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Autore: Dicembre    12/03/2005    5 recensioni
La favola del Soldatino di Piombo narrata da lui stesso, attraverso i suoi occhi ed i suoi sogni.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dicembre: Preferisco scrivere il commento a questa storia in fondo alla pagina. Credo che sia meglio perchè prima si deve leggere questa storia, per farsi un'idea di cosa sia, e poi leggere le intenzioni dell'autore (che magari erano tutt'altre, oppure le stesse). Scrivendo qui, farei perdere molto al senso di tutto questo. E' giusto però dire che il Soldatino appartiene ad Andersen, se già conoscete la storia, non è necessario leggere l'originale. Se invece non ve la ricordate, un'occhiata potrebbe essere d'aiuto La trovate qui)... Ultima cosa, mi rendo ben conto che questo racconto sia borderline fra fan-fiction e racconto originale, ma è così tanto mio e poco di Andersen che lo ritengo più un racconto senza radici.

Il soldatino di Piombo – Il Sognatore

Nacqui dal fuoco, plasmato dalle sapienti mani di mio padre, presi forma dalle fiamme. O così mi piace pensare.

Narrano le leggende antiche che in questo modo nascevano i draghi, dalle profondità della terra incandescente aspiravano la forza e divenivano possenti e terribili. Ma quelli sono tempi passati, tempi in cui gli eroi brandivano le loro spade ed inseguivano il Sole, padre di queste bestie così terrificanti e così affascinanti. Io sono figlio di altri tempi, sono il figlio del presente, dove i draghi si sono estinti e dove gli eroi sono ormai lontani. Nonostante questo, però, nonostante non abbia mai tratto la forza dal fuoco, brandisco con coraggio il mio moschetto, stretto nelle mie dita di ferro. Lui è sempre al mio fianco, perché il mio spirito di soldato non s’è mai sopito, sin da quando sono nato è stato il mio orgoglio, e quello di mio padre.

Ultimogenito di mille fratelli, il mio creatore mi forgiò con la più minuziosa attenzione. Vedevo le sue mani tremare leggermente, ma quando afferrava gli attrezzi, la sicurezza con la quale mi dava forma e vita, è una cosa che non potrò mai dimenticare. E non dimenticherò mai i suoi occhi, cristalli opachi che mi hanno insegnato a piangere. Perché sì, è grazie a mia padre che ora ho un anima, è grazie a lui che ho un cuore ed è grazie a lui che ora sono un sognatore e parlo con le stelle chiamandole per nome e mi faccio narrare le loro favole antiche.
Era il giorno della mia nascita, guardavo il mondo con gli occhi sbarrati e cercavo di capire quello che mi circondava, ma niente aveva senso per un piccolo soldatino di piombo appena nato che non si sapeva reggere in piedi perché la sua gamba, la sua unica gamba non riusciva a sostenerlo. I miei fratelli ridevano, nelle loro alte uniformi già vestiti a festa, già colorati per la nuova vita, io traballavo e cercavo aiuto che mi diede il mio papà.
Mi prese e si asciugò una lacrima che gli stava cadendo dagli occhi, in quell’officina fumante. Mi accarezzò la testa con lo stesso dito e la sua lacrima mi rese così felice e triste, allo stesso tempo, che venne voglia di piangere anche a me, di abbracciarlo e di dirgli che tutto andava bene, che io ero contento, che non m’importava della mia gamba, ma che ero felice. Riuscì solo a sorridergli, con quel sorriso che lui stesso m’aveva disegnato.
Mio padre mi costruì un piedistallo sul quale stare in piedi e ergermi fiero.

E quella fierezza me la portai dietro quando fui venduto. Poco prima di lasciare la casa del mio unico genitore, la guardai per l’ultima volta e la dipinsi nella mia mente. Mai potrò dimenticare quel luogo o il suo abitante, che prima di chiudermi nella scatola insieme ai miei fratelli, ci guardò per l’ultima volta. Mi aveva messo in fondo alla fila, ci aveva allineati per nascita, così quando il bambino, il nostro nuovo padrone venne a prenderci e guardò, nel negozio, il suo regalo, non mi vide, ma io lo sentì

- Mamma, guarda come sono belli! - Esclamò il bambino saltellando dalla gioia, e la signora Mamma accontento il bambino che ci portò a casa trionfante.
Fu poco dopo che entrai nella reggia del mio nuovo capo, un’immensa distesa di luci e un terreno morbido, per terra, dove potersi esercitare. C’era anche un camino, nella mia nuova casa, piccolo rispetto a quello di mio padre, ma famigliare in qualche modo, con alte fiamme che riscaldavano l’ambiente.

