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Autore: gattina04    15/12/2015    9 recensioni
Due tempi, due storie: un futuro neanche troppo lontano e un presente.
Cosa accadrebbe se all’improvviso comparisse una bambina convinta di essere la figlia di Emma e Killian? Come reagirebbero i due scoprendo che presto la loro vita cambierà drasticamente?
E se dall’altra parte due genitori fossero alla disperata ricerca della loro piccola scomparsa? Cosa faranno per ritrovarla, come potranno reagire di fronte a quella che sembra una missione impossibile?
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Epilogo
 
13 Luglio 2016
Camminavo avanti e indietro per la stanza senza riuscire a fermarmi. Con molta probabilità se avessi smesso di muovermi avrei avuto un attacco di panico in piena regola. Nonostante avessi aspettato quel momento per ben nove mesi, ero alquanto terrorizzato all’idea che fosse arrivato. Ero felice, ma non avevo mai avuto così paura in tutta la mia vita. La parole “padre” e “Capitan Uncino” non sembravano un’accoppiata vincente.
«Hook se non la smetti di camminare, giuro che ti tiro addosso qualcosa». Emma mi fissò dal letto dell’ospedale, con uno sguardo alquanto esplicativo. In effetti non aveva tutti i torti, era lei quella in travaglio e che stava per dare alla luce la nostra bambina. Dovevo calmarmi, almeno per lei, anche perché non sembrava molto accondiscendente in quel momento.
«Si hai ragione tesoro», balbettai avvicinandomi al letto. «Sono solo un po’ nervoso».
«Tu sei nervoso? Beh non mi serve che tu sia nervoso, non mi sei di aiuto; qui non stiamo parlando di te». Regola numero uno: mai dire ad una donna che sta per partorire di essere agitato.
«Lo so», ammisi.
«No, che non lo sai. Non sei certo tu quello che sta per fare uscire un bambino dalle sue parti intime». Si interruppe facendo una smorfia di dolore, segno evidente che era arrivata un’altra contrazione. Emma era forte e non voleva dare a vedere quanto effettivamente facesse male, però non era riuscita a mantenere un’espressione impassibile. Anche se il dolore non mi aveva mai spaventato, fui contento di essere uomo.
«C’è qualcosa che posso fare Swan? Vuoi qualcosa?».
«Vorrei che questo bambino si decidesse ad uscire», rispose una volta ripreso fiato. «E vorrei che tu non mi facessi domande stupide. È ovvio che non puoi fare un bel niente, visto che sono io quella che sta partorendo! Hai per caso un qualche incantesimo che ti conferisca una vagina e la possibilità di partorire al mio posto?».
«Se vuoi esco», azzardai non sapendo come altro interpretare le sue parole.
«Stai scherzando? Tu non te ne andrai proprio da nessuna parte». Regola numero due: mai tentare di lasciare sola una donna in travaglio. Non voleva che me ne andassi, ma non sembrava neanche così smaniosa di volermi accanto. Mi ritrovai a guardarla  senza sapere cosa fare, mentre cercava di respirare in maniera regolare, nell’attesa della contrazione successiva.
«Killian ti prego dammi la mano», mi chiese, lanciandomi uno sguardo implorante. Non mi sorpresi  per quello sbalzo d’umore, nove mesi mi avevano ormai fortificato; fui contento di avere almeno la possibilità di esserle  di supporto.
«Certo tesoro». Mi avvicinai e intrecciai le dita alle sue. «Cerca di respirare come ti ha insegnato Cenerentola al corso pre-parto».
«Ci sto provando». Quando arrivò la contrazione successiva, capii di aver sbagliato ancora una volta. Regola numero tre: mai dare la mano a una partoriente, soprattutto se quella è la tua unica mano. Probabilmente avremo avuto un bambino, ma io avrei perso l’uniche cinque dita che mi restavano.
«Tesoro lo so che non è il momento, ma potresti stringere un po’ meno, in modo da lasciarmi l’uso dell’unico pollice opponibile che mi rimane?». Mi lanciò uno sguardo molto esplicativo e che non ammetteva repliche.
«Come non detto». Me ne restai in silenzio, affrontando con lei il dolore delle contrazioni.
«Ma non dovrebbe venire un dottore?», le chiesi dopo un po’. «E perché i tuoi genitori non sono ancora arrivati?».
Proprio in quel momento, come se avesse sentito la mia domanda, entrò il dottor Whale.
«Eccoti la risposta», sussurrò lei.
