stamberga con i suoi miseri averi ed era entrato nel campo di raccolta predisposto per la prima accoglienza, allora aveva deciso che era davvero arrivato il momento di partire. Si era fatto giurare da Erwin che si sarebbe preoccupato personalmente che quella gente avesse una vita dignitosa, e sapeva che lui l'avrebbe fatto, poi una notte se n'era andato, con il suo cavallo e poco altro, unici legami con il suo passato. Come un ladro. Aveva detto troppo addii dentro di sé, da quando era nato, e sapeva che gli altri avrebbero capito.
Aveva anche deciso che cosa fare, adesso.
Voleva vedere il mondo. Voleva scoprire che cosa ci fosse oltre le mura, oltre le foreste e le praterie che le circondavano, l'unica realtà che avesse mai conosciuto. Li aveva visti anche lui, i libri proibiti, in cui si raccontava di luoghi meravigliosi, quasi mitici, di cui l'umanità non serbava più alcun ricordo diretto... prima non se ne era mai interessato, non aveva tempo per le favole... ma ora doveva sapere se quelle erano davvero favole. Lo doveva a se stesso, a quel ragazzo che viveva sottoterra sognando il cielo, agli amici che avevano creduto così tanto in lui da morirne, a tutti coloro che se n'erano andati troppo presto, nel fiore degli anni, per dare a lui e ai sopravvissuti la possibilità, un giorno, di essere liberi.
Era riuscito a procurarsene uno, di quei volumi, che ora potevano circolare di nuovo liberamente, e aveva scelto lì, quasi a caso, la prima meta, ed era partito. Lungo la strada, a volte incontrava altri come lui e si univa a loro, per qualche tratto di strada, perché l'immenso ignoto può disorientare anche il più ardimentoso degli uomini.
E così aveva visto. Aveva visto montagne altissime le cui cime parevano perdersi nel cielo, aveva attraversato deserti infuocati, distese di ghiaccio, foreste tropicali dalla vegetazione quasi impenetrabile, ammirato aurore boreali e solcato immensi oceani tempestosi. Oltre uno di quelli, poi, aveva scoperto che esistevano altri popoli, dalla lingua e dai costumi diversi dai suoi, che non avevano conosciuto l'incubo dei Giganti e per questo gli sembravano straordinariamente più evoluti. Niente male! ripeteva ogni volta dentro di sé, come aveva esclamato tanti anni addietro, la prima volta che era uscito dalle mura con i suoi compagni, aveva sentito il vento in faccia e aveva assaporato inebriato quella parvenza di libertà.
Vent'anni. Aveva viaggiato così per venti lunghi anni, senza mai rimpiangere la sua scelta, esattamente come non aveva mai rimpianto la decisione di entrare nel Corpo di Ricerca. Quando gli parve che la sua sete di conoscenza si fosse placata, ritornò nel suo paese d'origine. Non dove viveva prima, però. Comprò per pochi soldi un vecchio casolare abbandonato, in aperta campagna, lo sistemò e vi impiantò una piccola fattoria. Gli animali sono molto meno complicati degli esseri umani. E non c'è bisogno di tante parole, per comunicare con loro. Non aveva la minima curiosità di scoprire come fossero cambiate le cose, in sua assenza. Non voleva venire a sapere di altri compagni scomparsi, magari, questa volta, per una banale malattia o una coltellata sferrata nel buio da qualche balordo.
Preferiva vivere tranquillo e in solitudine, secondo i ritmi della natura e le proprie abitudini, sempre uguali.
Ma qualcuno, chissà come, doveva aver scoperto che era tornato e dove viveva. Perché un giorno ricevette una convocazione scritta da parte del Governo per partecipare alla cerimonia di commemorazione annuale della sconfitta dei Giganti. Lui scosse la testa, indeciso se sorridere o rabbuiarsi, e gettò il biglietto tra le fiamme del camino.
E così accadde, puntualmente, per altri quindici anni.

