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Autore: madelifje    18/12/2015    0 recensioni
Kajdena sapeva che non avrebbe dovuto lasciarsi coinvolgere. Una ladra balbuziente esiliata dal popolo ignjs non è fatta per questo genere di cose. La sua vita era già abbastanza miserabile anche senza le spie, i pirati, le leggende, i complotti, le maledizioni, le profezie scomode, le alleanze discutibili e gli omicidi.
Avrebbe dovuto scappare quando ancora poteva farlo.
Prima di finire nel posto sbagliato al momento sbagliato, cercando di scappare dalle schiere della Caccia Selvaggia.
Prima che la sua migliore amica ricevesse l'avvertimento che le avrebbe cambiato la vita.
Prima che uno degli otto consiglieri venisse brutalmente ucciso e Alles finisse sull'orlo della guerra.
Prima, perché adesso è tardi.
-
«Un uomo mi ha seguita, oggi. Come faccio a sapere che non l’hai mandato tu?»
«Lo sai e basta», disse Nioclàs con un sorriso. E il lampo di paura che attraversò gli occhi di quella ragazzina bionda glielo confermò.
-
Kaj deglutì, chiamando a raccolta tutto il poco coraggio che possedeva. La situazione era anche più assurda del previsto. Doveva fuggire, possibilmente in fretta. Perdi tempo
«Q-quest’agenzia non ha un n-nome?»
«Ce l’ha», disse pacatamente Occhi Verdi, «"Agenzia"».
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono viva! 
Reduce da un periodo infernale, ma viva. Probabilmente vi siete dimenticati di Salus, oppure speravate di non doverla incontrare mai più. 
È un capitolo meno cupo del precedente, anche se non meno lungo ahaha 
Ricompaiono personaggi che non si vedevano da un po' e si scoprono cose in più su quelli nuovi. Spero che non sia troppo confusionario
Ditemi cosa ne pensate, è la prima volta che mi cimento in una cosa del genere!
madelifje




 


Capitolo cinque – Marchi visibili e invisibili

 
 
Questa notte è avvenuto un tremendo fatto senza precedenti.
Verso le dodici è stato brutalmente assassinato il nostro consigliere della Terra Crèhl, cor Niall.
Temo che Alles stia inesorabilmente andando incontro alla guerra. Che gli dei ci aiutino.

- dagli annali della Torre dei Consiglieri, a cura dell’Intendente Vladjmjr Tavic
 
 



C’erano giorni in cui a Kaj sembrava ancora di percepire il marchio ignjs tatuato sul collo. Ricordava quanto sembrasse ruvido al tatto e quanto fosse effettivamente rigido, quando provava a piegare il collo da quella parte. I giorni successivi alla cerimonia non aveva fatto altro che toccarlo, saggiando la resistenza dell’inchiostro nero alle sue unghie. Ne era maledettamente fiera. La fiamma stilizzata degli ignjs era il migliore dei marchi, poco ma sicuro, Dilara poteva anche tenersi le onde dei laekur. I capelli corvini non avrebbero mai coperto il tatuaggio, voleva che tutta Alles vedesse.
E poi l’avevano bandita.
Nessuno diceva mai ai bambini quanto fosse dolorosa la procedura di decolorazione del marchio. Forse avrebbero dovuto, in una sorta di azione preventiva. Ci passava sopra i polpastrelli e non sentiva niente, la sua pelle era tornata morbida come prima, era rimasta solo un’ombra grigia che gridava a tutti la sua condanna. Aveva iniziato a coprirsi, ad avere paura di raccogliere i capelli, a sentire costantemente su di sé lo sguardo accusatore di tutti, anche quando sapeva benissimo che non potevano riconoscerla.
Kaj era stata una persona completamente diversa, prima.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per un nuovo tatuaggio. Per assurdo, il dio Vulkan l’aveva accontentata.
Il simbolo di Peryth era leggermente in rilievo. Il suo nero intenso spiccava sulla carnagione lattea di Kaj come un corvo sulla neve. Si chiese se ci fosse un modo per sbarazzarsene.
Il treno fermò alla stazione Ambra. Un uomo in piedi vicino a lei si spostò per lasciar passare una vecchia e buttò casualmente gli occhi sul braccio di Kaj, che lei si stava sfiorando. Con nonchalance, la ragazza tirò la manica un po’ più giù.
Avrebbe capito? Quell’uomo era salito alla Colluvies esattamente come lei, poteva anche non essere completamente estraneo alle maledizioni. In ogni caso cosa avrebbe potuto fare, chiamare i soldati? L’avrebbero tempestata di domande, costringendola a raccontare tutta la faccenda e facendo sì che arrivasse tardi al lavoro. La reazione del direttore Cole sarebbe stata violenta.
Come diavolo faceva a scherzarci su? Aveva solo due alternative: diventare uno dei mostri del mondo di sotto o morire. Punto. Niente lieto fine, per la Bandita della Terra Ignjs. Non sapeva nemmeno perché non le avessero piantato direttamente una pallottola nel cranio, invece di prolungare all’infinito questa agonia.
Si alzò in piedi un secondo prima che le porte si aprissero sulla stazione di Ellerton Lane.
 