«Bene Emma, come sta andando?», le domandò. «Le contrazioni sono più frequenti di prima?».
«Beh non più di tanto, però sono sicuramente più forti».
«D’accordo fammi dare un’occhiata». Si chinò per guardare quanto Emma fosse dilatata. Ebbi una fitta di gelosia; pur sapendo che stava svolgendo il suo lavoro, sarei dovuto essere l’unico con il permesso di osservare le sue parti intime.
«Direi che è ancora presto», affermò riemergendo. «Tornerò più tardi a controllare, per qualsiasi cosa non esitate a chiamarmi».
«Va bene», rispose Emma gentilmente. Era evidente che fosse scortese solo con me.
«Per quanto riguarda i miei genitori», mi disse una volta che il dottore fu uscito, «me lo stavo chiedendo pure io. Che ti hanno detto?».
«Eh?». La guardai non capendo a cosa diavolo si riferisse.
«Quando li hai chiamati cosa ti hanno detto?». Ops. Regola numero quattro: non farsi prendere dal panico e ascoltare attentamente ciò che lei ti dice dopo le parole “mi si sono rotte le acque”.
Capì dalla mia espressione che non li avevo avvertiti. «Ti prego dimmi che li hai chiamati quando ti ho detto di farlo?».
«No», ammisi in un sussurro.
«Killian! È notte fonda, secondo te come fanno a sapere che sto partorendo se nessuno li avvisa? Pensi che mia madre miracolosamente si alzerà e capirà che sta per diventare nonna un’altra volta?».
«Io…». Fui salvato, per così dire, da un’altra contrazione che cancellò, anche solo in parte, la sua rabbia per quella mia dimenticanza. Dopo che fu passata la lasciai giusto il tempo per fare quelle due o tre chiamate che avrei dovuto fare in precedenza.
Nel giro di poco, infatti, tutti cominciarono ad arrivare, per poterla sostenere in quel momento unico della nostra vita. Sembrava che Emma fosse felice di vedere tutti tranne me, ma sapevo che era solo una cosa temporanea. Ce l’aveva con me perché doveva scaricare su qualcuno tutto quello che stava provando. In effetti, ero stato io a metterla incinta, quindi era giusto che fossi io l’oggetto della sua ira momentanea.
Purtroppo per lei, e anche per me, la cosa sembrò andare per le lunghe. Sembrava che la nostra bambina non avesse nessuna fretta di uscire; le ore di travaglio cominciarono ad accumularsi, mentre Emma cominciava a dare segni di non poterne più.
«Ti prego Whale fai uscire questa bambina da dentro di me», piagnucolò all’ennesimo controllo del dottore. «Con Henry era stato tutto molto più veloce». Nella stanza c’eravamo solo io in piedi accanto ad Emma, distesa sul letto e avvinghiata alla mia mano, e il dottor Frankenstein tra le sue gambe.
«Beh penso che ci siamo Emma». Quelle parole mi colsero di sorpresa. Era vero che le contrazioni erano molto più ravvicinate, ma mi ero abituato a quella fase di stallo. Emma respirò a fondo cercando di farsi forza. Dalla sua espressione capii che le fitte erano molto più frequenti e dolorose di quanto desse a vedere.
Il dottore chiamò un infermiera e, una volta arrivata, si misero in posizione per far nascere mia figlia. Alla sola idea che sarei stato padre nel giro di pochi minuti sentii le gambe tremarmi. Dovetti reprimere ogni tipo di paura: in quel momento Emma aveva bisogno di me più che mai, non c’era tempo per farsi prendere da attacchi di panico dell’ultimo minuto.
«Bene, non è il tuo primo parto quindi sai già cosa devi fare», le disse Whale. «È ora di spingere Emma». Lei annuì e fece come le aveva detto il dottore. Mentre spingeva, serrò i denti e strinse la mia mano con tutta la forza che aveva. Questa volta non mi lamentai, il dolore alla mia mano doveva essere solo una minima parte di quello che stava provando lei. Stava per dare alla luce nostra figlia, in un gesto naturale ma che aveva comunque del miracoloso.
«Coraggio amore», le sussurrai tra una spinta e l’altra. Le poggiai le labbra sulla fonte lasciandovi un dolce bacio e le scostai una ciocca di capelli dagli occhi.
«Forza Emma ci siamo quasi», la incoraggiò Whale. «Vedo la testa».
Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata, come se sapesse che di lì a poco avrei vissuto il momento più importante di tutta la mia vita, quello che mi avrebbe cambiato per sempre  facendomi diventare l’uomo che avevo scelto di essere.
