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Autore: Water_wolf    27/12/2015    5 recensioni
{ AllHuman!AU | Will/Nico | Frank/Hazel | Prima Classificata al contest "The Ghost King - Un contest su Nico Di Angelo" indetto da aturiel sul forum di EFP}
È Natale e, forse sotto influenza del Grinch, ho ambientato questa storia d'estate. Nico è in vacanza a Roma e il suo incontro con Will non può essere più rocambolesco. In circostanze ancora più strambe, i due fanno un patto che li porterà a due settimane di stretta convivenza. Una Solangelo che vuole essere fresca e divertente, trasfondamo i tipici cliché della commedia romantica in qualcosa stile Love Actually. Enjoy!
♣♣♣
Il biondino alza le mani, arrendendosi. «Okay, va bene. Afferrato. Scusa di nuovo.» Mi porge il bicchiere in segno di pace. «Certo, non ho mai incontrato nessuno che odiasse tanto l’acqua. Dopotutto, anche il nostro corpo è formato per il 70% di essa.»
«Forse è per questo che odio il 70% delle persone.»

♣♣♣
GEORGE: Ma è meraviglioso, figliolo. Innamorarsi è una sensazione che ci smuove qualcosa dentro.
NICO: Come il vomito.

♣♣♣
Nico di Angelo, sei diventato un gran bastardo.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Frank Zhang, Hazel Levesque, Nico di Angelo, Will Solace
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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TRE


 
 
And I'm a long way from your hill of Calvary
And I'm a long way from where I was, where I need to be
If there is a light you can't always see
And there is a world we can't always be
If there is a kiss I stole from your mouth
And there is a light don't let it go out
U2, “Song For Someone”
 


 
Qualcosa di caldo mi solletica la pelle. Se i raggi del Sole fossero persone, penserei che mi stiano camminando sul petto con i loro minuscoli piedini. Piano piano, come se non volessi spaventare quel piccolo popolo che mi percorre il torace, sollevo le palpebre.
Non vedo i raggi del Sole, però, ma le lunghe dita di Will Solace. I suoi polpastrelli mi sfiorano la pelle con così tanta delicatezza che mi sembra di impossibile che mi stiano toccando per davvero. Giro la testa sul cuscino, voltandomi verso di lui.
Ha i capelli tutti sparati in aria, ciuffi che compiono archi impossibili e hanno una piega improbabile. Se una mucca li vedesse, li scambierebbe per fieno e inizierebbe a brucarli. Gli conferiscono un’aria arruffata, ma tenera.
Tenero è anche il sorriso che ha sulle labbra, piccolo e appena accennato, come quando si è felici soprattutto dentro e fuori si ha quell’espressione un po’ inebetita. La gente non comprende, pensa che tu stia viaggiando con la mente chissà dove e che debba tornare immediatamente sulla Terra. La verità è che si sta vivendo un’emozione tanto dolce da apparire surreale, un’emozione alla quale non sappiamo reagire se non con quieta meraviglia.
«Buongiorno» mormora, fermandosi per istante. «Dormito bene?»
Gli bacio il sorriso di quieta meraviglia. Perché non posso fare a meno di pensare a quanto lui sia tenero e quanto io abbia voglia di farlo.
Will inclina la testa di lato, sorpreso. «Questo per che cos’era?» domanda, la voce un po’ più roca dopo il bacio.
Alzo le spalle. «Eri carino» rispondo. Poi, realizzo come suonino le mie parole—come se fossi innamorato di lui e potessi permettermi di ricordargli che è carino ogni volta che voglio—e mi schiarisco la gola. «Sai che ore sono?» chiedo, risultando brusco senza che lo intenda.
Will mi osserva qualche istante con gli occhi spalancati, neanche gli avessi confessato di essere etero, prima di balbettare: «Ah, ehm, ecco… Non ne ho la più pallida idea.»
Valuto l’eventualità di compiere il grande sforzo che mi porterebbe a stare in piedi. La scarto, troppo estenuante. Al contrario, allungare il braccio e cercare a tentoni il mio cellulare, non lo è. Quando, dopo essermi slogato la spalla destra, riesco ad agguantarlo, controllo l’ora e quasi mi cade di mano.
«Will» lo informo. «È mezzogiorno passato. Abbiamo dormito fino a mezzogiorno, Will
Il biondino scoppia in una breve risata. «Forse è per questo che sei di buon umore, Nico.»
Gli lancio un’occhiataccia. «È problema serio, invece» obietto, sbloccando la schermata iniziale e controllando i messaggi. «Hazel mi ha chiamato, tipo, tre volte e noi non l’abbiamo neanche minimamente sentita. Avrà già allertato l’ambasciata, l’FBI e Chi l’ha visto
Will scosta le coperte e si mette a sedere sul materasso, prima di tirarsi su e stiracchiarsi come un gatto. Azzardo uno sguardo nella sua direzione, catturando di striscio uno scrocio del suo culo un attimo prima che lui scompaia in bagno. Lo sento borbottare qualcosa sul fatto che sono decisamente di buon umore e che mi detesta perché non mi rendo conto di comportarmi così.
«Qual è il prossimo pasto?» domanda dall’altra stanza. «Colazione? Pranzo?»
Aggrotto la fronte. «Brunch?» suggerisco.
Sento Will aprire l’acqua e lasciarla riversarsi nel lavandino. «So io dove andare» dice. Afferrare le sue parole è difficile, visto che si sta lavando la faccia e non si disturba fermare il rubinetto. «È un posticino davvero carino. Scommetto che ti piacerà.»
Non mi fido, ma tengo le mie considerazioni per me. «Va bene» rispondo. «Intanto, chiamo mia sorella e la rassicurerò che no, non mi sono fatto un viaggetto nel Tartaro.»
 