***
 
Cora Rosaleen non ricordava di aver mai preso parte a tre concili in tre giorni. Capiva il terrore dell’Intendente, davvero, ma nessuno credeva più che in quella maniera sarebbero riusciti a risolvere qualcosa. Era il terzo giorno dalla morte di cor Veigar dalla Terra Laekur e la notizia non era stata ancora resa pubblica. Rosaleen capiva anche questo: in tutta la storia di Alles, era la seconda volta che accadeva un fatto simile. La precedente era avvenuta appena quattro mesi prima dello scoppio della Grande Guerra; diffondere una simile notizia avrebbe sicuramente scatenato il panico. Ovviamente gli abitanti di Alles sarebbero stati informati, ma non prima che il colpevole fosse saltato fuori. Peccato che tutti stessero prendendo un grandissimo abbaglio.
«Jalena è stata l’ultima persona a essere vista con… Veigar… mentre lui era ancora… Poi è sparita per ore e perché, per Kona, a nessuno è venuto in mente di interrogarla?» Cora Eyros dalla Terra Laekur aveva posto la medesima domanda anche nelle due sedute precedenti, sempre senza ottenere risposta. Eppure era ovvio. Jalena era una cora e l’Intendente un vigliacco. Ecco la spiegazione. Non che Rosaleen incolpasse davvero la povera Jalena. Quando era stata informata della morte di Veigar, un solo nome mancava all’appello. Il nome di qualcuno che lei, quella notte stessa, aveva visto.
«Senan, ci stiamo sbagliando», disse all’amico.
Fu attenta a sussurrare, in modo che la sua voce non rimbombasse nella sala circolare. L’Intendente sedeva al centro, nello scranno più basso, e godeva di un ottimo udito.
«Ho incontrato Galion quella sera. Scendeva le scale e si comportava in modo stano. Casualmente, dopo non s’è più visto. Credi che sia stata una coincidenza?»
Senan le afferrò un avambraccio. «Per dio, Leen, già che ci sei alzati e diglielo in faccia!»
L’elfo sedeva un paio di scranni sotto di loro, qualche metro alla destra di Sennan. Era l’unico della sua fila e, come al solito, non aveva emesso suono.
Rosaleen fulminò il suo compagno con lo sguardo. «Non mentire, neanche tu ti fidi di lui. Mi ha detto che quella notte sarebbe successo qualcosa di terribile. Come lo saprebbe, se fosse innocente?»
«Preveggenza? Lo sa solo il dio Carrày, che poteri abbia quell’elfo». Rosaleen voleva chiedere per quale motivo allora non si fosse più fatto vedere, ma i toni sempre più alti di Eyros glielo impedirono.
«Cor Veigar merita giustizia!» stava dicendo.
Poverina. Leen non riusciva nemmeno a immaginare come si sarebbe sentita se fosse successo qualcosa a Senan. Eyros era stata allontanata da casa a dodici anni, come tutti loro, dopo essere stata segnalata come possibile candidata dagli insegnanti dell’accademia. Aveva raggiunto Frey insieme a due bambini e una bambina laekur, venendo poi accoppiata a Veigar tramite dei test. Erano cresciuti insieme, erano stati eletti insieme, avevano pronunciato all’unisono i fatidici giuramenti. Insieme avevano rinunciato all’amore e a futuri figli. Insieme avevano abbandonato la propria casa, la propria terra e il proprio cognome per i titoli di cor e cora. Veigar, il legame con la sua terra, il suo migliore amico, era morto.
«Ha ragione, cora, ma non possiamo improvvisarci esperti in faccende del genere». A parlare era stato il generale Noymerin, l’uomo ignjs che comandava le truppe dei guardiani della Torre.
«Allora cosa facciamo? Non possiamo informare i soldati», obiettò cor Aryun dalla Terra Vaya.
«Cora Eyros, mia signora», l’Intendente tossì. «Qual era il nome dell’altro possibile consigliere, il ragazzino che fu scelto insieme a lei?»
«Maelor Lisson», soffiò.
«Sia contattato. Ormai è lui il cor di diritto».
«Era Veigar il cor di diritto». E nessuno seppe cosa rispondere. «Voglio solo che sia fatta giustizia».
Ma una Terra doveva avere due consiglieri. Sempre. Rosaleen tenne a lungo lo sguardo su Galion, prima di sentire se stessa dire «Richiediamo l’intervento dell’Agenzia».
«Possiamo fidarci?», domandò Noymerin.
Rosaleen sapeva che Eyros la stava guardando. Lo sentiva. Si erano sempre trattate con educazione, in tutti quegli anni, senza mai concedersi troppa confidenza. Non sapeva nemmeno se ci fosse davvero fiducia nel loro rapporto, non fino a quel punto. La morte di Veigar, tuttavia, era un fatto troppo grave per perdere tempo con simili sciocchezze.
«Sì. So a chi chiedere, generale».
Tutti annuirono. «E sia», disse cora Eyros.
 
