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Autore: Water_wolf    21/12/2015    3 recensioni
{ AllHuman!AU | Will/Nico | Frank/Hazel | Prima Classificata al contest "The Ghost King - Un contest su Nico Di Angelo" indetto da aturiel sul forum di EFP}
È Natale e, forse sotto influenza del Grinch, ho ambientato questa storia d'estate. Nico è in vacanza a Roma e il suo incontro con Will non può essere più rocambolesco. In circostanze ancora più strambe, i due fanno un patto che li porterà a due settimane di stretta convivenza. Una Solangelo che vuole essere fresca e divertente, trasfondamo i tipici cliché della commedia romantica in qualcosa stile Love Actually. Enjoy!
♣♣♣
Il biondino alza le mani, arrendendosi. «Okay, va bene. Afferrato. Scusa di nuovo.» Mi porge il bicchiere in segno di pace. «Certo, non ho mai incontrato nessuno che odiasse tanto l’acqua. Dopotutto, anche il nostro corpo è formato per il 70% di essa.»
«Forse è per questo che odio il 70% delle persone.»

♣♣♣
GEORGE: Ma è meraviglioso, figliolo. Innamorarsi è una sensazione che ci smuove qualcosa dentro.
NICO: Come il vomito.

♣♣♣
Nico di Angelo, sei diventato un gran bastardo.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Frank Zhang, Hazel Levesque, Nico di Angelo, Will Solace
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Looking for sunrise

 

 
UNO

 
I was drunk and it didn't mean a thing
Stop thinking about

The bullets from my mouth
Panic! At The Disco “Hallelujah”
 
 

Ho bisogno che qualcuno mi ricordi il motivo a causa del quale mi ritrovo nella seguente situazione: pressato tra una folla di turisti sudaticci dalla pelle umidiccia che scalpita, schiamazza, scoppia a ridere a caso e, in generale, rientra nei tre tipi fondamentali di persone che odio—Chiassosi, Idioti e Felici. Forse è quest’ultima categoria che mi infastidisce di più, oggi. Come puoi essere frizzante e sprizzare gioia da tutti i pori, quando aspetti sotto il sole da venti minuti una nave in ritardo che non sembra voler arrivare prima di altri venti minuti buoni? Io, l’unica cosa che sprizzo adesso è sudore.
Ma poi basta voltarmi e sospiro rassegnato.
Hazel è raggiante, nel suo vestito da spiaggia azzurro e bianco. La sua prima visita in Italia sta andando a gonfie vele e non potrei mai, in nessun universo, permettermi di rovinare la vacanza alla mia sorellina. Per lei, sarei capace di aspettare questa dannata nave anche un’ora.
Frank sembra del mio stesso avviso; è in evidente sofferenza fisica dovuta a quelli che probabilmente sono 40° percepiti, in questo spiazzo asfaltato rovente, ma, piuttosto che rovinare la giornata alla sua ragazza, sopporta tutto in uno stoico mutismo. Il mio amico cino-canadese starà sicuramente rimpiangendo i gelidi inverni di Vancouver.
Spero solo che ne valga la pena. Non che mi importi particolarmente di avvistare delfini o altre splendide forme di vita acquatiche, ma ora che ho sofferto questa agonia, quei mammiferi marini dalla risata odiosa devono farsi vedere.
Forse, per una volta nella vita, la Fortuna mi arride o forse gli italiani si sono dati una svegliata, perché, incredibilmente, dieci minuti dopo, vediamo la nostra barca—la Libeccio—attraccare e sputare fuori dalla stiva un damerino di guida turistica che grida “avanti, avanti, salite!” in italiano. Lo capiamo tutti perché accompagna le parole a grandi gesti.
Hazel, Frank ed io veniamo pressati ancora di più e avanziamo lentamente in avanti. Colgo qualche istruzione gridata in inglese dallo stesso tizio e rabbrividisco. Continua nella tua lingua madre, lo imploro mentalmente. Ti assicuro che l’inglese viene già maltrattato abbastanza dai madrelingua.
Hazel si aggrappa al braccio del suo fidanzato e sussurra eccitata: «Vedremo i delfini!»
Frank le regala un sorriso dolce e stanco. «Non vedo l’ora.» Non mente, perché restare qui un attimo di più potrebbe essergli fatale. Sono sinceramente preoccupato che collassi sulla banchina.
Ci imbarcano. Faccio un favore alla lingua inglese e alla guida turistica e gli porgo i biglietti alla svelta, accompagnando il gesto con un “ecco a Lei” così che si rivolga a me direttamente in italiano.