 
«McDonald’s? Sul serio?» Faccio una smorfia. «È questo il tuo “posticino davvero carino?” Il primo McDonald’s sulla strada?»
Will mi mette un braccio sulle spalle e mi conduce oltre le porte a vetri. L’odore di sudore, unto e cibo che dovrebbe marcire ma non lo fa perché chimicamente alterato mi si appiccica ai vestiti.
Rifletto sulla definizione di cibo e mi chiedo se possa essere ancora considerato tale, se trasformato in roba che può durare due settimane fuori da un frigorifero, prima di mostrare i primi segni di muffa. Evidentemente sì, visto che continuo a mangiare cheeseburger, infischiandomene dei rischi che comporta ingerire scorie tossiche.
«Non fare il sofisticato» mi apostrofa il biondino. «Mi ricordo perfettamente cos’ha detto tua sorella, il giorno delle Terme di Caracalla. Citando liberamente, “se Nico potesse mangiare ogni giorno, per tre volte al giorno, da McDonald’s senza rischiare un tumore al fegato, lo farebbe”.»
Non posso fare a meno di arrossire. «Meri dettagli» bofonchio.
Will sorride, soddisfatto di aver fatto centro. Ci mettiamo in coda, dietro a persone che sono qui per ordinare un pranzo che non è l’interpretazione americana di mi sono svegliato tardi e non ho voglia di fare una colazione come si deve.
Mi infilo le mani nelle tasche e mi giro verso Will. «Mangiare qui non va contro la tua etica professionale, Dottore?»
Lui emette un verso a metà tra uno starnuto e un grugnito. «Di Angelo, questa è la domanda più stupida che tu mi abbia mai fatto» replica. «Non mangiare da McDonald’s sarebbe come negare la mia radicata natura di consumatore americano.»
«Sei patriottico come pochi» commento, ghignando.
L’angolo sinistro della sua bocca schizza verso l’alto. «Lo sono, in un certo senso. Nell’altro, riconosco che l’America sia stato teatro di parecchie stronzate.»
«Non solo un teatro» aggiungo. «Ne ha anche messe in atto tante, di stronzate.»
«Non solo un teatro» concorda Will, annuendo. «Se potessi tornare indietro nel tempo, mi piacerebbe nascere nell’Antica Grecia. Osservare i loro valori, impersonare le loro virtù. Imbracciare una lira e comporre un canto che parli di eroi e battaglie e dei.» Si china su di me, abbastanza vicino perché i suoi capelli sfiorino la mia fronte. «Tu potresti essere il mio Patroclo, e io il tuo Achille. Potrei amarti più della mia stessa vita.»
Mi sento il palato secco. La mia mente è un fumetto in cui le vignette riportano solo frasi inadeguate al contesto.
«Non desidereresti mai essere parte di una tragedia, quando ne sei già stato il protagonista nella vita reale.»
Will non dice niente, preso in contropiede dalla mia replica inaspettata. Si tira su e mi fissa, cercando di capire che cos’è andato storto, ma la mia faccia non esprime nulla se non durezza.
Percepisco movimento attorno a me, le persone premono per far avanzare la fila, sono impazienti di avanzare e l’unica cosa che il mio corpo è in grado di fare in questo momento è rimanere immobile.
Will muove la bocca.
Io non lo sento. Sono troppo occupato a rivivere le istantanee della mia tragedia all’infinito.
Potrei amarti più della mia stessa vita.
L’ho fatto, Percy. L’ho fatto l’ho fatto l’ho fatto l’ho fatto l’ho fatto l’ho—
Qualcosa scatta dentro di me.
Probabilmente balbetto qualche parola incompleta, prima di abbandonare la fila e uscire. L’aria mi aiuta a distendere i nervi. Inspiro ed espiro lentamente, regolarizzando i battiti. Non verrò risucchiato dal gorgo che hanno formato i miei pensieri.
Non riuscendo a sopportare la vista di qualsiasi cosa sia in movimento, concentro l’attenzione sulla mia camicia di ieri sera. Individuo tutti i particolari possibili, etichettandoli e catalogandoli con attenzione nella mia mente.
