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Autore: Bolide Everdeen    28/11/2015    0 recensioni
[Storia ispirata alla fan fiction interattiva "500".
Distretto 7, Astrid Wright.]
Caro Reed,
ti scrivo perché non ho nessun altro metodo per comunicarti questa notizia. Spero che tu non rimanga deluso, o che non ne rimanga troppo triste, e magari dovrei evitare di dire queste cose, perché in questo modo sto deludendo persino me stessa. Cercherò di essere diretta.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Letter

Un respiro. Due. Tre. Quattro. Contare i respiri era una misera certezza a cui aggrapparsi mentre tutti quei filamenti che avevano costituito il suo mondo iniziavano a dimostrarsi così sottili, così labili, così irreperibili. Un treno la stava trasportando altrove. Accanto a lei, un ragazzo conosciuto in un passato neanche definibile, forse neanche reale. Atlantis, ritornato dalla sua infanzia in cui era stato il suo unico amico ed aiutante, presentato ora privo di voce e privo di maschere. Le aveva rivelato di essere suo fratello. Erano scappati, secondo l'appuntamento dettato da lui, alle quattro di notte. Si sarebbero recati nel distretto 7, dal 3. Dal 3 dove lei aveva sempre abitato. Anche Atlantis, prima. Però era stato catturato, e trascinato a Capitol City. E lei si era rinchiusa in un orfanotrofio, poi aveva atteso, poi...

Poi si era verificata quella serie di evenienze che avevano composto la sua vita, fino a quella notte. Fino a quella notte di una ragazzina undicenne, in una condizione stabile da due anni, quando era stata adottata. Quando la fine era cominciata. Era possibile che il mondo fosse così contraddittorio?

Caro Reed,

ti scrivo perché non ho nessun altro metodo per comunicarti questa notizia. Spero che tu non rimanga deluso, o che non ne rimanga troppo triste, e magari dovrei evitare di dire queste cose, perché in questo modo sto deludendo persino me stessa. Cercherò di essere diretta.

Reed era stato uno dei perni della sua vita dai nove agli undici anni. Dall'entrata in casa di Ivan Stilman a quella notte. Il nipote, così si era presentato, così non si era mai degnato di scomparire. Si era tramutato nel suo confidente, migliore amico, compagno di giochi. Illuminava i suoi giorni, come lei forse illuminava quelli di lui. Era possibile? Oppure non avrebbe inumidito di neanche una lacrima il foglio che lei gli aveva offerto come spiegazioni?

Spiegazioni per comprendere persino per quale ragione avrebbe seguito Atlantis. Ormai, non avvertiva né rilevava alternative. Non dopo i segreti svelati da quella notte. Non dopo il terrore.

Vorrei dirti quanto sei stato importante per me. Sai che è difficile, da me. Non so esprimere bene i miei sentimenti, ma penso che tu possa immaginare, perché siamo stati insieme per due anni. Adesso non potremo più.

Aveva scritto quella lettera in un impeto di sconvolgimento delle sue sensazioni, per colmare una voragine che si stava ampliando al suo interno. Non avrebbe dovuto dimenticare alcuni dettagli della sua vita ormai in stato rantolante, pronta alla morte, non Reed con tutto ciò che aveva generato. Il suo migliore amico. Aveva esordito con una prefazione che aveva lasciato scaturire i rimproveri dalla sua coscienza: non ci provare neanche, non distruggere quel che è accaduto così semplicemente. Lei scriveva quella missiva per evitare questi riflessi. Ma non avrebbe devastato tutto quanto?

Credeva di no. Acquistava fiducia in ogni parola, in ogni frase, sfogava con semplicità in quelle ultime affermazioni. Il congedo definitivo.

Avrebbe dovuto realmente abbandonare Reed? Sì. Avrebbe dovuto. No, avrebbe potuto evitare. Questo sarebbe significato disdegnare Atlantis, il suo impegno, i segreti che trascinava nella sua lingua amputata. Le domande scaturite nel momento in cui i loro occhi si erano incrociati dopo anni. Atlantis l'aveva implorata, ma non costretta. Le sue testimonianze scritte su un bigliettino, scritte, nello stesso tacito linguaggio che sarebbe divenuto anche la sua unica via nella lettera, erompevano più di qualunque altro verbo sentito negli ultimi anni. Come avrebbe potuto evitare?