A questo pensava anche quella sera, mentre il sole accarezzava con i suoi ultimi raggi la campagna intorno a lui, ammantata dei colori caldi dell'autunno. Stava per rientrare in casa, quando un rumore inconsueto attirò la sua attenzione: ruote che sobbalzavano sulla strada sterrata, poco più che un sentiero, che dalla via principale conduceva fino alla sua fattoria. Fatto strano, perché lì non veniva quasi mai nessuno... soprattutto a quell'ora. Cercò di mettere a fuoco, ma ormai era quasi buio, e la sua vista non era più buona come un tempo. Poi vide, in modo più chiaro man mano che si avvicinava, la sagoma di una carrozza, che si fermò proprio davanti alla staccionata. Levi lanciò solo un'occhiata al conducente in cassetta, che non riconobbe, e attese con insolita curiosità che si aprisse lo sportello della vettura. Non sapeva nemmeno lui chi aspettarsi, ma certo non avrebbe mai indovinato chi fosse. Così, quando il passeggero scese sul predellino e la poca luce residua gli illuminò il volto, quasi trasalì: l'uomo che aveva cambiato il suo destino! Erwin Smith!
“Erwin!” esclamò incredulo. Lo osservò rapidamente. Certo, era invecchiato: il volto serio era solcato di rughe e i capelli, tagliati cortissimi, apparivano quasi completamente bianchi. Ma gli occhi azzurri erano come li ricordava, limpidi e franchi.
“Levi!” rispose di rimando l'altro, scendendo a terra con un balzo ancora agile. Era in divisa, e la sua figura aveva conservato l'asciutta eleganza che ricordava.
Si strinsero la mano con forza, ma senza sapere bene che cosa dire. Che cosa ci si dice, dopo più di trent'anni? Levi, poi, non era mai stato molto loquace, e di sicuro tutti quegli anni trascorsi in solitudine non avevano migliorato la sua inclinazione. Ma Erwin lo conosceva e fu lui quindi a disperdere l'imbarazzo.
“Ti trovo bene!” commentò, battendogli una mano sulla spalla.
Si guardò intorno con sincero interesse.
“È qui dunque che vivi ora?”
“Già... Ma non stiamo qua fuori, comincia a fare freddo. Entrate!” disse Levi, facendo un cenno anche verso il conducente della carrozza.
“Sono solo di passaggio... ma grazie, Gheorghe ed io entriamo volentieri un attimo a scaldarci.”
I tre uomini entrarono nell'abitazione, che era molto modesta, ma in perfetto ordine e pulitissima. Da Levi, del resto, non ci si poteva aspettare nulla di diverso.
“Accomodatevi. Gradite un tè? O preferite qualcosa di più forte?”
Levi era un po' impacciato. Non era abituato a ricevere visite.
“Per me un tè va benissimo” rispose Erwin.
“Anche per me” disse l'altro, che fino a quel momento non aveva aperto bocca.
L'ex capitano del Corpo di Ricerca riempì un bricco di acqua e lo pose sul fuoco, poi prese tre tazze da una credenza e le sistemò sul tavolo, insieme a zucchero e latte.
Intanto, Erwin lo studiava. Non ci si rende molto conto dei propri cambiamenti, finché non ci si trova davanti a quelli di qualcun altro, qualcuno che non si vede da molti anni. Solo allora si riesce a valutare davvero quanto tempo è passato. Il viso di Levi era sempre sottile, quasi scavato, e attraversato da miriadi di piccole rughe, ma non molto profonde. Ed era più abbronzato di quanto rammentasse, probabilmente per la vita che ora conduceva, sempre all'aria aperta. Il fisico era rimasto snello, forse per lo stesso motivo, e intatti erano i suoi movimenti fluidi, quasi felini, con cui faceva qualsiasi cosa. Ma ciò che lo colpì di più furono i capelli, uguali a prima, solo appena spruzzati d'argento. Tutto sommato, constatò, il tempo era stato più gentile con Levi che con lui, anche se non aveva motivo di lamentarsi.