E fu allora che la vidi, appena entrato a casa, appena disposto sul tappeto, vidi lei, una Ballerina, la mia signora.
Vestita di un bianco etereo, aveva capelli biondi raccolti in due trecce che le incorniciavano il viso. Guardava verso il laghetto nei suoi pressi, specchio si stagno, limpido come il cristallo di quella dama.
Mio padre, forse, quando mi fece dono della sua lacrima, voleva proprio questo, farmi capire cosa fosse il bello. E io che contemplo le stelle ogni notte, come potevo non paragonarle a lei?
Non capii se mi vide, ma mi parve che ritrasse lo sguardo, pudica e che le sue gote si stemperassero di rosso. Volevo parlarle, volevo conoscere quell’animo che mi pareva così solo e malinconico, ma al contempo così dolce… e avrei potuto farlo solo di notte, quando il mio padrone sarebbe andato a riposare. Io avrei parlato con la mia Ballerina e le avrei chiesti di ballare con me. La notte calò, su quel primo giorno nella nostra nuova dimora

-Mia dolce fanciulla, chi siete?- bisbigliai, ma lei non rispose. Impegnata com’era a mantenere quella posizione di cigno su una gamba sola, tentai di avvicinarmi a lei e ancora le parlai

- Siete forse un angelo? – la luce della luna si rifletteva sul suo viso pallido e mi parve di scorgere un piccolo sorriso su quelle labbra di pesca. Carta, il suo leggero corpo era fatto di carta, che quella luce eterea mi fece apparire avorio, così perfetto.

La brezza della sera accompagnava questo mio osservare quella creatura così vicina a me, ma al contempo così lontana, irraggiungibile per la mia gamba di piombo, dura e immobile. Tentai quindi di protenderle la mano, raggiungerla e accarezzarla, ma d’improvviso la finestra della stanza s’aprì e fummo investiti da un leggero vento. Non c’era soffio d’aria che poteva intimorirmi, saldo e fisso sul terreno, niente avrebbe potuto smuovermi, ma vidi la mia Ballerina tremare, impallidire. Le sue labbra non persero il loro bel sorriso, lei così padrona del suo ruolo che non poteva lasciarsi andare, ma il cuore d’un uomo sa bene quando quello della sua amata è colto dal terrore. Percepisce ogni suo minimo battito e sussulto, e i suoi battiti divennero i miei, la sua paura divenne un mio fardello. Per proteggere la mia signora dal vento, presi sulle mie spalle quella richiesta d’aiuto e iniziai a cantare. Cantavo per lei, cantavo al vento per farlo smettere di soffiare e cantavo dell’amore che m’era stato donato e che permeava il mio cuore di metallo
Nulla era importante, oramai, se non la serenità di lei, e anche quando intrecciato alle note che io stesso pronunciavo, caddi per terra, non smisi di cantare, perché sapevo che la mia dama aveva bisogno di me.
Il vento si quietò, e la luna, coi suoi raggi, riprese ad accarezzare la Ballerina, sfiorandola e adulandola, per poi nascondersi fra i suoi capelli di carta e perdersi in quella bellezza che pure lei ammirava.

La luna diede spazio al sole e fu così che il mio nuovo padrone mi trovò, riverso a terra, provato ma felice. E allora mi appoggio su quello stesso davanzale che la notte prima aveva permesso al vento d’entrare, ma che ora veniva scaldato da raggi dorati.
Da dov’ero, facevo fatica a vedere la mia Ballerina, che era quasi alle mie spalle, e il mio cuore ne soffrì. Mi augurai che stava bene, che i timori della notte fossero stati dissipati con la luce. Volevo vederla, volevo assicurarmi personalmente che tutto fosse a posto e fu lei allora rassicurare il mio animo. Un raggio di luce giocherellone, mi colpì alle spalle, vile. Ma non mi arrabbiai perché era il riflesso dello stagno della mia signora. Era un messaggero che mi portava conforto e la certezza che il cuore della mia Ballerina fosse ricolmo d’amore.

Il vento, però, invidioso della mia vittoria la sera precedente, raccolse le sue forse e per vendetta, soffiò così forte che caddi. Distratto com’ero dal raggio di sole, non mi accorsi del tuo attacco e persi subito l’equilibrio. Nel cadere, pensai con rammarico che fosse finita, che non avrei mai più visto la mia ballerina, ma non chiusi gli occhi. Non diedi questa soddisfazione al vento che m’aveva colto di sorpresa. Con mia grande meraviglia, però, il mio moschetto s’infilò nel terreno e mi salvò. Rimasi impiantato per terra a testa in giù e sorrisi. Guardare il mondo da laggiù era buffo, e farsi beffe del vento mi rallegrava.

Se non che, due tizi che non conoscevo mi raccolsero

-Signori, siate comprensivi, riportatemi nella mia casa- ma il rumore delle carrozze e gli zoccoli dei cavalli coprirono le mie parole sussurrate e dette a denti stretti. Avrei voluto gridare, ma ahimè, non ne avevo la voce.

