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Autore: M4RT1    23/11/2015    0 recensioni
Finnick PoV | Finnick/Annie | 65th and 70th Hunger Games
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Finnick Odair ha giocato tre volte: alla sua Edizione, a quella di Annie, a quella della Memoria.
Questa storia parla delle prime due.
Del quattordicenne che vinse i sessantacinquesimi Hunger Games e del giovane Mentore che salvò Annie.
Di come si conobbero, di come divennero amici. Di come arrivarono a sposarsi.
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Dal capitolo XI:
Aveva sempre sperato – anche creduto, in fondo – che gli Hunger Games in realtà fossero una gran bufala, che i Tributi venissero feriti e, con la scusa di rimuovere i cadaveri, guariti da Capitol City e impiegati come Senzavoce, magari, ma vivi. In quel momento capì che si sbagliava. La ragazza era morta.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter XI - Life and death

 
 
 
Finnick non si era mai ritenuto un corridore: era un nuotatore, un pescatore, forse addirittura un buon combattente, quando si trattava di usare reti e tridenti, ma la velocità nel muoversi non faceva per lui. Eppure, quella notte, il ragazzo corse per chilometri, accompagnato dalla sensazione di avere i Favoriti alle calcagna. Sfrecciò attraverso gli alberi, scavalcò tronchi caduti (o gettati lì apposta?), saltò oltre cumuli di foglie e piccoli animali che si aggiravano pacificamente nell'erba e, addentrandosi nel bosco, giunse fino alla riva di un fiume. Lì si accasciò, stremato.

L'acqua scorreva pacifica, lenta, scura come il cielo che le stava sopra. Dopo aver preso fiato, Finnick vi si specchiò: il suo riflesso era lo stesso dei giorni trascorsi a Capitol City, ma era sudato e graffiato dai rami che, durante la corsa di quella sera, aveva sfiorato. Si asciugò un rivolo di sangue con la mano, incantato e impressionato insieme. Fu proprio in quel momento, mentre fissava la sua immagine con una curiosità quasi morbosa, che l’inno di Panem cominciò l'elenco dei caduti di quel primo giorno: la ragazza del Tre, entrambi quelli del Cinque, un ragazzo smilzo del Sei e il Tributo maschio del Sette, le ragazze dell’Undici e del Dodici. Sette in totale, come i colpi di cannone.

Finnick attese che il sigillo sparisse dal cielo dell'Arena e poi, facendo meno rumore possibile, si sistemò su di un albero, assicurandosi il meglio possibile al tronco che lo sorreggeva. Non era un cattivo arrampicatore – alla scuola di vela gli era stato chiesto spesso di arrampicarsi sull'albero maestro per sistemare le vele – ma il solo pensiero di dover dormire in quella posizione precaria gli dava il voltastomaco.

Trascorse un paio di minuti fermo, immobile nell'aria fredda della notte, a osservare il suo stesso respiro condensarsi in nuvole bianche e sparire dopo qualche istante. Stava per assopirsi, finalmente, quando il rumore di passi affrettati gli giunse alle orecchie, facendolo sobbalzare. Per poco non perse l'equilibrio, quando vide la scena che si stava svolgendo due o tre metri sotto di lui, ma riuscì a reggersi e, le dita strette alla corteccia, osservò una ragazza correre sulla riva del fiume, incespicando.

“Aiuto!” gridava, terrorizzata. Finnick si chiese quale Tributo avrebbe urlato per rivelare la sua posizione e da cosa stesse scappando, ma non trovò risposta. La ragazza era bassina e magra, dai capelli corti color oro e con metà volto coperto di sangue; stringeva tra le mani un coltello sporco, ma sembrava piuttosto innocua. Avrebbe potuto essere addirittura una sua alleata.

Appollaiato sul ramo, il Tributo fissò la ragazza accovacciarsi nel ruscello per sciacquarsi la faccia e poi, assetata, bere avidamente. Nel momento stesso in cui ebbe terminato, il cannone rimbombò per l'Arena. Finnick si guardò intorno, cercando di individuare il punto in cui un altro Tributo era morto: c'erano trappole, dunque? Oppure i Favoriti del Due avevano trovato altre vittime? Erano ancora alla sua ricerca? Impegnato a rispondere a quelle domande, si accorse a stento dell'Hovercraft che sorvolava i boschi; se ne rese conto solo quando lo sentì fermarsi appena sopra di lui: il veicolo si immobilizzò e una specie di artiglio d'acciaio scese dalla sua pancia, aperto, pronto a raccogliere il cadavere. Quando tornò su, Finnick si rese conto che era quello della ragazza che aveva gridato, ora pallida e con le labbra viola scuro. Fissò il suo corpo esanime sparire oltre le cime degli alberi e fu solo dopo che l'Hovercraft fu svanito che si rese conto di essersi appiattito contro il tronco dell'albero, terrorizzato.