“Sei ancora un ufficiale” rilevò Levi, distogliendolo dalle sue meditazioni.
“Sì... non so per quanto ancora mi terranno, vista la mia età, ma per ora è così...”
“Non è la divisa del Corpo di Ricerca però...”
“Il Corpo di Ricerca non esiste più - lo informò Erwin con una punta di amarezza nella voce - Le autorità a un certo punto hanno ritenuto che non fosse più necessario. Ora mi occupo di sicurezza interna.”
Sicurezza interna... Servizi segreti? si chiese Levi. Erwin si era sempre mosso bene in quel sottobosco, sapeva leggere tra le righe, prevenire le azioni ostili e prendere, all'occorrenza, decisioni scomode... sarebbe stato logico sfruttare le sue doti in quel settore. Ma non glielo chiese.
“E Quattr'occhi come sta?” domandò invece.
Erwin sorrise a quel nomignolo, che lo riportava indietro alla loro gioventù.
“Bene. È sempre matta come un cavallo. Continua con i suoi esperimenti e le sue ricerche, per conto del governo centrale, ovviamente non più sui Giganti. Si è messa in testa di recuperare colture e specie animali che l'umanità ha abbandonato quando è cominciato quell'incubo... Le piacerebbe di sicuro, qua...”
“Non si è sposata?”
“No, non credo che le sia mai interessato il matrimonio... lei è così, votata alla causa, qualunque essa sia.”
“Come noi...” commentò Levi.
“Già. Come noi.”
“E... gli altri?”
Non voleva pronunciare i loro nomi, i nomi di chi era sopravvissuto, perché avrebbe significato ricordare chi non c'era più. Erwin capì.
“Sì, stanno tutti bene.”
Il tè era pronto e Levi lo versò nelle tazze.
“Come mai sei da queste parti?”
“Volevo portarti questa di persona”.
Erwin estrasse una busta dalla tasca della giacca. Levi la riconobbe, senza bisogno di aprirla. Era il solito invito alle celebrazioni per l'anniversario della liberazione.
“Sono quindici anni che te le mandiamo... ma forse le altre sono andate perdute...”
La voce di Erwin era appena velata di ironia.
Con lui sarebbe stato stupido mentire, e poi non era nel suo stile.
“No, non sono andate perdute... Le ho bruciate. Niente di personale, ma queste cose non fanno per me, lo sai. E anche stavolta non sarà diverso.”
“Lo immaginavo. In realtà, dovevo recarmi in un posto e casa tua era di strada. Ne ho approfittato per farti un saluto, tutto qui.”
Improvvisamente, Levi si sentì in colpa. Accidenti, almeno una volta poteva farsi vivo, andare a salutare i vecchi compagni, rassicurarli che stava bene... con tutto quello che avevano passato insieme! La verità è che aveva avuto paura. Paura dei brutti ricordi, dell'angoscia delle perdite, che non aveva mai del tutto superato, e della convinzione, irrazionale ma dilaniante, che gran parte di esse fossero imputabili a lui. Stare lì, lontano da tutto quanto gli ricordava il suo passato, lo aiutava a tenere a bada il suo demone.
“Quindi ora fai il contadino...” proseguì Erwin, per cambiare discorso.
“Sì... il contadino e l'allevatore. Mi piace. È una vita semplice, senza complicazioni e con poche sorprese - disse quasi più a se stesso - Ma... è tardi. Perché non vi fermate e riprendete il viaggio domattina, con la luce? Se vi accontentate, il posto c'è.”
Gheorghe lanciò un'occhiata al suo superiore.
“Ti ringrazio, Levi, ma dobbiamo proseguire. Sarà per un'altra volta.”
“Fermatevi almeno a cena... Sempre se vi accontentate.”