Credo che i signori non mi volessero male, ma penso anche che fossero ignoranti in faccende di guerra, perché mi scambiarono per un marinaio!
Inaudito, io col mio moschetto al fianco, la mia divisa rossa e blu, come potevo essere un marinaio? Eppure mi ritrovai su una barca, fra le rapide di un fiume. Bontà loro, i signori probabilmente m’avevano portato e messo quassù in buona fede, pensando che fossi davvero un marinaio di qualche paese lontano, non me la presi con loro perché in fondo, il loro gesto fu d’estrema cortesia. Ma non posso negare che non conoscevo per niente la vita di mare e quando la nave sulla quale ero iniziò a tremare prima e ad affondare poi, pensavo fosse giunta la mia ora.
Addio mia Ballerina, pensavo, il mio corpo non può galleggiare nell’acqua, mio padre non m’ha mai insegnato a nuotare e io affondo, in questo mare lontano, distante da voi e dal vostro sorriso che porterò con me, ovunque il mio cuore di piombo sia destinato ad andare.

E tutto fu buio.

Un timido raggio prima, e un dolore intenso poi, mi riportarono in questo mando che non m’aveva dimenticato. Dei del cielo, sono quindi forse ancora vivo? Una donna, quando mi vide, lanciò un urlo

-Venite a vedere!- Le loro facce erano sbigottite. Così come lo fu la mia quando riconobbi la casa in cui ero

-Signorino, signorino, guardi cos’ho trovato nello stomaco di questo luccio

E vidi il mio padrone correre verso di me e afferrarmi, felice, entusiasta di avermi ritrovato. Ne rimasi sinceramente commosso, il bambino che m’aveva acquistato, mi voleva bene.
Preso dall’euforia contagiosa del fanciullo, sorrisi anch’io e agitai le mie dita incastrate sopra il moschetto. Il bimbo mi appoggiò sul tappeto insieme agli altri miei fratelli, in mezzo ad un’esercitazione per affrontare il nemico. Tuttavia, la superficie sulla quale ero stato messo, non s’adattava al mio piedistallo, che era troppo largo perché io potessi marciare in ranghi serrati. Questo però, non face spazientire il mio padrone anzi, mi fece il dono più grande che mi potesse dare: mi appoggiò di fianco alla mia Ballerina.
Piangevo di gioia, le mie lacrime mi bagnavano il viso e permeavano i vestiti, guardavo quell’angelo vestito da cigno e le confessai il mio amore, fra le lacrime di una gioia che non riuscivo più a controllare

-Guarda come s’è ridotto, quel soldatino, nello stomaco del luccio, tutto inzaccherato dei succhi del pesce, levalo subito di lì!

Furono le parole che disse la madre al mio padrone, parole che io non sentii bene tanto ero confuso e innamorato della fanciulla che avevo di fronte e che arrossiva alle mie parole.
La madre mi prese e mi appoggiò nel fuoco, forse perché voleva ridarmi la gamba e forgiarla per permettermi di combattere al fianco dei miei fratelli.
Faceva caldo, ma io non avevo paura, se i draghi nascevano dal fuoco, allora anche io ne avrei tratto forza.
Faceva caldo, ma i miei occhi continuavano a guardare la Ballerina che ballava per me e non smetteva, creatura incantata
Faceva caldo e protesi le braccia verso di lei, avrei voluto darle un bacio, ma le mie braccia non c’erano più. Avevo solo a testa, ormai, e gli occhi per guardare il mio amore preoccuparsi per me. E avevo ancora il mio cuore che mi ha reso ciò che sono e che mi fa sognare.
Faceva caldo ed io avevo sonno…

D’improvviso, la porta nella stanza s’aprì e una folata di vento scaraventò la mia Ballerina verso me e prese fuoco. Una fiammata alta, per darmi forza, un gesto d’amore per rimanermi vicino, anche quando stavo per morire.
Mia dolce Ballerina, rimani fra le mie braccia di cenere e non mi lasciare, perché solo così io sogno, e sono felice.

*** Fine ***

Due Parole... In realtà, l'intento iniziale era quello di creare un personaggio che vive la realtà a modo proprio, dove tutto quello che racconta non accade. Ho volutamente lasciato molte frasi aperte all'interpretazione del singolo (la lacrima del padre è dovuta al fumo dell'officina? La ballerina lo sente? E così via...).
La difficoltà stava nel creare un personaggio schizofrenico, quando il racconto è solo dal suo punto di vista. Non avevo quindi, appigli "sani" per fare capire che la realtà era diversa da quella presentata dal Soldatino (a cui per altro, voglio un bene dell'anima). Non è importante quante delle sfumature che ho voluto dare al racconto siano state colte, l'importante è che qualche d'una non sia passata inosservata.
Infine, la lingua usata è volutamente un misto fra ingenuità e cultura. Il Soldatino è un essere tenero, ma sciocco. E questa rimane pur sempre una favola.

  
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