 
***
 
Il suo mentore all’Ordine dei senka plesak soleva dire che il coraggio si manifesta in svariati modi: non è la spada a fare l’eroe. Kaj ricordava allenamenti durante i quali aveva combattuto con le mani legate dietro la schiena, oppure bendata; situazioni in cui aveva davvero guardato la morte in faccia ed era stata costretta a lottare con le unghie e con i denti per uscirne viva. A diciotto anni aveva assaggiato il sapore della paura molte volte.
Eppure mai, mai, un terrore così sordo, irrazionale, animalesco.
Kaj aveva creduto nei senka plesak. In fondo lo faceva ancora. Prima che cadesse tutto a pezzi, era convinta che quella fosse la sua strada. Non era la più dotata dei cadetti, gli esercizi non le riuscivano con facilità, ma era evidente che ci stesse mettendo l’anima. I compiti che le venivano affidati erano un onore, seppur pericolosi, un modo per servire l’Ordine con tutta se stessa e rendere fiero il mentore. Aveva avuto paura, sempre, anche con la felicità che accompagnava ogni singolo livido.
Adesso Kaj non aveva un compito, stava semplicemente morendo.
“Non c’è cura”, aveva detto Nicodemus, "morirai"; perfino il direttore Cole si era impietosito e le aveva concesso la bellezza di  un giorno di riposo.
Lambert le aveva dato una pacca sulla spalla.
Kaj era arrivata alla Colluvies e si era seduta sul divano di casa sua. Non avrebbe saputo dire cosa fosse successo in quelle ventiquattr’ore, ricordava solo di essersi alzata per prendere un po’ d’acqua, poi un ammasso di immagini confuse e di suoni, come se parte di un sogno. Non aveva certo avuto modo di riposarsi. Il sole aveva completato il solito ciclo e lei stava tornando alla base di Ellerton Lane.
«Ci vediamo dopodomani».
«Sì, capo».
“Passerai il tempo che ti resta a servire Alles, non hai molta scelta”.
Quelle parole non dette bastavano a far tremare le gambe di Kaj anche al solo pensiero di rimettere piede là dentro. Però eccola lì, a trascinare i piedi sul pavimento lucido della stazione. Eccola spingere la porta della base. Eccola portare avanti quella messinscena che era diventata la sua vita.
Aveva salutato Simon. Si era fermata a scambiare due chiacchiere con Raavi, che era riuscito a non fare domande circa il suo stato di salute. Klaus non s’era visto, mentre la presenza di Lambert era fin troppo evidente. Pareva essere inchiodato alla scrivania, la nuca rivolta verso di lei, con la schiena che sembrava irradiare una sorta di campo di forza. Kaj dovette fare uno sforzo fisico per non avvicinarsi.
«Il capo dice che gli serve il tuo rapporto», la avvisò Simon. Lambert si accorse della sua presenza e ruotò lievemente la testa. No, non doveva vederla. Non doveva parlarle. Non doveva assolutamente pensare che andasse tutto bene.
«M-me ne o-o-occupo subito». Sono anni che non balbetti così tanto, ci hai fatto caso?
«Glielo d-darò per p-pranzo».
Invece andò in palestra.
 