«Coraggio un’ultima spinta». Emma strinse più forte la mia mano, anche se non credevo fosse possibile, e usò tutte l’energie che le erano rimaste in quell’ultimo gesto. Poi mentre lei si accasciava sul letto, il pianto di un neonato invase la stanza, mettendo fine alla sua sofferenza e all’inizio alla nostra più grande avventura.
«È una femmina, ma questo lo sapevate già». Non riuscii a vedere subito la bambina perché Whale e l’infermiera si affrettarono a tagliarle il cordone ombelicale e a ripulirla.
Mi voltai allora verso Emma e le passai l’uncino sulla fronte. «Sei stata bravissima amore». Il suo respiro era ancora affannoso, ma si stava pian piano riprendendo. Dopo l’ultima contrazione per espellere la placenta, i suoi occhi si incatenarono ai miei e riuscii a scorgervi la mia stessa commozione. Lentamente lasciò andare la mia mano, in modo tale che potessi muovere le dita e costatare che avevo mantenuto l’uso del mio arto. Le accarezzai una guancia scostandole i capelli bagnati di sudore e le rivolsi un ampio sorriso. Anche le sue labbra si incurvarono in un meraviglioso sorriso, facendomi capire che tutta la rabbia di poco prima era svanita in un soffio.
«Bene». La voce dell’infermiera ci fece voltare. «Ecco a voi vostra figlia». Era in piedi davanti a noi e teneva in mano un fagottino che sembrava davvero troppo piccolo. Lo porse ad Emma che si tirò più su sul letto e lo prese prontamente tra le braccia.
Fu allora che vidi mia figlia per la prima volta e fu allora che me ne innamorai. Non avevo mai creduto ai colpi di fulmine, ma in quel momento dovetti assolutamente ricredermi. Fin dal primo sguardo capii che non avrei mai amato nessun altro come lei e che niente e nessuno avrebbe mai potuto tenermi lontano dalla mia piccola principessa.
«È bellissima», sussurrò Emma commossa almeno quanto me.
«Bellissima è dir poco». Era solo un piccolo fagottino rosa con pochi capelli biondi, ma per noi non ci sarebbe mai stato bambino più bello.
«Come volete chiamarla?», ci chiese il dottor Whale che ci stava osservando insieme all’infermiera.
«Edith», rispose immediatamente Emma, lasciandomi basito. Ne avevamo discusso, ma non avevamo ancora deciso un nome. Non pensavo che lei avrebbe scelto proprio il nome di mia madre.
Il suo sguardo studiò la mia reazione e la mia espressione si addolcì ancora di più. «Grazie».
«Bel nome», commentò il dottore. «Adesso vi lasciamo un attimo da soli. Dovete far conoscenza con vostra figlia». Li fissai andare via e quando la porta della stanza si fu richiusa tornai a fissare la nostra bambina. Mi domandai come avessi potuto distogliere lo sguardo da lei tanto a lungo.
«Ciao Edith», mormorai. Con un dito le accarezzai una guancia delicatamente. Era così morbida; la sua pelle liscia e delicata sembrava così fragile. Ebbi l’istinto naturale di volerla proteggere da qualsiasi cosa avesse mai potuto farle del male.
Al mio tocco la piccola sembrò ridestarsi ed aprì gli occhini, che fin ad allora erano rimasti chiusi. Se non fossi stato già completamente stregato da lei, avrei perso la testa nel momento esatto in cui notai il colore delle sue iridi. Erano così simili alle mie, avevano il colore dell’oceano.
Anche Emma rimase impressionata da quel particolare. «Oh Killian! Ha i tuoi occhi. È davvero perfetta». Era più che perfetta.
«Ciao piccola», continuò Emma cullandola tra le braccia. «Io sono la tua mamma». Ogni timore e ogni paura che lei avesse provato negli ultimi nove mesi era sparito alla vista di nostra figlia. E come sarebbe potuto essere diversamente?
«E questo è il tuo papà», proseguì lanciandomi un sorriso. I suoi occhi erano lucidi e la felicità che stava provando, che entrambi stavamo provando, era palpabile.
«La mia piccola principessa», sussurrai sfiorando la sua piccola gota. Avrei passato ore ad accarezzare la sua pelle vellutata, non mi sarei mai stancato di coccolarla. Edith emise un piccolo gorgoglio e mosse leggermente le manine, come per stiracchiarsi.