Aveva sempre sperato – anche creduto, in fondo – che gli Hunger Games in realtà fossero una gran bufala, che i Tributi venissero feriti e, con la scusa di rimuovere i cadaveri, guariti da Capitol City e impiegati come Senzavoce, magari, ma vivi. In quel momento capì che si sbagliava. La ragazza era morta.


 

Il sole sorse poche ore dopo, sorprendendo un Finnick addormentatosi poco dopo l'ultimo colpo di cannone e fortunatamente ancora sull'albero, un braccio sospeso nel vuoto. Il ragazzo si stropicciò gli occhi, ignorando la sensazione di fame, e cautamente scese giù dal tronco. Aveva la bocca secca, ma era quasi convinto che l’acqua del fiume fosse avvelenata – non vedeva altro motivo per la morte della ragazza – così si decise a tornare al centro paese per cercare una fontana.

La strada di terra rossiccia era deserta, anche se Finnick avrebbe scommesso che la metà dei Tributi ancora in vita fosse nascosta dentro una di quelle case fatiscenti. Finchè gli altri se ne restavano lì, comunque, non c'era pericolo per lui, così proseguì dritto per il suo percorso. Stringendo la corda tra le dita, Finnick camminò nervosamente per raggiungere la fontana più vicina e, una volta trovatala, bevve tanta acqua da scoppiare. Recuperò una borraccia abbandonata e la riempì, infilandosela nella cintura per non perderla. Poi non seppe che fare.

Non poteva andare a caccia di Tributi, proprio non ci riusciva, ma non voleva fare la figura del cretino girovagando come un bersaglio mobile. Alla fine decise di cercare Maia. Magari aveva del cibo, si disse, e magari avrebbe voluto condividerlo con lui e averlo come alleato. O forse l’avrebbe ucciso, e comunque anche il quel caso la giornata avrebbe avuto un risvolto più interessante del continuare a vagare a vuoto. Così tornò sui suoi passi, diretto al bosco.


 

***


 

Quando apro gli occhi, per un istante credo di essere nella mia stanza, al Villaggio dei Vincitori. Poi ricordo che no, non sono a casa, e mi siedo di scatto. Non è la mia stanza.

“Buongiorno, Finn” mi saluta Mags, affacciandosi dalla porta del bagno. Mi rendo conto di essermi addormentato in camera sua e di essere sdraiato sul suo letto, vestito come ieri sera.

“Buongiorno, Mags” rispondo. “Io ho… dormito con te?” chiedo. Non vorrei sembrarle scortese, ma la sensazione di svegliarsi sapendo di aver dormito accanto a una lei non è particolarmente piacevole.

“Ho dormito in camera tua” mi risponde la Mentore. Forse ha capito, forse no. Con lei non si può mai sapere.

Una volta seduto, do un'occhiata allo schermo di fronte al letto: mostra Michael che dorme, accucciato ai piedi di un albero, con Annie accanto che regge il coltello con la mano tremante. Sta facendo la guardia.

“Non è morto nessun altro?” chiedo a Mags. Immagino non sia propriamente un buon modo di iniziare la giornata, ma mi preme sapere che Annie è un altro passo più vicina a casa.

“Il Tributo femmina del Nove” mi risponde lei. “Stanotte, verso le quattro. Credo sia stata presa a picconate da quella del Sette, ma stavo praticamente dormendo.”

È macabro il parlare di questi argomenti così, sorseggiando il latte a colazione. Ma è l'unico modo che conosciamo per discuterne, esorcizzando il tutto e rendendolo meno terribile di quello che è. E so che sembra orribile, detto così, come se la tragedia dei Giochi fosse ridotta a una chiacchiera da parrucchiere, ma sono sicuro che neppure i Tributi vorrebbero Mentori impegnati a piangere e deprimersi tutto il giorno.

“Annie sta facendo la guardia” informo Mags come se fosse la cosa più importante.

“Lo so, le ho dato un’occhiata prima” mi risponde, uscendo in accappatoio. “Sta bene, credo.”