Il modo in cui si è arricciata a causa della pioggia. La fantasia arabeggiante blu su sfondo bianco. Le maniche spiegazzate che ho riportato alla bell’e meglio all’altezza dei gomiti. Un bottone che non è cucito a dovere. Un filo fuori posto.
Quando sono pronto e penso di poter affrontare il mondo esterno senza che mi esploda la testa, sollevo lo sguardo dalla mia camicia e controllo l’entrata di McDonald’s. I miei occhi incontrano prima la figura di Will Solace. Mi osserva come se avesse scoperto che il mio spuntino di mezzanotte preferito sono wurstel crudi intinti nella maionese, o peggio.
«Grounding» dice. Lo ripete: «Questo è grounding
Annuisco. È una tecnica che ho dovuto imparare, se volevo sopravvivere—se voglio sopravvivere—alle crisi d’ansia o, in generale, quando la vita mi andava stretta e non riuscivo a respirare.
«Sto bene» tento di tranquillizzarlo. «Il momento è passato. Possiamo tornare dentro, se ti va.»
Will corruga la fronte. Non credo abbia registrato ciò che gli ho appena detto. «Dove… dove l’hai imparato?» La confusione nella sua testa filtra nella sua voce. «O sarebbe meglio chiederti quando?»
«Dottore…» Esito. Trovare le parole adatte non è semplice. «Domani sarà il tuo ultimo giorno a Roma. Contro ogni aspettativa, ci siamo divertiti entrambi. Non penso che la spiegazione ti piacerebbe e vorrei che tornassi a casa solo con un piccolo taglio sulla nuca, invece che con una ferita più profonda.»
«Non trattarmi come se fossi un bambino.»
Sobbalzo. Non credevo che fosse in grado di un tono così tagliente.
«Se puoi dirmelo» continua, «fallo. Se non vuoi, è tutto un altro paio di maniche.»
Non lo so, amico, forse è la prima volta che agisco pensando che chi mi trovo davanti è una persona e non un oggetto e che non posso gettargli addosso tutta la merda che mi porto appresso e forse apprezzerei un trattamento più delicato. Quindi vaffanculo.
«Okay, Achille» ribatto. «La tragedia è questa: amavo un ragazzo più di quanto amassi me stesso, il mondo e la vita in generale, ma lui non ricambiava. Non solo, non capiva proprio un cazzo. Io soffrivo di depressione e molti altri piccoli e simpatici disturbi mentali, perciò, dopo aver provato tutte le droghe che ti sono saltate in mente dal momento esatto in cui ho pronunciato la parola droghe, ho trovato la soluzione finale nel suicidio. Visto che non devo trattarti come un bambino, posso informarti sul metodo che ho scelto per l’occasione: annegamento nella vasca del mio appartamento. Ho fallito ed è il motivo per cui mi trascino ancora in questa merda di realtà. Sono uscito dal centro di riabilitazione un anno e mezzo fa. Fu lì che scoprii quant’era utile il grounding e quanto mi aiutasse nelle situazioni in cui il mio cervello andava in corto. Fine. Sei soddisfatto, ora?»
Ho parlato così velocemente e con così tanta foga che mi manca il fiato. Will è immobile come uno stoccafisso. Capisco due cose: 1) è dispiaciuto, e 2) è testardo. Deduco quindi che sta lottando contro la sua rabbia e l’istinto che gli dice di comportarsi da stronzo, e la logica che gli racconta tutt’altro.
È sempre un duello affascinante, quello tra la voglia matta di mandare tutto a puttane e le catene di buonsenso della coscienza.
A volte, però, è uno scontro al quale non mi interessa assistere. Soprattutto se è già andato tutto a puttane.
«Io me ne vado» annuncio. «Non mi ricordo nemmeno cosa avessimo in programma di visitare, oggi, e non m’importa. Se non ti dispiacciono i cambiamenti all’ultimo minuto, però, ti consiglio di farti un giro nei pressi di Impara A Farti I Cazzi Tuoi e Dimentica Di Avermi Conosciuto. Cia’.»
Mi volto.
Me ne vado.
«Nico!» mi chiama.
Lo ignoro. Ignoro tutto quanto. Il mondo mi è totalmente indifferente.
Cammino via.