«Killian», mi disse Emma dopo un poco, «sono un po’ stanca, perché non la prendi tu in braccio?».
«Io?», balbettai. «Sei sicura?».
«Sì certo, è tua figlia». Era vero, ma sembrava così delicata e non avevo la minima idea di come si tenesse un bambino.
«Non so come prenderla; e se poi le faccio male?». Era ovvio che avrei dovuto imparare, ma ero stato colto alla sprovvista dalla sua richiesta.
«Non le farai del male e poi ti verrà istintivo tenerla nel modo giusto». Il suo sguardo mi diede il coraggio di cui avevo bisogno. Allungai le braccia e solo allora mi ricordai del mio uncino. Feci una smorfia e molto rapidamente me lo tolsi, appoggiandolo sul letto accanto ad Emma. Avrei imparato anche a gestire nostra figlia con quella mia appendice, ma per il momento non volevo rischiare di farle del male.
«Tienile la testa», mi guidò Emma porgendomi la bambina. Con molta attenzione la presi tra le braccia, imitando il modo in cui l’aveva tenuta lei. Mi sorpresi di come mi venisse naturale tenerla nel modo giusto. Il mio cigno aveva avuto ragione fin dall’inizio.
«Ciao principessa, sono il tuo papà». Chi l’avrebbe mai detto che il grande Capitan Uncino potesse ritrovarsi a sussurrare parole sdolcinate ad un neonato?
Passeggiai lungo la stanza cullandola tra le braccia, e innamorandomi ogni istante di più. Quella creaturina era la mia bambina, sangue del mio sangue, il frutto del vero amore, era la mia famiglia.
Mentre camminavo per la stanza, alzai lo sguardo e notai che Emma ci stava guardando con gli occhi lucidi ed un enorme sorriso stampato sulla faccia.
«Che c’è?», le domandai sfoderando il mio sorriso migliore.
«Siete così belli», ammise.
«Oh Swan, mi fai un complimento così apertamente? Questi apprezzamenti spontanei non sono da te», scherzai.
«Sono così felice Killian, come non lo sono mai stata».
«Già, lo sono anch’io». Non riuscivo a ricordare un momento più bello di quello. Avevo vissuto per secoli, ma niente mi aveva reso più felice che il veder finalmente costruita la nostra famiglia. Il mio lieto fine, il nostro lieto fine, cominciava in quel momento. Compresi in quell’istante che la parola “casa” non indicava semplicemente un luogo, ma delle persone. La mia casa era stato Liam sulla Jolly Roger, la mia casa adesso era Storybrooke con Emma, Henry ed Edith. Avevo delle persone per cui avrei dato la vita e che avrebbero fatto altrettanto per me e questo era il migliore lieto fine che potessi mai desiderare.
 
Future time: 19 Aprile 2023
Aprii la porta della camera con una spallata. Portare un vassoio carico di roba con una sola mano ed un uncino si stava dimostrando più difficile di quanto avessi pensato, soprattutto perché avevo rischiato di inciampare un paio di volte in dei giochi lasciati a giro da Edith. Avrei dovuto dirle di rimetterli a posto, almeno prima che se ne accorgesse sua madre.
Richiusi la porta con un calcio e mi voltai a guardare il mio cigno che dormiva profondamente nel nostro letto. La leggera coperta lasciava perfettamente intravedere la forma arrotondata del suo corpo. In effetti la prima cosa che si notava era il pancione, ormai di otto mesi.
Appoggiai il vassoio sul materasso accanto a lei e mi chinai a darle un bacio sulla guancia. Quello era un giorno speciale e volevo che il suo risveglio fosse perfetto.
«Sveglia mia dolce ciambellina», le sussurrai in un orecchio. Emma mugolò in risposta, cominciando a stiracchiarsi.
«È l’ora di svegliarsi tesoro». Le accarezzai una guancia e aspettai che aprisse gli occhi. Quando le sue iridi verdi incrociarono il mio sguardo sul suo volto si disegnò un ampio sorriso.
«Buongiorno», le dissi dandole un bacio sulla fronte.
«’Giorno», biascicò. Si tirò più su, appoggiando la schiena alla testiera del letto e mettendosi a sedere. Con una mano si accarezzò il pancione e con l’altra si stropicciò gli occhi.
«Sbaglio o mi ha chiamato ciambellina?», mi domandò una volta sveglia del tutto.
Sorrisi colpevole e cambiai argomento. «Ti ho portato la colazione a letto. Buon anniversario amore».