«Perfetto. Potete salire» replica, senza degnare il nostro gruppetto di un’occhiata. Potremmo essere terroristi , o peggio, immigrati senza permesso di soggiorno che gli rubano il lavoro, e lui non ci farebbe neanche caso. «Vi auguro una buona traversata.»
«Grazie» rispondo automaticamente, mentre mia sorella gli rivolge un ampio sorriso e un sentito “thank you so, so much!”.
Ci affrettiamo ad accaparrarci un posto che offra una buona visuale del mare di fronte a noi. I posti a sedere sono piuttosto invitanti, ma preferisco rimanere in piedi, che farmeli calpestare nella foga che seguirà il primo avvistamento di una di quelle deliziose creature marine. In questo modo, potremmo scattare le foto migliori e senza troppo stress da dov’è-la-macchina-ci-sono-le-pile-funziona-sì-vero-prendila-dài-muoviti-che-ha-tirato-su-la-testa. Non siamo all’ombra, ma, appena in mare aperto, il vento soffierà via il caldo.
Mi sistemo meglio gli occhiali da sole sul naso e mi appoggio alla ringhiera. Il metallo è bollente e frammenti di vernice scrostata mi si appiccicano agli avambracci, ma non ci faccio caso.
Osservo la felicità di Hazel e Frank di lato, dalla posizione privilegiata che mi è sempre stata riservata. Sono così uniti che non sono quasi mai Hazel, e Frank; Frank, ed Hazel. I loro nomi vanno sempre insieme, Hazel e Frank, Frank e Hazel. Non è un azzardo anche Hazel&Frank, o Frank&Hazel, come l’insegna di un negozietto in centro che passa sempre inosservato eppure è stipato di piccole e grandi meraviglie.
A volte, sono Hazel che fa questo mentre Frank fa quest’altro. Come adesso: Hazel che gli sfiora il mento con le labbra, un sorriso dietro l’angolo ma non per questo meno stupendo, mentre Frank abbassa gli occhi su di lei e la sua mano sfiora con naturalezza dovuta all’abitudine il suo fianco.
Mi hanno detto che si sposeranno, questa primavera. È riduttivo, però sono innegabilmente e immensamente felice. Sono entrambi giovani, è vero, ed è anche vero, se non ancor più vero, che una coppia come la loro è unica quanto una barca nel bosco.
È bello, osservarli stare insieme come se fossero i soggetti di una fotografia famosa, in disparte e leggermente fuori campo. È un modo di provare gioia che mi piace, senza sorrisi enormi e frasi con dieci punti esclamativi, più intimo e profondo—un tipo di gioia silenziosa che, dopo averla provata, ti rimane addosso e ti donerà sempre una scintilla di calore a rispolverarla.
Avverto una scossa, che attraversa la sbarra a cui sono appoggiato, e capisco che stiamo partendo.
La giornata inizia a prendere una piega decisamente migliore. La Libeccio si allontana dal porto e, man mano che procediamo in mare aperto, la nave prende velocità. Scivola sull’acqua, lasciandosi dietro due grosse scie bianche. Disturbiamo un gabbiano, fermatosi a riposare in mezzo al mare. Il sole trapassa l’acqua per diversi metri, prima di disperdersi e lasciare spazio al verde più scuro caratteristico delle profondità. Foreste di posidonie forniscono cibo e riparo ai pesci, che sgusciano e guizzano tra le alghe. Sono come dita di bambine che si muovono svelte tra i capelli della madre, che permette loro di acconciarglieli per far imparare loro il giusto modo di fare una treccia.
Hazel ammira tutto con una gioia che mi rende orgoglioso. «Non posso credere di aver vissuto tutti questi anni ignorando l’esistenza di qualcosa di tanto bello!»
Le sorrido immediatamente in risposta. «E non hai ancora visto niente!» ribatto.
La Libeccio rallenta e decide di procedere a una velocità di crociera. Da qui, siamo più vicini all’orizzonte che alla costa.
Frank tira fuori dallo zaino la macchina fotografica digitale e scatta una foto, poi ne fa una di nascosto ad Hazel, che lo scopre e lo costringe a farsi fotografare insieme a lei. Sembrano totalmente dimentichi del sudore che si sono lasciati dietro nell’attesa. Io, invece, più guardo l’acqua più penso a quanto il suo colore sia simile a quello dei suoi occhi. Forse è anche per questo che la odio.