 
«Patti chiari e amicizia lunga, Kajdena: ti trovi nel bel mezzo del mio rifugio».
Kaj l’aveva vagamente sentito arrivare. Avrebbe voluto suggerire a Klaus di mettere un lucchetto alla porta, già che c’era, ma la base era frequentata principalmente da individui che avrebbero saputo scassinarlo a occhi chiusi. Non era il caso.
«C-credevo fosse pubblica», obiettò. Il laekur l’aveva sorpresa nel bel mezzo di un affondo. Era ancora in quella posizione, gli occhi fissi sul sacco da boxe, quindi non aveva idea di cosa Klaus stesse facendo.
«Quella grande è di tutti, qua vengo solo io. Gli altri dicono che sia una “fonte di distrazione” o qualcosa del genere». Probabilmente alludeva alle grandi pareti a vetrata che davano sul fondo del lago Ellerton. In quel caso, sarebbe stato comprensibile.
«I senka p-plesak si allenano in stanze a m-mosaici colorati. Un danzatore deve imparare a-a non distrarsi m-mai». “Spesso gli occhi stanno dalla parte dei nostri nemici. Per questo dobbiamo saperli ingannare. Devi poterti fidare dei tuoi sensi, cadetto”.
Quella risposta sembrò soddisfare Klaus. Buttò a terra la sacca e stappò una bottiglia d’acqua. «Purtroppo questo rimane il mio rifugio».
«Q-quindi non ti manda L-lambert? Mandalo a c-cagare, se lo vedi».
Ripose il pugnale nel fodero e si sedette. Klaus la guardava divertito, facendole venire voglia di togliergli quel sorrisetto a suon di pugni.
«Se può consolarti, lo faccio già di mio. E no, non mi manda lui. È probabile che non si sia neanche accorto che te la sei presa». Sembrava che il pensiero lo facesse ridere. Le si sedette di fronte, incrociando le gambe.
«Tu sì?»
Inarcò il sopracciglio. «Mi ha raccontato brevemente cos’è successo. Al tuo posto chiunque si sarebbe incazzato, Lambert però proprio non ci arriva. Sprechi il tuo tempo, Kajdena».
«Lui era disposto a lasciarmi m-morire pur di a-arrestare un pirata. Non hai visto come mi ha g-guardato, Klaus, ha davvero riflettuto attentamente sulla p-proposta e tu mi dici che non dovrei p-prendermela?». Klaus la guardò con qualcosa di maledettamente simile alla pena e Kaj desiderò ardentemente di poterlo picchiare.
«Aye. A Lambert Kane importa solo di Lambert Kane. Lascialo perdere».
«Oh d-dèi, strano. C-credevo fosse t-tuo amico».
Ogni tipo di sorriso scomparve dal volto pallido di Klaus. «Lo è. Non credo però che questi siano affari tuoi».
Un ipocrita, come tutti i laekur. «P-però sono affari tuoi se i-io mi arrabbio con lui? L-logico».
Klaus si alzò di scatto e marciò verso la porta. «Sai», disse senza voltarsi, «Raavi mi ha raccomandato di essere accondiscendente con te, ma non credevo fosse giusto. Adesso ho cambiato idea: scivola pure nell’autocommiserazione e incolpa gli altri, se vuoi, sappi però che ti credevo diversa».
Qualcosa scattò dentro di Kaj. Se sul suo braccio non ci fosse stato Peryth, forse avrebbe lasciato correre. Purtroppo per Klaus, non era una giornata sì. Il ragazzo aveva già una mano sulla maniglia quando si ritrovò la manica inchiodata al legno della porta. Per un po’ si sentì solo il vibrare del pugnale di Kaj, ben incastrato tra le venature, poi la ragazza si alzò e andò a riprenderselo. «Scusa, Valrosson. Mi è scappato», disse, orgogliosa di non aver balbettato. Staccò il pugnale dalla porta e lo infilò nel fodero. Klaus parlò con lentezza. «Potevi colpirmi», fece notare. «No. Non colpisco m-mai». Non aveva ancora ferito nessuno con il pugnale di suo padre, non vedeva perché iniziare con quel laekur.
Si era aspettata un insulto, una sfuriata con tanto di uscita plateale. Invece, Klaus si mosse rapido come un’aquila: immobilizzò il polso destro di Kaj con una mano e agguantò il manico del suo pugnale con l’altra. Un momento dopo glielo stava puntando alla gola.
«S-sei pazzo?»
«No. Fammi vedere come combatte uno di quei senka plesak».
 