«Te lo sei ricordato», sospirò felice. Era il nostro anniversario di matrimonio, come avrei potuto dimenticarlo?
«Certo Swan. È stato uno dei giorni più belli di tutta la mia vita, è ovvio che me lo sia ricordato».
Il suo sorriso si allargò ancora di più. «Bene, buon anniversario anche a te allora. Cosa mi hai portato? Guarda che io e il piccolo stiamo morendo di fame». Mi scostai in modo tale da avvicinarle il vassoio, mostrandole tutto quello che c’era sopra. Da un lato avevo messo un piccolo vaso con delle camelie, uno dei fiori simbolo per noi. Al centro c’era una tazza di cioccolata calda fumante, circondata da una brioche, vari tipi di biscotti, un bicchiere con una spremuta, una tazza con latte e cereali e anche delle fette di pane tostato con la marmellata.
«Mmm Killian, già mi sento una balena, hai intenzione di farmi ingrassare ancora?».
«Beh non è tutto per te. Puoi scegliere ciò che vuoi, io mangerò il resto».
«D’accordo. La cioccolata allora è mia». Non avevo bisogno che me lo dicesse, l’avevo già preparata con la sua solita cannella. Le passai la tazza in modo tale che potesse tenerla stretta tra le mani e in modo tale che potesse vedere anche ciò che vi avevo nascosto dietro: una piccola scatolina blu.
«Oh», mormorò sorpresa.
«Penso che questo sia per te». Le porsi la scatolina lasciando che lei l’aprisse. All’interno c’erano degli orecchini le cui pietre erano disposte a formare il simbolo dell’infinito.
«Sono bellissimi», mormorò osservandoli.
«Questo per indicare l’amore infinito che provo per te». Si allungò per darmi un bacio, rischiando però di far cadere la cioccolata sul letto. Il pancione non le facilitava i movimenti e perciò appariva molto più goffa del solito.
«Attenta tesoro». Afferrai la tazza da sotto in modo tale che non si inclinasse e la baciai dolcemente. Le sue labbra avevano un sapore meraviglioso anche appena sveglia.
«Grazie», sussurrò cercando di rimettersi comoda. «Anch’io ho una sorpresa per te, però non è qui. Dopo andiamo in un posto così potrò mostrartela. Adesso, però, facciamo colazione». Le sue parole mi incuriosirono. Cosa voleva mostrarmi? Cosa poteva avermi regalato? Tutto quello che desideravo era lì e non c’era altro che volessi.
Lasciai perdere per il momento. «Agli ordini mia signora». Le passai la brioche, conoscendo i suoi gusti, e la vidi sorridere soddisfatta prima di bere una sorsata di cioccolata.
 
Un paio d’ore dopo mi ritrovai nel salotto di casa, intento a lamentarmi.
«Non capisco perché dobbiate bendarmi», sbuffai spazientito. Henry, che era a casa per le vacanze di primavera, aveva appena finito di legarmi una sciarpa intorno agli occhi.
«Beh è ovvio: deve essere una sorpresa», rispose Emma, che era seduta sul divano di fronte a me; o almeno lo era l’ultima volta che avevo potuto vedere.
«Anch’io ti ho fatto una sorpresa, ma non ti ho mica bendata», le feci notare.
«Questo è diverso papà», intervenne Edith. Dal tono di voce doveva essere molto vicina a me. «Non devi assolutamente vedere finché non saremo arrivati».
«Così dovrebbe andare», concluse Henry. «Hook quanti sono questi?».
«Che diavolo ne so, non vedo niente».
«Bene questo era il nostro intento». Sbuffai e incrociai le braccia al petto. Sapevo che appena avessi fatto qualche passo avrei perso il senso dell’orientamento, senza contare che sarei andato a sbattere contro qualche mobile.
«E secondo voi come faccio a camminare? Sono come un cieco al momento e la sensazione non mi piace per niente».
«Ti guiderò io papà». Sentii la mano di Edith stringere la mia e strattonarmi con forza in avanti. Feci qualche passo battendo nello spigolo di quello che doveva essere il divano.
«Ahi! Non mi pare un buon inizio Swan, qualunque sia questa sorpresa», mi lamentai ancora.
«Edith fai più attenzione e tu Killian smettila di lagnarti. Sono una donna incinta di otto mesi, ti avverto che è molto pericoloso contraddirmi. Siamo intesi?».