All’improvviso, sentiamo la guida annunciare al megafono: «Signore e signori, alla vostra sinistra, se aguzzate la vista, potete ammirare i delfini!» L’esclamazione generale dei turisti copre il resto delle sue parole.
La gente si precipita dalla nostra parte, incuneandosi tra le persone appoggiate alla ringhiera nel tentativo di scattare una fotografia. Un bambino salta al collo del padre, che gli passa la macchina e si avvicina alla ringhiera, tentando una strategia dall’alto.
Frank si accorge che i delfini ci stanno venendo in contro e, invece di zoomare come un ossesso, attende il momento propizio per catturarli in un’immagine perfetta. Mi è sempre sembrato un arciere all’opera, corda tesa e freccia incoccata, quando scatta una foto.
Ovviamente, più le bestiole si avvicinano, più la gente si fa irrequieta e scalpita per vederle. Mi sento spingere forte contro la ringhiera, tanto che i miei intestini minacciano di esplodere, e mi giro per protestare contro il cafone di turno. Dieci dollari che è un americano, venti che è un francese indisponente.
«Senti, la vuoi fin–»
L’obiettivo di una Reflex mi colpisce lo zigomo, facendomi sbilanciare all’indietro, e quando la folla preme per occupare lo spazio appena ricavato dall’assenza del mio corpo, le mie mani non riescono ad afferrare la ringhiera. Più che saperlo, mi sento cadere all’indietro.
Poi
C’è solo
L’aria che mi frusta il collo
I capelli che mi accecano
Lo stomaco stretto in una morsa.
C’è solo
L’acqua che si fa di cemento contro la mia schiena, che
Mi invade la bocca, che
Mi riempie i polmoni.
Per un lungo, tremendo attimo, sono paralizzato. Sento il mio corpo affondare e non posso fare niente per impedirlo. Sono inerme. La mia discesa continua, inesorabile e infinita.
Il cuore mi batte nel petto a una velocità impossibile. Mi sta scoppiando. Ma non ho fiato, e so che morirò prima per annegamento.
Poi, la fisica vince sulla paura.
Smetto di scendere senza controllo, mi assesto, il mio corpo procede più lentamente. Mi ricordo che ho mani, e gambe, e che posso muoverle. Devo muoverle, se voglio vivere. E ’fanculo se voglio farlo.
Do una possente gambata e mi spingo in alto. Mi aiuto con le braccia, puntando verso l’acqua più chiara. Mi sento svenire, so che non ho più fiato, ma mi ordino di andare avanti. È quasi con sollievo che la mia testa rompe la superficie dell’acqua.
Annaspo in cerca d’aria, respirando come se non l’avessi mai fatto prima d’ora. La accolgo nei miei polmoni come la più cara degli ospiti.
«Nico!» grida mia sorella, dall’alto. La sua apprensione è palpabile fin da qui.
«Un salvagente!» comanda Frank, la voce che sovrasta il silenzio scioccato della folla.
Sento il galleggiante colpire l’acqua e racimolo abbastanza forza da raggiungerlo. Le mie dita sono goffe e ci impiego un tempo infinito ad aggrapparmici. Mi tirano vicino alla nave, fermatasi immediatamente dopo la mia caduta. La mia è testa è stranamente leggera, vuota di ogni pensiero, e non penso sia un buon segno.
Le braccia muscolose di un marinaio mi guidano sulla scaletta, mezzo tirandomi per le ascelle mezzo incitandomi con frasi che non riesco nemmeno a registrare. Alla fine, mi issano sulla nave. Mi accascio a terra, sfinito. I miei vestiti grondano acqua, ho perso gli occhiali da sole e il pavimento di metallo su cui sono steso mi brucia la guancia, eppure mi viene voglia di ridere.
Cazzo, sono vivo. Sono vivo.
Hazel e Frank accorrono al mio fianco. Mi sforzo di rimettermi almeno in ginocchio, perché non rovinare la giornata a mia sorella è ancora una delle mie priorità.
Le sue braccia mi stringono contro il suo petto, mentre singhiozza: «Oh, mio Dio. Quando non ti ho visto–non ti visto…» Deglutisce. «… quando non ti ho visto tornare su, i-io ho pensato…»
«Sto bene» dico. «Sto bene. So nuotare, El. Sarei risalito in ogni caso.»
Lei tira su col naso. «Nico, io–» inizia a spiegarsi, ma viene interrotta da una voce maschile. «Sono terribilmente dispiaciuto per ciò che è successo. Ti assicuro che non ne avevo minimante intenzione.»