Erwin rifletté un attimo. Cenare, dovevano cenare. Sempre meglio farlo con un amico, piuttosto che in una squallida locanda, tra sconosciuti.
“D'accordo. Grazie.”
Il ghiaccio si era ormai sciolto, sembrava quasi che quei trenta e rotti anni per loro non fossero mai trascorsi.
Levi cominciò a darsi da fare. Provava una sconosciuta soddisfazione, nel preparare quei piatti semplici, frutto del suo duro lavoro e dell'autentica passione che vi metteva. Si rese conto che non aveva mai condiviso queste cose con nessuno. Forse era stato solo per troppo tempo...
Indicò a Gheorghe dove poteva ricoverare i cavalli e dar loro da mangiare.
“Scusa, Levi, ma non posso non chiedertelo... Che cosa hai fatto, per tutti questi anni? Dove sei stato?”
“Ho viaggiato, per un bel po'...”
Gheorghe era rientrato e così poterono mettersi a tavola.
Durante la cena, Levi raccontò. Forse non aveva mai parlato così a lungo in tutta la sua vita. Gli altri due pendevano letteralmente dalle sue labbra. Né l'uno né l'altro si erano mai allontanati troppo dai luoghi in cui erano sempre vissuti, e quindi ascoltare i racconti di qualcuno che aveva visto altre realtà, altri mondi, li stregava, nel vero senso della parola.
Si era fatto piuttosto tardi e il cocchiere uscì di nuovo per riattaccare i cavalli alla carrozza.
Il momento del commiato fu piuttosto imbarazzante. Non sapevano quando si sarebbero rivisti. Se si sarebbero rivisti...
“Beh... - cominciò Erwin, porgendogli la mano - allora... grazie dell'ospitalità. Mi ha fatto davvero piacere averti visto e constatato che stai bene.”
Ma Levi aveva ancora una domanda.
“Come avete fatto a trovarmi?”
“Oh, è stato per puro caso. Uno che aveva fatto parte del Corpo di Gendarmeria è passato da qua e ti ha riconosciuto... l'ha detto a qualcun altro, e la notizia è arrivata fino a me. Sì, sono io che ti ho mandato tutti quegli inviti. Speravo di vederti, prima o poi. Anche Hanji ci teneva... Comunque, se in qualsiasi momento cambi idea, se vuoi farti una bevuta ricordando i vecchi tempi, sai dove trovarci... ”
Levi si sentì un ingrato senza cuore. Non disse nulla. Non voleva fare promesse che non sapeva sarebbe riuscito a mantenere. Si limitò a stringere la mano di Erwin con insolito calore.
Sulla porta, però, l'altro si girò di nuovo verso di lui.
“Ma che cosa hai fatto, dopo che sei tornato dai tuoi viaggi? D'accordo, hai la tua fattoria, ma... dopo che hai finito di lavorare, che cosa fai qui, lontano da tutto?”
Non riusciva ancora a capacitarsi di quel drastico cambiamento.
Levi fece uno dei suoi rarissimi sorrisi.
“Vado a letto presto.”

 


 

Note dell'autrice

Questo racconto, che cerca di immaginare un “dopo”, mi è stato in parte ispirato dalla canzone che ho messo all'inizio, perché alcuni versi (non tutti, solo quelli che ho citato) secondo me si adattano al Nostro. La frase finale, invece, è uno sfacciato omaggio a “C'era una volta in America...”. Non c'entra nulla, ovviamente, ma anche lì ci sono due amici (in quel caso, ex amici) che si incontrano dopo molti anni di separazione, dopo che hanno condiviso tante cose e tanti lutti, e inconsciamente fanno un po' un bilancio della propria vita... Mi piace quel clima un po' triste e malinconico, tra ricordi e rimpianti.

 

I personaggi di questa storia, stata scritta senza scopo di lucro, sono proprietà del loro legittimo autore, Hajime Isayama.

  
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