«Sì signora». Emisi un sospiro e mi lasciai guidare fuori da Edith. Per fortuna mi ero già infilato il giubbotto, perché, nonostante fosse aprile, l’aria era piuttosto fresca e pungente.
«Bene papà, adesso dobbiamo salire in macchina». Edith mi tiro per la mano come per farmi segno di abbassarmi.
«Come in macchina? Dobbiamo andare lontano? Emma non avrai mica intenzione di guidare?». Anche se non potevo vedere sapevo che la mia Swan aveva alzato gli occhi al cielo esasperata.
«Dio! Quante domande. Il posto non è lontano, solo, visto che non vuoi farmi stancare, ho pensato che sia meglio andarci col maggiolino. Guiderà Henry».
«Certo sono qui per questo». Mi arresi e mi lasciai aiutare a salire sul sedile posteriore di quell’aggeggio giallo. Avevo a malapena il posto per allungare le gambe, ma non aggiunsi altro sapendo che era inutile: erano tre contro uno.
La macchina si mise in moto e lentamente si mosse sull’asfalto. Se ero disorientato prima, adesso non avevo la minima idea da che parte di Storybrooke mi stessero portando.
«Non vedo l’ora di vedere la tua faccia». Edith si avvicinò a me sul sedile e mi stampò un bacio sulla guancia. Sicuramente quello era il modo giusto per tenermi buono.
«Già anche io», aggiunse Henry. «Hook hai qualche idea?». Ci pensai un attimo, ma la mia mente era completamente vuota. Non avevo la minima idea di ciò che Emma mi avesse regalato e neanche del perché non fosse a casa.
«No», ammisi. «Niente di niente».
«Bene». La voce di Emma era ricca di soddisfazione.
Poco tempo dopo la macchina si fermò e questa volta fu Henry ad aiutarmi ad uscire da quella scatola di metallo. Subito dopo Edith riprese la mia mano ed iniziò a guidarmi, mentre Emma ed Henry ci seguivano. Sentii i loro passi e le loro voci a distanza; lui aveva gentilmente offerto il braccio a sua madre in modo che non si stancasse.
Dato che non potevo vedere, lasciai che gli altri sensi si acuissero. L’odore penetrante di salsedine mi risalì nelle narici, era un odore così famigliare che mi stupii di non averlo scorto prima. Percepii il rumore delle onde che si infrangevano a riva, a confermare la mia ipotesi, e lo sciabordare degli scafi delle navi contro il molo.
«Siamo al porto», affermai.
«Sì», confermò Edith. «Ma non starai mica barando?». Si fermò di colpo lasciandomi la mano, probabilmente per osservarmi.
«No, sento il rumore del mare piccola. Sono un pirata, non potrai mai nascondermi la presenza dell’oceano». Le mie parole dovettero convincerla perché iniziò di nuovo a tirarmi.
«Bene sempre dritto, adesso c’è uno scalino».
«Devo salire o devo scendere?», le domandai.
«Scendere, tre scalini in tutto». Facendo attenzione a mettere i piedi correttamente riuscii a continuare indenne il percorso. Ormai avevo capito che stavamo viaggiando tra le passerelle del porto, ma le mie idee su ciò che mi aspettava erano ancora parecchio confuse; forse più che confuse, erano del tutto inesistenti.
«Eccoci qui! Siamo arrivati», esultò Edith fermandosi all’improvviso. Mi fece voltare da un lato e lasciò andare la mia mano. Presto però le sue dita furono sostituite da altre altrettanto famigliari. Accarezzai con l’indice la sua fede e le passai il dito lungo il palmo, prima di stringere forte la sua mano nella mia.
«Ci siamo Killian. Sei pronto?». La sua voce era ricca di emozione, e probabilmente il suo sguardo doveva essere altrettanto esplicativo.
«Sì penso di sì», mormorai, non sapendo bene cosa aspettarmi. Sentii delle mani, quelle di Henry ovviamente, armeggiare con il nodo della sciarpa fino a quando non cadde completamente via dai miei occhi.
All’inizio fui accecato dal sole che faceva capolino, da dietro le nuvole. Poi riuscii a mettere a fuoco quello che avevo davanti. Di fronte a me c’era ormeggiata una nave; non era grande come la Jolly, ma sicuramente più grande di molte barche comuni. Sembrava moderna e accogliente, una nave che si sarebbe lasciata portare facilmente in qualsiasi situazione.
Sbattei le palpebre perplesso, non riuscendo ancora a mettere insieme tutti i pezzi di quel caotico puzzle.