Il sangue mi affluisce di colpo alle tempie. La testa prende a pulsarmi. Con una calma disumana mi alzo in piedi, più che barcollando, tremando di rabbia. Punto gli occhi in quelli del tizio che mi ha appena rivolto la parola—un biondino in infradito e un’orribile camicia hawaiana—e spero che possano trafiggerlo.
«Cioè, non avevi intenzione di colpirmi con la tua Reflex del cazzo e buttarmi giù da questa fottuta barca?»
«Ehm, io non intendevo…»
«… Essere un completo idiota, per caso?» termino io al suo posto.
Devo essere riuscito nell’apparire minaccioso, perché il tipo indietreggia. Un ghigno perverso mi increspa le labbra. Faccio un passo in avanti, poi un alto, come un lupo che si avvicina alla preda, conscio della sua posizione di superiorità.
«Mi dispiace, okay?» sbotta quello, guardandosi intorno nervosamente in cerca di solidarietà. «È stato un incidente!»
«Questo non sarà un incidente» replico, prima di avventarmi su di lui.
Lo afferro per il colletto e faccio per colpirlo sul viso con un pugno, ma la mano di Frank si stringe attorno al mio polso e mi blocca. Lo guardo come si guarda un suicida che si sta per buttare giù da un ponte.
«Nico» attacca il ragazzone.
«Datti una calmata!» mi apostrofa il biondino, sottraendosi alla mia presa e massaggiandosi il collo. «Ti ho chiesto scusa!»
«Zitto, se non vuoi peggiorare la tua situazione» ringhio nella sua direzione.
«Amico, tu sei pazzo.»
«E tu covi un desiderio di autodistruzione, amico» ribatto, piccato.
«Nico, dài, smettila.»  Frank mi posa una mano sulla spalla, riscuotendomi. A voce più bassa, che dovrebbe essere discreta, aggiunge: «Ti stanno guardando tutti.»
Il che mi fa solo incazzare di più. Non mi è mai piaciuto essere lo spettacolo del giorno. Compio uno sforzo immane per non mandarli tutti a quel paese. Mi allontano da Frank e mi faccio largo tra la folla, puntando alle scale che portano sottocoperta. Tra me e me, borbotto: «E tornatevene a fotografare i vostri delfini del cazzo.»
 
 
 
L’argomento vincente l’ha tirato fuori Frank Zhang. Ha detto, con un’espressione contrita e colpevole, gli occhi che sfuggivano a quelli della sua fidanzata: «È universalmente riconosciuto, che una buona bevuta scaccia via i pensieri depressivi meglio di qualsiasi altra cura.» Al che, Hazel ha emesso un sonoro verso di disapprovazione e io ho applaudito piano, ma con profonda ammirazione.
Quindi, mi sono infilato una camicia pulita che desse l’idea di “sto uscendo, però non voglio niente di complicato” e ho aspettato, comodamente seduto sul divano di casa mia, che Hazel finisse di prepararsi. Frank si è unito a me e non ha proferito parola, evitando di menzionare i due argomenti bomba di oggi. È un bravo ragazzo, Frank Zhang.
Saranno state le dieci, quando Hazel è emersa dal bagno—trucco perfetto, vestito perfetto, borsa perfetta, scarpe perfette. Se non si stesse per sposare e non avesse già conquistato il cuore—e lo sguardo—di un uomo, sarei stato tentato di chiuderla in casa a chiave per evitare che la polizia venisse a bussare alla nostra porta per “sospetta strage di cuori”.
La casa è situata in centro e non c’è bisogno di prendere la macchina per spostarsi, per cui abbiamo camminato nell’aria afosa della notte finché non abbiamo raggiunto il locale.
Con tutta quella gente, ballare sarebbe stato un problema. Per mia fortuna, volevo solo raggiungere il bancone e riempire il mio corpo di alcol fino a stare male. E così ho fatto.
Hazel e Frank stanno avendo uno dei loro momenti Hazel&Frank. Sulla pista da ballo, si divertono a provare mosse assurde, incuranti di come potrebbero apparire all’esterno. Ai miei occhi appannati dai troppi drink, appaiono giovani e straordinari e felici. Felici di una felicità così unica, così esclusiva, che sono certo non proverò mai.