***
 
«Signore? Il suo Caro Amico è qui per vederla». Era in ritardo. A Caser i ritardatari non erano mai piaciuti e col passare del tempo era addirittura peggiorato. Si celava qualcosa dietro il ritardo dell’Amico? O era solo mancanza di organizzazione? Caser poteva davvero permettersi di sottovalutarlo?
La risposta probabilmente sarebbe stata no, ma quel giorno non aveva le forze di indagare: i rimedi contro l’emicrania non avevano funzionato e sembrava che la testa gli si stesse spaccando in due. In più, era da quella mattina che un fastidioso ticchettio lo disturbava e Caser non riusciva a capire da dove venisse. Aveva chiesto agli adepti, che sostenevano di non sentire nulla. Si era dunque arrangiato da sé, senza però trovare niente. Stava forse impazzendo?
Il Caro Amico entrò nello studio. Pronunciò le parole di rito, raddrizzò la schiena e chiese come mai la luce fosse spenta. Caser rispose di lasciarla com’era; per caso sentiva un ticchettio? No? Allora poteva passare subito al punto, preferibilmente in fretta. L’altro iniziò a parlare con calma, soffermandosi sugli avvenimenti degli ultimi giorni senza mai indugiare. Fu assurdamente dettagliato e impersonale, come al solito. Caser si era interrogato spesso in proposito, turbato soprattutto dalla totale mancanza di sentimenti. Si chiedeva come fosse possibile, se fosse saggio affidarsi a lui per un compito tanto importante? In passato gli era tornato utile e non l’aveva mai tradito, era innegabile, ma ormai non si sentiva più in grado di reggere altre cattive notizie. Sentendo crescere un forte senso di nausea, congedò quasi subito il Caro Amico e chiese affinché gli mandassero Aracnide.
 
Al solito, la Tessitrice aspettava già fuori dalla porta. Caser allontanò leggermente la sedia dal tavolo.
«Servio ut intellegam».
«Sectaris ut servaris, Aracnide». Ogni volta che qualcuno pronunciava la foruma di saluto dell’Hawk, Caser si sentiva lievemente meglio. Era come musica, denso di significato e grondante tutto ciò in cui lui credeva. Aveva un effetto positivo anche se a recitarlo era qualcuno come Aracnide.
I capelli magenta ricadevano scalati poco più su delle spalle. La pelle era perfino più incolore di come Caser la ricordava, tanto da tendere quasi al grigio.  Aspettò che iniziasse il rapporto che le aveva richiesto, invece lei indugiava. Gli occhi scurissimi erano ancora inchiodati sulla porta.
«Non mi fido», disse infine.
«Del nostro Caro Amico?» Aracnide che parlava di fiducia, quella sì che era bella. La Tessitrice annuì.
«Pensi che non creda negli ideali dell’Hawk? È questo che stai insinuando?»
«No, signore, penso che ci creda troppo».
Quindi se n’era accorta anche lei.
«Finché avrà qualcosa da perdere, Aracnide, non ci tradirà. Mi addolora non poter dire lo stesso di te». Questo sembrò scatenare un minimo di reazione. Gli occhi scuri saettarono su di lui, tradendo un lampo di pura antipatia. Caser non voleva piacerle. Aracnide era la più importante tra i suoi alleati, sarebbe stato uno sciocco a sottovalutarla, la simpatia era l’ultima cosa che desiderava da lei. No, a Caser bastava il rispetto. Il timore. Sapeva di avere entrambi, almeno in parte.
«Parlami dell’Isola di Iride e del Monastero».
«Una notizia buona e una cattiva, signore».
«Sentiamo».
«La notizia buona è che abbiamo un nuovo paio di occhi e orecchie al Monastero. Qualcuno di molto vicino alla Somma Sacerdotessa Airlis. Quella cattiva è che gli altri hanno trovato la laekur prima di noi. Pare si trovi a Frey».
Non andava bene, per niente.
«Ci hanno risparmiato un po’ di fatica. Adesso dovremo mobilitarci prima che tentino di farle lasciare la città. Perché lo faranno, come ben sai».
«Certamente. Temo anche che avverrà presto, signore, hanno mandato quel Nioclàs». Caser dovette trattenere un’imprecazione.
«I tuoi contatti nella città autonoma non ne sanno niente?»
«No. Parlano solo di uno certo movimento nella Torre dei Consiglieri. Qualcosa di grave, anche se non hanno ancora rilasciato nessuna comunicazione».
C’erano cose che Aracnide sapeva ma non gli riferiva. Avrebbe potuto giurarci. Avrebbe tanto voluto poter fare a meno di lei.
«Andrai a Frey. Cerca di scoprire il più possibile sulla Torre, non tornare senza notizie. Pare che l’Agenzia abbia una Mara’el». Questo la sorprese. Caser non condivise tutti i dettagli che il Caro Amico gli aveva fornito, solo le informazioni più essenziali. Era certo che Aracnide avrebbe capito l’importanza della questione, infatti così fu. Sarebbe partita quella notte stessa.
Non attese un suo congedo e mosse qualche passo verso la porta. Arrivata quasi alla soglia, si fermò.
«Signore? Cos’è questo ticchettio?»
 