Emma sembrò capire al volo i miei dubbi e si affrettò a spiegarmi. «Killian ti presento la “Happy Ending”, la tua nuova nave». Boccheggiai a quelle parole non riuscendo ad afferrare la verità che lei stava sostenendo.
«Mi hai regalato una nave?», balbettai, voltandomi a guardarla.
«Beh non sono stata solo io, mi hanno dato una mano anche i miei e Regina. Consideralo anche come un regalo di compleanno anticipato».
«Io…». Tornai a fissare la nave a bocca aperta, non sapendo come fare ad esprimere tutto quello che avevo da dire.
«Certo», continuò lei, «non è la Jolly Roger lo so. Lei sarà per sempre insostituibile, però possiamo vivere dei bei momenti anche su questa. Il nome l’ho scelto io, spero che ti piaccia, mi sembrava azzeccato…». Non la feci finire perché mi fiondai sulle sue labbra, zittendola con un bacio.
«Grazie», sussurrai ad un centimetro dal suo viso, toccandole il pancione con la mano. Il mio sguardo si perse nel suo, riuscendo a comunicare meglio di mille parole.
«Su forza!», ci interruppe Edith. «Saliamo a bordo». Mi voltai verso di lei che saltellava impaziente accanto ad Henry, che invece faceva di tutto per lasciarci la nostra intimità.
«Faccia strada tenente Jones», le dissi afferrando la mano di Emma e guidandola verso la passerella. Lasciai che i ragazzi fossero i primi a salire e mi trattenni controllando che il mio cigno salisse senza problemi a bordo.
Il ponte della nave era molto simile a quello della Jolly anche se più moderno e tirato a lucido. C’erano attrezzature e marchingegni molto più tecnologici, che avevo imparato ad usare negli ultimi anni trascorsi in quel mondo. Scesi sotto coperta e rimasi stupito da costatare che aveva molte più cabine di quanto si potesse immaginare dall’esterno.
«Questa è la cabina del capitano», affermò Emma, apparendo all’improvviso alle mie spalle. «Ti va di darle un’occhiata?». La sua espressione rivelava una certa malizia, non intuibile con solo le sue parole.
«Con molto piacere». Aprii la porta e lasciai che lei mi precedesse nella stanza. Mi soffermai un attimo, prima di chiudere l’uscio, per ascoltare la voce dei ragazzi. Henry ed Edith stavano parlando sul ponte e probabilmente il ragazzo si sarebbe occupato della sorella in modo tale da concederci un momento di completa intimità.
Quando mi fui richiuso la porta alle spalle rimasi sbalordito da quello che vidi. Per un attimo fui catapultato indietro nel tempo; sembrò che non fosse trascorso neanche un mese da quando Emma, incinta di Edith, mi aspettava invitante sulla mia nave. Quella stanza era esattamente identica alla mia cabina sulla Jolly Roger, ed Emma seduta sul letto, rendeva tutto ancora più surreale.
«Ho chiesto a Marco», disse, «di ricostruire questa cabina esattamente come la ricordavo sulla Jolly».
«Wow», riuscii solo a dire.
«Ci sono troppi ricordi legati a quella stanza, non volevo che svanisse nel nulla. Così avrai sempre un pezzo della Jolly anche sulla Happy Ending».
«Come ci sei riuscita?».
«Beh con un po’ di ricordi, di foto, un programma sul computer, molta fatica, ma soprattutto grazie all’aiuto di Edith e di Henry e di tutti quelli che hanno avuto l’onore di entrare nella cabina del capitano».
«Io non ho parole…». Avanzai nella stanza, facendomi strada tra quelli che sembravano i miei vecchi mobili. Emma aveva anche avuto l’accortezza di rimettere tutto ciò che avevamo salvato dall’incendio della Jolly esattamente dove si trovava. Presi in mano la foto, la nostra foto, quella che era stata l’inizio di tutta quella assurda e confusa storia. Non avrei mai trovato un posto migliore dove tenerla: nella mia cabina dove il mio passato aveva incontrato il mio presente e avrebbe accolto il mio futuro.
«È in questa stanza, anche se non è la stessa, che abbiamo concepito Edith, non poteva sparire nel nulla».
Mi voltai verso di lei, non riuscendo ancora ad esprimere tutta la mia gratitudine. Non trovavo le parole adatte per ringraziarla di tutto quello. Era davvero troppo e non avevo fatto niente per meritarlo.
«Saresti sorpreso di quante persone hanno contribuito a rendere la tua espressione in questo momento così magnifica».