Annuisco, anche se so che è una bugia: non sta bene, nessuno può star bene nell'Arena. Sicuramente però sta meglio di quanto sperassi: sembra in buona salute, non è ferita, ha mangiato ed è armata. Questo supera di gran lunga le mie aspettative. Dopo essermi assicurato un'ultima volta che tutto sia tranquillo, nell'Arena, mi alzo di scatto e faccio per uscire, diretto in camera mia.

“Ci vediamo tra mezz’ora in Sala, Finn” mi congeda Mags mentre sono sulla soglia, ricordandomi nuovamente dei miei impegni di Mentore. Oggi abbiamo i primi incontri con gli sponsor, che decideranno a chi dare i propri soldi, su chi investire. Non sarà facile, con i Tributi che ci ritroviamo quest’anno, ma abbiamo affrontato situazioni peggiori. Stando a quando dice Cesar, Annie ha riscosso un certo successo tra le donne over quaranta, che la vedono come una figlia indifesa, e tra i ragazzi tra venti e trentacinque anni, che non oso pensare perché la supportino; anche se un’idea ce l’ho, naturalmente.

Credo sia per lo stesso motivo per cui, quando compii sedici anni, fui chiamato con tanta urgenza al Palazzo. A Capitol City, la cena col Presidente fu sfarzosa. Al termine del Tour della Vittoria la villa era stata decorata con migliaia di luci intermittenti, giochi d’acqua e vari esibizionisti che mangiavano fuoco e facevano sparire oggetti. Quel giorno invece la cena fu più sobria, ma al tavolo d’onore mi fu assegnato il posto accanto a Snow. Non avevo mai parlato col Presidente, non in privato, e quella conversazione mi fece rimpiangere tutto ciò in cui avevo sperato negli ultimi mesi: di vincere, di vivere, di tornare a casa. Fu allora che mi chiese, con parole molto gentili, di prostituirmi. Ovviamente non usò quella parola, sarebbe stato disdicevole per uno del suo rango, ma il senso fu abbastanza chiaro dal farmi ritornare su roastbeef e piselli. Quel giorno, deglutendo a fatica, rifiutai con la stessa falsa gentilezza usata dall'uomo e lui stette al gioco: non si arrabbiò, non tentò neppure di convincermi. Disse solo: “Se dovesse cambiare idea, non esiti a informarmi.” Poi per mesi non mi fu recapitato il compenso promesso.

Avevo sedici anni e nessuna intenzione di darmi in pasto alle signore-ibrido della Capitale. Ma lui ammiccò e aggiunse: “Sono sicuro che ci ripenserà, prima o poi”. Poi cominciò a parlare di Annie, la ragazzina che avevo salutato alle interviste, e anche se allora non colsi l’allusione, ora sono sicuro che si riferisse a questo, al fatto che l’avrebbe usata per minacciarmi. E non perché non abbia altri ragazzi da usare per soddisfare le voglie delle Capitoline, ma perché non accetta che qualcuno possa rifiutarsi di obbedire ai suoi ordini. Neppure io.

“Odair! “

Mi riscuoto dai miei pensieri quando, nel bel mezzo del corridoio diretto alla Sala, urto qualcuno.

“Scusa” mormoro, sovrappensiero.

Di fronte a me c'è Enobaria che mi fissa, le mani sui fianchi e un vestito attillato addosso. Mi sorride con quei denti inquietanti e mi lancia uno sguardo ammiccante.

“Non trovi che sia una buona giornata?” mi chiede. Lasciando stare che non ho alcuna idea del perché dovrebbe essere una buona giornata, cerco di sorriderle: non posso farci nulla, ma dalla mia Edizione provo odio per chiunque appartenga al Distretto Due. E il fatto che abbia i denti appuntiti come quelli di una bestia selvaggia non aiuta a farmi provare sentimenti positivi nei suoi confronti.

“Sì, bellissima” ribatto, comunque. “Ho ancora due Tributi in vita.”

Lei sospira, come se la questione Tributi fosse di scarsa importanza, poi mi prende a braccetto. Profuma di qualcosa di forte.

“Intendevo il cibo, ma comunque hai ragione.”

Ci incamminiamo. Tecnicamente sono più alto di lei, ma oggi indossa dei tacchi vertiginosi e le nostre spalle sono alla stessa altezza. Mi ritrovo a pensare alla sua Edizione e a quanto sia identica ad allora, nonostante sia passato del tempo.