Il pensiero è deprimente. Potrei scoppiare in singhiozzi come un bambino, così vuoto il bicchiere in un colpo e prego di raggiungere presto lo stato d’incoscienza. Ordino una vodka lemon e ne osservo distrattamente la preparazione. Non appena il barista me lo porge, le mie mani si chiudono attorno al bicchiere. Mi volto verso la pista da ballo e scorgo Hazel che mi fa cenno di raggiungerla.
Oh, pietà.
Una sola canzone, mi dico. Una sola.
Tutto il mio corpo protesta, quando scivolo giù dallo sgabello e mi dirigo verso di lei. Ma non la raggiungo.
Urto contro la spalla di un tizio che, benedetti siano i suoi riflessi, afferra la mia vodka prima che cada.
«Scusa» dico in italiano, mentre il ragazzo si volta per porgermi il drink.
«Sorry, dude?»
Il braccio che sto tendendo per riprendermi il bicchiere si congela a metà strada. Scoppio in una risata nervosa. «This can’t be real.» Invece può.
Il tizio è lo stesso che mi ha scaraventato fuori bordo, che mi ha dato del pazzo e a cui ho quasi spaccato la faccia. Faccia che, secondo le mie percezioni sballate dall’alcol, è decisamente carina. Lineamenti regolari, naso dritto, bocca larga e belle labbra, di quelle fatte apposta per i sorrisi, e occhi blu. Ha i capelli biondi arruffati che, insieme al look semplice—T-shirt larga e leggera, bermuda e le stesse infradito di oggi—, gli conferiscono un’aria da surfista trasandato ma innegabilmente carino.
«Oh.» Anche lui mi riconosce. Temo per la mia vodka, nonostante la sua presa sia ferma. Dopo un lungo minuto di imbarazzo, Surfista Trasandato domanda: «Vuoi ancora picchiarmi?»
«No» rispondo, brusco. «Voglio il mio drink.»
Il ragazzo sorride. Un brivido di inquietudine mi scende tra le scapole.
«Non vuoi nemmeno conoscere il mio nome?»
«No.»
Malgrado il mio tono, il suo sorriso si allarga. «Sai, se non fossi tanto incazzato con il mondo, sarebbe più facile flirtare con te.»
Inarco un sopracciglio. «La tua idea di “flirtare” comprende sempre tuffi in mare inaspettati? Se è così, ti consiglio di cambiare tattica.»
Il biondino alza le mani, arrendendosi. «Okay, va bene. Afferrato. Scusa di nuovo.» Mi porge il bicchiere in segno di pace. «Certo, non ho mai incontrato nessuno che odiasse tanto l’acqua. Dopotutto, anche il nostro corpo è formato per il 70% di essa.»
«Forse è per questo che odio il 70% delle persone» replico, prendendo un sorso di vodka lemon.
Surfista Trasandato non riesce a trattenere una risata. Poi, si china su di me e mi sussurra all’orecchio: «Mi piaci. Sei carino.»
Il mio cervello mi grida “tu odi questo pezzo di merda. Ti ha scaraventato giù dalla nave! È per colpa sua che vuoi ubriacarti, no?” Già. Non dovrei fraternizzare col nemico. Eppure, dalla mia bocca escono parole ben diverse.
«Anche tu sei carino.»
Posso percepire il suo sorriso allargarsi. Le sue labbra devono essere qualcosa di meraviglioso, una specie in via d’estinzione che va protetta a tutti i costi. Non che mi stia proponendo come volontario per preservarle. O forse sì.
«Ora vuoi sapere come mi chiamo?» chiede, a metà tra il malizioso e il divertito.
Annuisco.
«Sono Will» si presenta, e mi piace come la sua voce pronuncia ogni singola lettera, rendendole in qualche modo vibranti. «Solace.»
«Nico» replico semplicemente.
Will si allontana e alza il suo bicchiere. Brindiamo alla nostra conoscenza. La vodka mi brucia le pareti dell’esofago, mentre scende nello stomaco.
Non ricordo bene come iniziamo, ma a un certo punto è come se mi risvegliassi da un sogno: ciò che vedo mi si stampa con incredibile vividezza nella mente.
Io che ballo con Will, il drink alzato sopra la testa. La gente attorno che segue il ritmo della musica, una massa indistinta che si unisce a noi. I nostri corpi che si avvicinano sempre di più. Le sue mani che raggiungono il mio bacino, le sue dita calde che sembrano toccarmi la pelle nuda, invece che la camicia. Il bacio che mi deposita sul collo e fa scendere cento brividi lungo la mia schiena. Il fiato che mi esce tutto insieme dalla bocca aperta.