«Non l’hanno fatto solo per me», ribattei, «l’hanno fatto per noi, per la nostra famiglia».
«Lo so, ma è grazie a loro che adesso posso ammirare il tuo meraviglioso sorriso. Mi piace così tanto vederti felice».
«Bene», risposi avvicinandomi e sedendomi accanto a lei sul letto, «perché da ora in poi ho intenzione di essere molto felice». Le passai l’uncino sulla guancia facendole voltare la testa verso di me. Notai che aveva indossato i miei orecchini e non potei che sorridere ancora di più.
«Li hai messi?», sussurrai incatenando i miei occhi ai suoi; avrei mai smesso di cadere in quell’immenso prato verde? Mi persi nel suo sguardo riuscendo a comunicarle tutto quello che a parole non riuscivo ad esprimere.
«Certo, avevi qualche dubbio?». Le sue iridi si fecero ancora più chiare, esprimendo a pieno anche la sua felicità.
«Ti amo tantissimo Emma».
«Ti amo tantissimo anche io». Poggiai le mie labbra sulle sue, accarezzando con la mano la sua pancia e il nostro futuro bambino. Approfondii il bacio intrecciando la mia lingua alla sua, con l’unico pensiero che non avrei mai saputo rinunciare a tutto quello. Non sarei più sopravvissuto senza l’amore incondizionato della mia famiglia. Ero stato un marinaio, un fratello, un pirata, un capitano, avevo navigato dove spirava il vento, avevo tradito, ero stato spietato, ma avevo imparato da tempo a scegliere l’uomo che volevo essere. Non volevo essere un eroe, un paladino della giustizia, volevo solo essere un uomo all’altezza di Emma Swan, un uomo che potesse essere amato da lei e che potesse costruire quel lieto fine che stavamo vivendo. Happy Ending era il nome giusto, lieto fine, la mia famiglia. Tutta quella avventura mi aveva fatto capire che il lieto fine non era un punto d’arrivo, non bisognava combattere solo per ottenerlo, bisognava lottare anche per mantenerlo tale.
Mentre le mie labbra erano occupate ad assaporare sempre più a fondo quelle di Emma, quelle che ormai conoscevo così bene, la mia mano accarezzò il suo ventre. Proprio mentre la mia lingua si intrecciava stretta alla sua per l’ennesima volta, sentii un calcetto provenire dal suo pancione.
«Oh», sospirò staccandosi appena da me. «Questo sì che era un calcio».
«Beh mi sembra chiaro», sorrisi. «Al piccolo Liam piace che ti baci in questo modo. Mi sta dicendo “dacci dentro papà”».
Emma scoppiò a ridere, appoggiandosi con la mano al materasso per sorreggersi. Istintivamente portai un braccio dietro la sua schiena in modo tale che potesse appoggiarsi. «O forse ti stava solo dicendo di smetterla e di non passare il limite. Potrebbe essere geloso della sua mamma».
Ci pensai su e poi scossi la testa. «Mi piace più la mia ipotesi», affermai rivolgendole uno sguardo molto esplicativo.
«Peccato che io sia d’accordo con la seconda. Andiamo si staranno chiedendo dove siamo finiti». Si alzò e si diresse verso la porta.
«Che ne dici di fare uscire in mare la Happy Ending? Andiamo capitano, mi piace vederti al timone». Mi alzai anch’io e la seguii di nuovo sul ponte, pronto per intraprendere il nostro nuovo viaggio a bordo del nostro lieto fine.   


Ciao!
Fine, the end, fin. Non posso ancora credere di aver concluso questa storia. So che mi mancherà molto scriverla, ma spero di trovare presto altre idee per scriverne altre.
Devo dirvi che sono molto orgogliosa di questo epilogo, soprattutto dell'ultima parte e soprattutto ora quando questa pausa e questa devastazione mi e ci stanno rovinando. Spero che anche a voi la mia fine sia piaciuta; non poteva che terminare con un lieto fine da entrambe le parti.
Visto che questo è l'ultimo capitolo mi sembra doveroso ringraziare tutti coloro che hanno letto e che sono arrivati fino a qui e chi ha inserito la storia nelle varie categorie. Un GRAZIE enorme va a tutti coloro che hanno recensito (non vi faccio l'elenco perchè ci metterei tre anni): GRAZIE di cuore perchè le vostre parole sono stato uno spunto per nuove idee e una spinta per andare avanti.
Un abbraccio gigantesco!
Sara
  
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