Reed, io devo partire. Una persona mi ha cercato ed io devo andare con lui, per motivi che neanche io conosco veramente, però lui sì e credo che mi saprà guidare. Non sono curiosa, anzi, mi sento piuttosto preoccupata, ma è come se fossi immersa in qualche lago oscuro. Di pece. E mi estraessero, improvvisamente, rivelandomi tutte le cose che non so. Come ti comporteresti, in questo caso? Non conosco i miei genitori. Non me li ricordo. Mi pareva di non avere una famiglia, senza considerare voi, volevo dire una famiglia biologica.

Tu ce l'hai, Reed? Non ne abbiamo mai parlato, ma penso proprio per questo che anche tu puoi rispondere alle mie domande.

Aveva tentato di essere breve. Anche perché il tempo diveniva sempre più scarso, la quantità di sudore ancora più ingente. Doveva consegnare la sua lettera, guardare per l'ultima volta il suo amico, stampare il suo volto per l'eternità nella sua memoria. Donare un rilievo a quei caratteri dorati: Reed. Lui è Reed. Lui sta per scomparire, per sempre. Non voleva avvertire le lame in avvicinamento a questo ragionamento. Tentava di non pensarci, di assuefarsi nella costruzione delle frasi che da lei non era così spontanea. Il passo successivo era consegnare la lettera.

Ricordava i momenti dei minuti successivi come se fossero stati oggetto di un sogno vivido e iridescente. Con tutte le sfumature tendenti ad una opacità innaturale, uno splendore che non apparteneva alla realtà degli occhi. Era il suo timore e a tentare di rischiararle, per eludere l'oscurità in esse.

Aveva bussato alla camera di Reed. Non era giunta nessuna risposta. Aveva tentato una seconda volta, con la cautela necessaria per non rivelarsi a nessun altro dei componenti di quella famiglia con componenti incollati da varie regioni, legati con Stilman come nipoti. Ancora nulla. Era rimasta in ascolto, per interpretare nel silenzio una testimonianza del suo errore. Non è vero. Reed mi sta aspettando. Potrebbe dormire, se ne era accorta subito dopo. Nessun sonno avrebbe dovuto inibire l'ultima possibilità di incontro. Era necessario vederlo. Aprì la porta, nonostante la maniglia paresse debole, sotto alla sua stretta. Le suggerisse di non compiere quanto l'istinto stava sussurrando.

La prima risposta iniziò a mugolare ai suoi orecchi. Gemiti. Gemiti che le avevano ispirato sensazioni di gelo, gelo che si era arrampicato per la sua schiena e si era tramutato in pensieri simili all'assopimento. Ad allontanarsi da quella verità. Come per rifiutarla. Una forza più dirompente aveva tentato di intervenire, per liberare da quella nebbia, però la nebbia si era dissolta per non essere colpita, definitivamente. Salita in nuvole beffarde in aria, mentre la forza si limitava ad impattare con le pareti della sua mente. Ed a generare scintille, scintille lancinanti. Un calore che non aveva caratteristiche comuni con il calore. Preoccupazione. Ansia. Sudorazione. Non stava avvertendo il cigolio dei suoi piedi, per quanto si potesse rivelare deleterio. Avanzava. La certezza che Reed non stava dormendo l'aveva esplorata, trovando un posto adatto per nidificare e deponendo le sue uova.

Lo aveva visto. Reed, a letto. Sveglio e in lotta con una figura sovrastante ed invincibile, ghignante e predisposta al sangue. Sussurrava, la figura.«Piccolo bastardo, seguimi. Non hai alternative.» Era buio, quello lo ricordava nonostante l'anormale comportamento della sua memoria. Non era stata notata, aveva avuto l'opportunità di precederli. Era uscita dalla stanza ed aveva osservato la sagoma dell'uomo trasportare Reed giù per le scale, mentre il ragazzo si stava lanciando nei suoi lamenti e nei suoi spasmi. Per evitare qualunque grida che sarebbe derivata dai suoi gemiti. Per cosa?