“Quanti anni hai?” chiedo all'improvviso.

“Non si chiede l’età di una signora” mi rimprovera lei, usando una parodia del tono che mi riserva Mags quando faccio qualcosa di poco educato. “Ventisei, comunque.”

Annuisco. Mi chiedo come sarò a quell'età, come sarà Annie, se ci arriverà. Poi, dato che le domande diventano troppe, la seguo verso la Sala. Il corridoio è praticamente deserto, eccezion fatta per Beetee, Mentore del Tre, che ci saluta con un cenno del capo. È un tipo a posto, anche se insiste nel portarsi dietro la sua ultima Vincitrice, Wiress, una donna di mezza età che credo sia impazzita durante la sua Edizione. Non ho idea del perché la Capitale la lasci girovagare per la Sala dei Mentori, considerando che è quasi del tutto inaffidabile, ma temo sia un monito per noi sopravvissuti: gli Hunger Games non finiscono, sembra gridarci. Le cicatrici non vanno via.

“A cosa pensi, Odair?” mi domanda Enobaria all'improvviso, accarezzandomi una guancia con un dito. Provo un moto di disgusto e cerco di sottrarmi alla stretta delle sue unghie lunghe mezzo metro e smaltate di rosso sangue. Lei non sembra gradire. “Hai fretta?” sussurra.

“Mags mi aspetta” balbetto, indietreggiando. Anche se ormai è una Mentore, non ho voglia di ritrovarmi solo con una tipa che, tra unghie e denti, si porta dietro due metri di lame affilate.

“Mags se la cava da sola da oltre cinquant’anni, per quel che ne so. Lo farà anche questa volta” ribatte Enobaria, continuando a toccarmi la faccia. “Vieni con me.”

“Dove stiamo andando?” chiedo. Non voglio seguirla, ma lo faccio. Non so nemmeno io il perché, so solo che Mags mi ucciderà quando tornerò al mio posto – sempre che non l'avrà già fatto la ragazza che mi sta davanti.

“Oh, lo vedrai. Ti piacerà” mi risponde lei, trascinandomi sul tetto del Centro d’Addestramento, in una specie di ripostiglio. Non mi piacciono gli spazi chiusi.

“Perché siamo qui dentro?” balbetto.

Per tutta risposta, lei si sbottona la cerniera del vestito. Si fa scivolare giù le spalline. Io la fisso, inebetito.

“Perché non mi aiuti, Finnick?” mi chiede. Non voglio farlo, ma sta bloccando la porta, così rimango immobile, attonito. Le parole di Snow mi tornano in mente: “Ci sarebbero donne disposte a pagare. A pagare molto.” Sta succedendo questo? Lei ha pagato?

La stanza sembra farsi più piccola, più stretta, l'aria meno presente.

“Non voglio fare sesso con te” le dico, secco.

La sua faccia sarebbe divertente, se non avessi il terrore di ritrovarmi i suoi denti nella gola.

“Non vuoi?” ripete, fissandomi. La situazione è terribilmente imbarazzante, ma d’altronde non sono stato io a chiudermi in un ripostiglio con un diciannovenne.

“No” affermo, sicuro. “Io credo che mi piaccia un’altra.”

La sua espressione si fa interessata.

“Davvero? E chi? “

Mi rendo conto di essere in uno sgabuzzino a parlare dei miei sentimenti con Enobaria e, miracolosamente, rinsavisco prima di confessarle il mio amore per Annie. Scuoto la testa e la spingo via, aprendo la porta e uscendo all’aria fresca.

“Meglio tornare dagli altri” dico. Lei fa la sostenuta, ma si vede che ha voglia di scappare.

“Odair... se dovessi ripensarci, fammi un fischio” si congeda, scendendo verso la Sala.

Non credo ci ripenserò.




N.d.A.: Okay, dovrei vergognarmi. E lo faccio, davvero, perché un ritorno dopo quasi un anno è una cosa di cui effettivamente ci si può vantare quanto lo si può fare di aver fatto (SPOILER ALLERT PER PERSONE CHE INESPLICABILMENTE NON SONO A CONOSCENZA DEL FINALE DI MOCKINGJAY) saltare in aria Prim. Boom.
Comunque sia, sono qui. E siccome una mia amica mi sta col fiato sul collo per continuare a leggere questa storia, non vi abbandonerò più.
Passo e chiudo.

 


 

  
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