Le sue labbra che si avvicinano—le mie che lo permettono.
Le schiudo immediatamente, fregandomene dei preliminari. Posso sentire Will fremere per la sorpresa e la successiva eccitazione. È un bravo baciatore, decisamente esperienza dovuta alla pratica. Ci separiamo, ma solo per poco, perché mi scopro a pensare che voglio che mi baci ancora. Una sensazione di calore mi scioglie la tensione nello stomaco quando lo fa. Le sue labbra sono soffici e molto, molto più assuefacenti di qualsiasi droga abbia mai provato.
Will Solace mi bacia come se avesse speso mille anni a riflettere su come farlo. Io lo bacio come vorrei baciare il custode della mia felicità—piano, con una delicatezza che nasconde il tumulto del mio essere; piano, con una delicatezza che significa non ti farei mai del male; piano, con una delicatezza che vuol dire grazie.
Quindi ci baciamo piano, con una delicatezza che dice non ti cercherei, se non ti avessi già trovato
 

 
Le mie ciglia sono incastrate tra loro, le mie palpebre sono pesanti e non sembrano intenzionate a sollevarsi. Sono le serrande bloccate di un negozio. Eppure, qualcosa—un rumore di una porta che scorre, o forse la consistenza del materasso— mi ha destato dal sonno.
Mi passo stancamente una mano sulla faccia. Se mi sono svegliato prima delle undici e mezza, giuro che potrei fare una strage. Controllo l’orologio.
Poi scopro che non ce l’ho.
Nel cercarlo, noto che i vestiti che indossavo ieri sera sono a terra. A terra appallottolati. A terra appallottolati in una stanza che non fa parte di casa mia. Ma che cazz…? 
Mi sollevo di scatto. Dove diamine sono? E perché c’è tutto questo casino?
Dio, non avrei dovuto bere così tanto.
Oh, merda.
Il drink. Il fottuto drink che mi cade di mano ma non si infrange mai sul pavimento.
Non vuoi nemmeno conoscere il mio nome?
No.
Sai, se non fossi tanto incazzato con il mondo, sarebbe più facile flirtare con te.
Oh, merda. M-e-r-d-a.
La situazione mi si presenta  davanti chiara e semplice: ho bevuto come una spugna e ho fatto sesso con Will Solace. In una… camera d’albergo? Maddài. Neanche fossi una prostituta da quattro soldi. Dovevo essere proprio ubriaco marcio. È un miracolo che non mi sia capitata una sbronza cattiva e non abbia vomitato sulla moquette. È piuttosto difficile pulirla, poi. Nel momento in cui lo penso, le mie viscere si torcono.
No, stomaco, non ci provare. Devo svignarmela da qui al più presto,  e svuotare il tuo contenuto sul pavimento non aiuterebbe di certo.
Un po’ scendo un po’ cado dal letto. Mi rimetto in piedi, trattenendo gemiti e imprecazioni per non far rumore, e raccolgo i miei vestiti in fretta e furia. Mi infilo i boxer e sto per passare ai pantaloni, quando sento aprirsi una porta alle mie spalle. Mi immobilizzo a metà movimento. Non voglio voltarmi. Non voglio…
«Non dirmi che te la stavi svignando.»  Dal tono, Will sembra divertito. «Nessuno è mai rimasto tanto deluso dalle mie prestazioni a letto.»
«Non sono rimasto deluso dalle tue prestazioni da letto, è solo che io—»
Quando realizzo ciò che ho appena detto, vorrei che un buco si aprisse sotto i miei piedi e mi inghiottisse. Ringrazio il Cielo di essere di spalle, perché sto arrossendo così tanto che la mia faccia scotta.
Posso avvertire il biondino sorridere alla mia schiena. «Ah, quindi ti è piaciuto.»
«No. Cioè sì. Cioè—» È tutto così tremendamente imbarazzante. Ne è passato di tempo, dall’ultima volta che mi sono sentito così a disagio con un altro ragazzo. «Io non me la stavo svignando, ecco» riesco a dire.
«Davvero? Perché non sembra.»
Mi volto per affrontarlo e rimpiango all’istante di averlo fatto. Will è nudo fino alla cintola, dove un asciugamano gli cinge la vita. Il nodo è così debole che cederà presto.
Immagini raccapriccianti mi invadono la mente. Le mie dita che percorrono i suoi addominali, sfacciate. Le mie labbra gonfie che li sfiorano, per scoprire se soffre il solletico. Le mie mani che si aggrappano alla sue spalle, quando le sue accarezzano il mio membro.