***
 
Qualcuno bussò furiosamente alla porta di casa sua. Distolse lo sguardo dal disegno quasi finito e raddrizzò la schiena, attenta a ogni rumore.
Se è Nioclàs, gli sbatto la porta in faccia. Erano giorni che se lo trovava costantemente tra i piedi. Quel benedetto ragazzo non aveva, tipo, una qualche abitazione?
Evidentemente quella volta era innocente, perché i colpi cessarono dopo qualche secondo. Lui non si sarebbe arreso così in fretta, poco ma sicuro.
Sospirò. Non le piaceva la vita da reclusa che le era stata imposta – le continue visite erano in realtà dei controlli – e avrebbe dato qualsiasi cosa per un giro nella zona commerciale di Frey. Nioclàs però era stato irremovibile: niente gite fino a quando le acque non si sarebbero calmate. Dilara aveva provato a chiedere quando, esattamente, sarebbe successo, ma aveva ricevuto soltanto un’occhiata truce in risposta. Quel ragazzo aveva parecchi problemi – paranoia, un complesso da supereroe, un accento irritante, un pessimo gusto nel vestire e una fastidiosa tendenza da motivatore delle folle – ma al tempo stesso riusciva a farla sentire quasi al sicuro. Forse era un male. Forse significava che l’aveva condizionata così tanto da farle credere di avere bisogno di lui. Per la Dea, l’aveva addirittura convinta a lasciare la città per fuggire chissà dove!
E a cosa stava pensando lei mentre accettava?
Il comunicatore appoggiato sul tavolo vibrò, urtando una delle matite. Dilara lo guardò con odio, decisa a ignorarlo, e tornò al suo disegno. Stava ricopiando la copertina di un libro di leggende laekur, il terzo di una lunga raccolta. Aveva già disegnato Kona e il suo consorte Gaemal, doveva solo perfezionare i capelli della Dea prima di passare allo sfondo. Purtroppo per lei, chiunque fosse dall’altro capo del comunicatore non sembrava avere di meglio da fare.
Irritata, lo agguantò. «Finalmente», gracchiò la voce meccanizzata di Nioclàs.
«Cosa vuoi?»
«Sapere se hai iniziato a fare le valige».
Ringraziò la Dea che il ragazzo non fosse presente, o gli avrebbe tirato un pugno in piena faccia.
«A questo proposito, Nioclàs…», iniziò titubante. «Vorrei chiedere una proroga».
«Una proroga», ripeté lui, come se non conoscesse il significato della parola.
«Ho bisogno di tempo per pensarci», disse con più decisione. Si era preparata per bene il discorso, il fatto che non dovesse nemmeno affrontarlo di persona giocava a suo favore. Sapeva infatti che Nioclàs avrebbe contrattato con una battuta finalizzata a spaventarla, che infatti arrivò: «Dirai così anche a quelli dell’Hawk? "Non potete catturarmi, devo prima riflettere sulla situazione?"»
Dannatamente prevedibile.
«Magari funziona», rispose, colorando un occhio a Gaemal.
Adesso punterà sul senso di colpa.
«E non pensi alle conseguenze? In questo gioco sono coinvolte più persone di quanto tu non possa i-»
Dilara venne distratta da altri colpi sulla porta. Cos’era, una specie di scherzo?
«Perché continui a usare il comunicatore se sei fuori dalla-»
«D-Dilara? Ci sei?»
Solo che non era Nioclàs.
«Devo andare», bisbigliò. Lui protestò, intimandole di non riattaccare, e Dilara l’avrebbe veramente mandato al mondo di sotto, se la testa corvina di Kaj non fosse comparsa nel suo campo visivo un nanosecondo prima.
«La porta era aperta», spiegò. Se Nioclàs l’avesse saputo, gli sarebbe venuto un infarto.