Era Ivan. Ne era certa, anche per la voce. Si erano introdotti nella botola della cantina, o almeno così aveva scorto nel proseguire con la sua curiosità. Non aveva un piano. Doveva sapere, sapere cosa stava avvenendo. Forse, estirpare da quello un alibi per trascinare Reed con lei. Era corsa dietro a loro, fino all'interno della botola. Incoscientemente.

Era avvenuto con totale assenza di lucidità. Si era accorta che stava implorando alla sagoma di frenarsi solo quando il gelo degli occhi di Ivan si era posato su di lei, rivelando le stesse sensazioni provocate dai gemiti. Trasandando per questo una sottospecie di giostra a cui Reed era appeso, dondolante, ormai arreso ed inerte. Con qualcosa di fluido che si calava come le sue energie dai fili. Fluido e scuro, tendente al rosso. L'espressione di Ivan era quella di un folle. L'intento di Ivan era quello di un folle. Le grida che avevano devastato l'atmosfera dopo poco, lo stesso.

«Cosa vuoi? Eh? Vuoi che smetta? O vuoi anche tu sentire cosa sa fare la mia bella macchinetta, eh? Te lo meriteresti, cara la mia signorina! Non potresti rimanere a dormire? O devi fare l'eroina? Eh? Eh?» Non esisteva più alcuna concezione del silenzio. Era scomparso nel crepitare di quelle parole. Astrid non aveva reagito. Non riusciva a considerare con serietà ciò che stava avvenendo, era troppo acuto, nella sua mente. Le urla erano acute e s'infiltravano nel suo cervello, ne devastavano ogni singola cellula, lentamente, a turno.

No. Quella sensazione non si sarebbe più dovuta replicare. Per nessuno. Fine ai gemiti. Ivan aveva afferrato un coltello e si era scagliato sulla ragazza, ferendola sulla faccia. Per ucciderla? Per uccidere i suoi pensieri. Questa era la replica per riconoscere la vittoria di Ivan. Non aveva scorto nulla. Schegge che si alternavano, di ogni colore e concezione. Qualcosa bruciava nel suo volto, si contrapponeva a quel freddo. E le sensazioni generate erano orribili. Qualche colpo ed era finito. Lei si era svegliata. Sarebbe dovuta scappare. Qualunque cosa sarebbe avvenuta.

Lei ne era cosciente. Era stato Reed. Reed l'aveva salvata e lei, in qualche indefinito modo, era scappata.

Non so cosa aggiungere. Mi dispiace tantissimo. Salutami tutti quanti, digli che non posso tornare. Mi dispiace tantissimo. Spero che starai bene. Ti voglio bene più di qualsiasi altra persona al mondo.

Si accorse che, prima di chiudere la penna, era rimasta incerta sulla conclusione. Cosa sarebbe potuto essere differente dalla banalità? “Con amore”? “Con affetto”? “Saluti”? “Baci”?

Aveva concluso con il suo nome, semplicemente. Aveva firmato ed era scappata. Lasciando Reed solo.

Forse proprio per quello adesso anche sul suo volto c'era una firma.

Ma non doveva pensarci. Non voleva pensarci. Il distretto 3 era stato ucciso da una coltellata, da una manciata di parole, e da un treno che correva altrove.

 

Spazio autrice

Ehilà.

Ventiduesima one shot della seria “500 – Behind the scenes”, che narra di eventi della vita dei tributi della fan fiction interattiva “500” (non inventati da me). Qui trattiamo di Astrid Wright, distretto 7, in relazione ad un altro personaggio della storia, Reed Fox, distretto 3, che lei conosceva precedentemente. Le dinamiche sono troppo complicate per spiegarle qui ed evitare uno spazio autrice chilometrico. So che non ne avete voglia.

Detto questo, mancano due one shot alla conclusione, dedicate rispettivamente a Nathaniel River (distretto 8) e Carlotta Wilson (distretto 10). Mi scuso per aver destinato questi personaggi alla conclusione, ma c'è sempre qualcuno che si trova in questa deplorevole posizione. Neanche così deplorevole.

Scappo.

Bolide

  
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