«Aehm…» Rimani impassibile, mi ordino. Rimani. Impassibile. «Non è come sembra.»
Il ghigno di Will è sfrontato. Si appoggia allo stipite della porta e incrocia le braccia al petto. Non è uno di quei tipi palestrati che passano la loro vita a sollevare pesi e che alla domanda “Quali sono i tuoi hobby?” dei siti d’incontri su internet risponderebbe “Aspiro ad avere i bicipiti di Hulk”, ma posso intravedere i muscoli guizzare sotto la sua pelle abbronzata.
Per un momento, sono felice di aver fatto sesso con lui. Ha delle belle mani, con dita lunghe e affusolate, le unghie curate. Ho affidato il mio corpo ad altre molto più rozze. Mi affretto a censurare questi pensieri.
«A me, sembra proprio così» replica. «Ragazzo carino che si ubriaca e finisce a letto con me. La mattina dopo gli passa la sbronza e decide di scappare. Non è molto educato, da parte tua.»
Non sembra offeso, ma non saprei dirlo con certezza. Sospiro pesantemente. «Okay. Se ammetto che tu hai ragione, potrò andarmene?»
«Mh. Che ne dici se rimani?»
Mi stai prendendo in giro?
«Senti, Will» cerco di essere gentile. «Ieri sono venuto a casa con te perché non disponevo delle mie piene facoltà mentali. Ora che le ho riacquistate, non commetterò lo stesso… lo stesso errore. E smettila di distrarmi!»
Il ragazzo scoppia a ridere. «Cosa? Mi sto solo sistemando l’asciugamano.» Un lampo di malizia attraversa il suo sguardo. «Che c’è, trovi che ti distragga?»
Serro la mascella. Le punte delle mie orecchie stanno sfrigolando. «Non cambiare argomento.»
Lui alza le mani. «Come vuoi.»
«Grazie.» Mi schiarisco la voce. «Stavo dicendo… Non commetterò lo stesso errore. In più, mia sorella si starà preoccupando da morire, visto che non sono tornato a casa con lei. Devo raggiungerla al più presto.»
«Oh, tranquillo. Non c’è alcun problema, ho già risolto tutto.»
Mi manca un battito. «Hai risolto, cosa
Will fa un gesto vago con la mano. «Ha chiamato, tipo, due ore fa. Immaginavo ti stesse cercando e, non volendo svegliarti – per la cronaca, sembravi in coma –, ho risposto io al posto tuo.» Si passa una mano tra i capelli, che rimango alzati in un ciuffo ridicolo. «Hazel è una ragazza adorabile. Quando le ho spiegato la situazione, ha concordato con me che fosse meglio che tu rimanessi qui.»
«Cosa le hai raccontato?» La mia voce esce fuori rantolante.
«La verità» risponde Will. «Che ti sei scolato per lo meno cinque drink e che sei collassato. Dopo una bevuta del genere, devi iniziare la giornata con tranquillità. Ordini del dottore.»
Non so cosa ribattere. Riesco a malapena a pensare. Mi tocco la faccia per assicurarmi che non mi sia caduta la mascella.
«Ordini del do-dottore?» farfuglio, esterrefatto.
Will annuisce con vigore. «Mi sto laureando in Medicina, a Stanford.»
Okay. Strano. Ma non così strano come gli avvenimenti di ieri sera. Mi frullano in testa parecchie domande, però mi trattengo dal porle. Non voglio fare conversazione con lui. Devo solo finire di raccattare i miei vestiti, trovare le mie scarpe e tornamene a casa mia. Sarebbe perfetto se riuscissi a dimenticarmi di aver anche solo parlato con lui.
«Bene. Allora, penso che ritornerò da mia sorella con molta calma. Potrei muovermi alla velocità di un metro all’ora e osservare gli anziani col deambulatore sorpassarmi. Se il dottore lo permette» dico.
«Wow.» La bocca di Will forma ogni singola lettera, tutto indice del suo stupore. O della sua incredulità. «Sei piuttosto bravo a stroncare le persone con frasi sarcastiche, sai? Voglio dire, hai proprio un talento
Corrugo la fronte. «È un complimento?»
Il biondino rotea gli occhi. «Gesù» invoca.
Dovrei essere io al suo posto, ma non glielo faccio notare. Mi tiro su i jeans e li abbottono.
«Deduco che questo valga come un “vai pure, Nico”» commento.