«Hilma, ci riaggiorniamo!», trillò un po’ troppo allegramente, poi chiuse la comunicazione. Kaj si era già seduta sul divano e aveva sollevato dal tavolino uno dei libri della raccolta. «Hilma, sempre la solita ipocondriaca. Adesso crede di aver preso una rara infezione dell’arcipelago di Ur. Sai com’è», si sentì in dovere di spiegare Dilara. Evidentemente Kaj lo sapeva, perché sorrise.
«Come mai questa visita?»
«Ho un p-paio di ore libere e sono passata di qua». Due ore libere per Kaj erano una novità, soprattutto nell’ultimo periodo. Erano settimane che Dilara non riusciva a vederla per più di mezz'ora di fila. Quando la vedeva.  Cogliendo l’occasione, ebbe modo di osservarla meglio. Solo allora notò un segno rossastro sul mento, stranamente simile all’inizio di un livido. Kaj però dichiarò di avere avuto un incidente in palestra e lei ci credette. C’era qualcosa di strano nella sua amica. Aveva lo sguardo spento e la voce forzata, come se stesse recitando una parte. Le continue domande di circostanza ne erano una prova.
«Tu, piuttosto? Non dovresti essere all’accademia superiore?»
Sì, se non fossi agli arresti domiciliari.
«Ho dimenticato di puntare la sveglia e mi sono pesa una piccola vacanza». Proprio in quel momento ebbe la netta sensazione che stessero mentendo entrambe. Com'erano arrivate a quel punto?
«Hai impegni per la Festa d’autunno? C’è questo mio c-collega che ha invitato tutti a un evento e… se vuoi vieni, ecco, visto che non usciamo da tanto». Era la frase più lunga che le sentisse pronunciare da tanto tempo. Dilara ci pensò. Nioclàs l’avrebbe reputata una pessima idea, peccato che non fosse né suo padre né il suo guardiano. Kaj, invece, era la sua introversa migliore amica.
«Un collega?»
L’altra alzò gli occhi al cielo. «Non fare quella faccia. È pieno di uomini, in azienda». Già, l’azienda. Il misterioso posto che occupava la vita di Kaj, impegnandola in chissà quali scambi commerciali in ogni angolo di Alles. Probabile che non si occupasse direttamente delle vendite, essendo una Bandita, ma che sfruttassero ugualmente la sua conoscenza dell'ignjs.
«È carino?»
«Ma possibile che pensi solo a quello?»
Dilara si finse offesa. «Non è vero! Semplicemente non ho delle fette di salame sugli occhi, io».
«Come il famoso v-vaya coi capelli ricci? Quello che “no, Kaj, non puoi capire?”»
Decise di sorvolare sulla pessima imitazione dell’accento laekur, che lei tra l’altro non aveva nemmeno, perché per un attimo le era sembrato di rivedere la vecchia Kaj.
«È perché non l’hai ancora visto. Altrimenti fidati che mi daresti ragione».
«Guarda, se non dicessi così tutte le volte f-forse ti crederei».
«Qui stiamo divagando. Non stavi forse parlando di un certo collega di sesso maschile?»
«No».
«Dea, Kaj, sei impossibile!»
«E lui è t-tutto tuo, se vuoi».
«Non ci fai neanche un pensierino?»
«Non è lui ch-» Kaj sembrò rendersi conto solo in quel momento di quello che stava dicendo e avvampò.  Cercò disperatamente di cambiare argomento, ma il danno ormai era fatto.
«Cos’hai detto?! Kajdena…?»
Scattò in piedi come una molla. «Devo tornare al lavoro!»
«Non fare un passo! Ci sarà anche lui alla festa?» La sua amica si avviò verso la porta a grandi passi.
«Verrò, Kaj, eccome se verrò!»
«Ciao, Dilara
«Quasi quasi mi sei mancata!»
E sentì la porta sbattere.
Sorrise. Kajdena Jozic che la invitava a una festa, il mondo aveva iniziato a girare al contrario.
Non le restava che avvisare Nioclàs del piccolo cambio di programma…





 
  
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