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Autore: VV_23    03/12/2015    3 recensioni
"Aveva parlato al plurale. Aveva sottinteso un noi. Un minuto prima ero sola, apatica, pronta ad accogliere la morte in ogni istante. Lui, con una semplice parola, aveva reso di nuovo possibile ipotizzare di riaccogliere la vita"
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Paint'
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               Capitolo I.


 

“Sono stato nei boschi, stamattina, e ho sradicato questi. Per lei. Pensavo che potremmo piantarli lungo il lato della casa”.

 

Quel “potremmo” continua a girarmi nella testa. Aveva parlato al plurale. Aveva sottinteso un noi. Un minuto prima ero sola, apatica, pronta ad accogliere la morte in ogni istante. Lui, con una semplice parola, aveva reso di nuovo possibile ipotizzare di riaccogliere la vita.

 

Una doccia – tiepida, perché la mia pelle, come la lingua di un gatto, non sopporta le temperature troppo alte. Riaprire le finestre, nuovo ossigeno in ogni stanza della casa, anche in quella che, finora, era stata territorio proibito. La rosa bruciata, insieme ai vestiti, e finalmente profumo di pulito e di aria fresca.

 

Ed è così che riprendono le cose, quasi come le avevamo lasciate dopo i primi Giochi.

Peeta prepara il pane. Ogni mattina ne da un po' a Sae la Zozza, che lo porta da me per la colazione. Io ritorno nei boschi per la caccia, riprendo a respirare l'odore del bosco, recupero uno stile di vita più sano, che comprende alimentarmi regolarmente e curarmi del mio corpo.

Lui non si presenta per giorni: l'unica relazione che abbiamo è grazie a Sae, che porta a me il pane e a lui la selvaggina. Entrambi frequentiamo Haymitch, ma sempre in momenti diversi. Io lo guardo dalla finestra, ogni tanto, e mi chiedo se lui faccia lo stesso con me.

 

Poi succede. Una mattina, alla mia porta, c'è lui: il pane fresco tra le mani, un sorriso accennato sul volto e lo sguardo limpido. Il mio cuore perde un battito. Mi porge il pane, e, anche se le nostre dita non si sfiorano, è come se quello fosse il nostro primo contatto fisico dopo mesi. Va via senza dire una parola, e io passo la giornata nei boschi, rimuginando sul mio comportamento. Lui è stato più forte – come sempre, quando si tratta di rapporti umani – è venuto da me per primo, ora devo essere io a muovermi nei suoi confronti. Così, quando quella sera trovo il coraggio di andare da lui e portargli la selvaggina, decido che non è abbastanza.

“Domattina potresti restare. Per la colazione, intendo”.

Le prime parole che gli dico dopo settimane, e non sono nemmeno granché. Ma lui sembra non farci caso, e sorride, un po' più apertamente della mattina; il mio cuore, di battiti, ne perde qualcuno in più.

“Volentieri, ti ringrazio”

Un po' formale, ma va bene così, almeno per ora.

 

Il giorno dopo condividiamo il pane a colazione. Nella mia cucina sembra esserci più colore, più calore, ora che c'è lui, anche se non parliamo e ci limitiamo a lanciarci qualche sguardo di sottecchi. Mentre sorseggio la mia cioccolata calda con un nuovo strano entusiasmo, mi rendo conto che lui ha messo giù il suo tè e mi sta guardando con attenzione. Sul suo viso passa un guizzo, ed è come un'illuminazione.

“Ti piace molto la cioccolata calda. La bevevi sempre, prima. Vero o falso?”.

Gli sorrido appena, incoraggiata e incoraggiante, e vedo la luce nei suoi occhi sempre un po' spenti.

Vero, Peeta, assolutamente vero.

 

Da quel giorno, iniziamo a passare parte del nostro tempo insieme. Ci capita di condividere i pasti, io vado a caccia e lui dipinge, o prepara il pane o qualche dolce. Sae viene sempre meno da me, più che altro mi aiuta con le pulizie e con la cucina, ma non è più costretta a farmi compagnia. Peeta e io iniziamo a incontrarci da Haymitch, o ad andare da lui insieme. Per il nostro mentore è qualcosa da festeggiare con qualche bottiglia in più, e noi due ci troviamo impegnati anche a prenderci cura di lui.

Buffo, per una che, fino a qualche giorno fa, non aveva la premura nemmeno di lavarsi tutti i giorni.