Will si zittisce. Rimane in silenzio a fissarmi per un minuto intero. Non mi piace come mi guarda—come se intravedesse in me qualcosa di rotto che le sue dita lunghe e affusolate da pianista possano sistemare. Come se fossi un uccellino con un’ala spezzata e lui colui in grado di steccarmela.
Be’, spiacente di deluderti, Will Solace: non c’è niente di me che tu possa rimettere a posto. Sono schizzato e fuori di testa e incasinato e non c’è nulla che tu possa fare a riguardo. A me va bene così. Fine della storia.
La sua spavalderia svanisce, è come se evaporasse nell’aria. «Mi piaci, Nico. Ma credo tu sia abbastanza perspicace da esserci già arrivato.» Grugnisco un assenso. «Però, vorrei dirti un’ultima cosa. Dopodiché, sarai libero di uscire da questa stanza e non avere più nulla a che fare con me.»
Un discorso di massimo un minuto vale una scarcerazione immediata, considero. «Okay» accetto.
Le sue dita hanno uno scatto nervoso. Ma quando parla, la sua voce è chiara e ferma. «Il mondo è una fotografia di cui siamo abituati a vedere solo il bianco e il nero. Bianco per ciò che è buono e giusto, nero per quello che è sbagliato e corrotto. Sembriamo sempre scordarci di che cos’è veramente il nero: non solo la mancanza di tutti i colori che riflettono la luce, ma anche la presenza di quelli che la assorbono. Dipende semplicemente dal tuo punto di vista. Dove tu vedi il vuoto, io ci trovo la pienezza. Quando tu noti il difetto, io guardo il pregio. Tu consideri il nero solo come un’assenza, io anche una completezza.» Will si umetta le labbra. «Sono a Roma da due giorni e non ho ancora visto nulla. Starò qui due settimane. Ti propongo un patto: tu mi porterai in giro per la città, sarai il mio Cicerone, e io, al termine di ogni giornata, ti mostrerò la bellezza che si cela in tutto quello che tu disprezzi. Ti farò scoprire il bianco che non si vede. Rimedierò al modo in cui ti ho trattato lo scorso pomeriggio, indicandoti come riconoscere la fortuna nella sfortuna, la gioia nella disperazione, la virtù nella più grande iniquità. Insegnarti a non abbandonarti al pessimismo, questo sarà il mio modo per ripagarti.» Gli spunta un piccolo sorriso nervoso sulle labbra. «Ci stai?»
Per un attimo, sento lo stomaco ribaltarsi e la bile risalire l’esofago. Il dispiacere minaccia di farmi crollare a terra, perché, cazzo, sono sul punto di rovinare tutto secondo la mia volontà e diamine se è orribile. Ma è una sensazione che dura solo un attimo, e quello dopo è già passata.
Rispondo: «No.»
Poi, mi riapproprio dei miei vestiti, scovo le mie scarpe sotto il letto ed esco dalla camera d’albergo, tenendo le mie cose in mano. Chiudo dietro la porta il silenzio carico di aspettative svanite di Will Solace.
Infilo le maniche della camicia e la abbottono. Mi chino per allacciarmi le scarpe. Dopodiché mi fermo, in ascolto. Il rumore che ho sentito poco fa si ripete. Il ritmo è regolare, lento e cadenzato.
Posso immaginare Will colpire la parete di cartongesso con la fronte, riproducendo la nenia nella sua testa. Idiota, idiota, idiota, dice la voce, incessante. Non ce l’hai fatta. Incapace, incapace, incapace.
Conosco la sensazione. La provo così spesso da non accorgermi nemmeno più della sua presenza, tanto è radicata in me. Non ne sono mai stato la causa, però. Sono sempre stato io quello che si accostava al muro e ci premeva contro i pugni chiusi, i muscoli tesi e la testa che scoppiava.
La memoria è crudele quasi quanto la morte: cancella ciò che più ami, e conserva intatto ciò che ti ferisce.
Nico di Angelo, sei diventato un gran bastardo.
Già. Vero. E non ho vissuto la mia vita per finire come Papà.
Mi tiro su.
Abbasso la maniglia e rientro nella stanza. Il Will nella mia immaginazione—abbattuto, triste e colpevole—corrisponde al Will della realtà. Il suo sguardo è la ruota cingolata di un carrarmato che mi frantuma le costole. Mi è impossibile reggerlo per più di qualche mero secondo.
Mi ficco le mani in tasca e sbuffo, ostentando un’aria menefreghista. «Allora, quand’è che cominciamo?»
  
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