 

Ma è tutto, fuorché semplice. Non parliamo molto. Le nostre conversazioni sono scarne, ancora un po' formali, ed è come se ci muovessimo in un campo minato in cui uno ha paura di scatenare nell'altro qualche reazione pericolosa. Io sto attenta a segnalare sempre la mia presenza, per evitare che si senta minacciato non sentendomi arrivare in una stanza, e, nonostante tutto – le parole pesate, i movimenti misurati – ogni tanto il suo sguardo si incupisce, gli occhi diventano neri. Lo trovo seduto sul divano, rigido nella postura e con i pugni chiusi, con il respiro talmente silenzioso che sembra quasi in apnea. Altre volte, quando sente di essere più in fondo nei suoi flashback, lascia la mia casa improvvisamente sbattendo la porta, senza dire una parola; nello stesso silenzio, ritorna dopo qualche ora, con l'aria sbattuta di chi ha affrontato una crisi interiore e qualche segno rosso sulle mani.

Ma la cosa peggiore di tutte sono il terrore e l'angoscia costanti che albergano nei suoi occhi quando sta con me. La paura che io possa saltargli al collo da un momento all'altro, e che mi fa pensare che dovrebbe essere ovunque, meno che in mia compagnia. Allora io tengo lo sguardo basso, per non spaventarlo, e per proteggere il mio cuore ferito. Nei momenti peggiori, mi chiedo perché ci ostiniamo a portare avanti questa faccenda, e i miei occhi si riempiono di lacrime, mentre il groppo in gola mi impedisce di pronunciare qualsiasi parola per diversi minuti.

 

La prima reale conversazione avviene, inaspettatamente, dopo una battuta di caccia. Vado da lui, per portargli della selvaggina, ma non è in casa, né si trova da Haymitch. Non mi piace non sapere dove sia, per quanto, razionalmente, sappia di non avere alcun diritto di conoscere ogni suo movimento. Eppure, decido di cercarlo in giro per il distretto, e uscire dal Villaggio dei Vincitori mi viene talmente naturale da non pensare fosse possibile: il cancello è già alle mie spalle, quando mi rendo conto del progresso fatto. Anche questo, solo grazie a lui.

E lo vedo. Di schiena, davanti alle rovine del Distretto. So bene dove siamo, e, quando mi avvicino, la conferma me la dà l'oggetto che stringe tra le mani: l'insegna – spezzata a metà e con qualche pezzo mancante – della panetteria. Guarda le macerie davanti a sé, gli occhi fissi, la mascella contratta, e un'aria inspiegabilmente adulta. A quel punto parla, e la sua voce ha un tono nuovo, più maturo, più consapevole.

“Voglio riaprirla. Voglio riavere la mia panetteria, voglio continuare la tradizione di famiglia”. Si volta e, incredibilmente, mi sorride. “Qui al Dodici manca un forno come si deve”.

La luce nei suoi occhi, finalmente liberi dalla solita paura che li velano quando sta con me, il sorriso un po' spento ma sincero, lui, mi danno il coraggio per sfiorargli la mano che tiene salda parte dell'insegna. Il primo reale contatto fisico dopo mesi, e sento un brivido lungo la schiena – assurdo, se penso ai baci e alle carezze che ci siamo scambiati in passato, in una vita passata; lui si irrigidisce, ma è solo un attimo, prima di rilassare di nuovo i muscoli.

“Ti aiuterò. Se vorrai”

Il sorriso si allarga. All'improvviso, ne vale la pena.

“Certo”.

 

E così, nel Distretto 12 in ricostruzione, iniziano subito i lavori per la panetteria Mellark, che ottiene l'approvazione in brevissimo tempo. Il governo della nuova Capitol City ci manda planimetrie, piani urbanistici e materiali, nonché operai specializzati, che vengono affiancati dai ragazzi del Distretto che hanno voglia di impegnarsi per la loro città. Peeta seleziona persino le macerie del vecchio forno, trattandole come fossero delle reliquie.

“Voglio tenere alcuni blocchi” mi ha detto il primo giorno. “Saranno le fondamenta della nuova panetteria”.

È un lavoro faticoso ma appassionante, che ci mette in relazione con altre persone. Molti di noi hanno preso parte alla guerra, e tutti abbiamo perso tanto. All'inizio ero terrorizzata all'idea di stare con qualcuno che poteva essere incuriosito dalla mia presenza e dalla mia storia, qualcuno ancora troppo interessato dalla Ghiandaia Imitatrice, e invece sperimento qualcosa di nuovo: essere semplicemente Katniss, una ragazza del Giacimento come altri, che ha visto la sua già precaria vita andare definitivamente in frantumi a causa della rivoluzione. Condividere le nostre storie ci aiuta a sentirci meno soli, ma, soprattutto, aiuta me a sentirmi meno “esclusiva” nel mio dolore. Sono solo una diciottenne come gli altri. E mi va più che bene così.



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Dopo aver pensato e pensato e pensato, ecco che mi decido a pubblicare questa fic! :) Sono entrata in palla totale per Hunger Games quando ho letto i libri qualche mese fa, e ho voluto immaginare come sarebbe potuto essere quel “ricominciare a crescere insieme”. Non so ancora quanti capitoli saranno, per ora è qualcuno :)

Ringrazio in anticipo chi leggerà!

VV

  
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