Hazel si lascia cadere accanto a me sul divano. Mi guarda. Sospira.
«Oh, Nico… se solo non fossi stato così impulsivo!» Scuote piano la testa, poi mi poggia una mano sulla gamba. «Mi dispiace. Anche Will non si è comportato nel migliore dei modi, e sicuramente si scuserà, ma se ti conosce e pensa che tu sia ancora arrabbiato con lui, sa che, anche se ti telefonasse per primo, non gli risponderesti. Magari, se lo chiamassi e gli spiegassi, potresti sistemare le cose.»
Le rivolgo un’occhiata stanca. «Non voglio sistemare le cose.» Vorrei che non ci fosse nulla da mettere a posto. Vorrei che fosse già tutto a posto. «E poi, comunque, è troppo tardi. Studia Medicina, conosce i rimedi migliori per curare le delusioni amorose. Io gliene ho già suggeriti due, tra l’altro.»
«E tu?» mi pungola. «Che cosa farai per “curare” la tua delusione amorosa?»
«Io non ero innamorato di lui.»
Mia sorella esclama un “ah!” di derisione. O di incredulità, non saprei dire. «Non mentire a te stesso, Nico. È il più nocivo dei comportamenti» replica, agitando una mano in aria.
Incasso la testa tra le spalle e scivolo giù, sprofondando nei cuscini. «Non stavo mentendo» borbotto.
«Teoricamente, no» concorda, però non è ancora arrivata alla pratica. «Hai detto che non eri innamorato di Will. Eppure, ora lo sei.» Apro la bocca per ribattere, ma lei mi anticipa. «Non. Mentire. Riflettici su e scoprirai che ho ragione.»
Detesto quando fa così. Di solito, è perché ciò che dice è la verità. «Ti odio» brontolo, guardandola di sbieco.
Hazel si lascia sfuggire una risatina frivola. Poi si ricompone e ritorna al suo ruolo di psicologa. «Nico, non dovresti dare così poco valore ai tuoi sentimenti. Senza di essi, la nostra vita sarebbe vuota e sterile. Non permettere a una prima difficoltà di distruggere tutto ciò che c’è di buono.»
«Sarebbe meglio se non li avessi, questi sentimenti.» Sputo le parole come se mi irritassero la lingua e dovessi farle uscire al più presto. «O almeno, se non li avessi per lui. Fin dall’inizio, sapevo che non avrebbe funzionato.»
«Non dire così. Non—»
«Hazel» la interrompo. «L’aveva messo in chiaro. Sarebbe rimasto a Roma per due settimane, dopodiché sarebbe tornato negli Stati Uniti. Una relazione di questo tipo non ha senso. Non avrei mai dovuto accettare la sua stupida proposta. Ho cercato di rimanere indifferente, ma ho fallito, ed ora sono qui, su questo divano, ad autocommiserarmi, desiderando che tutto fosse andato diversamente.»
«Non ti è servito a nulla, allora?» La voce di mia sorella si alza e trema. I suoi occhi sono fermi nei miei, ma, per una volta, non li definirei caldi. Sono freddi e duri, è impossibile scorgervi alcuna gentilezza. «Non ti è rimasto niente di quello che ha cercato di insegnarti Will?»
«Io…» Io non so cosa dire. Non so cosa pensare. «Sì. Certo che mi è rimasto qualcosa.»
«E perché non ti sforzi di applicarlo alla tua situazione attuale?» mi accusa. Ma più che accusarmi, mi sta spronando. Spronando a muovermi, a reagire, a insorgere. «Perché non provi a guardare con altri occhi, o da un altro punto di vista? È solo una questione di prospettiva.»
Abbasso lo sguardo. Mi torturo le mani, prima di rispondere. «Perché sarebbe difficile, tremendamente difficile. Meglio che parta pensando che sia finita, piuttosto che il contrario. Io resterei a Roma in ogni caso e lui se ne andrebbe e soffriremmo entrambi molto di più. La delusione richiede meno energia della speranza.»
Hazel sospira pesantemente. «Lo capisco» dice. «Ma non lo trovo giusto. Quando incontri un ostacolo, Nico, tu fai marcia indietro. Non cerchi mai di saltarlo, quell’ostacolo. Abbandoni semplicemente la sfida.»
La voce di Frank ci riscuote, facendoci voltare le teste di scatto. Dalla cucina, chiama: «Ehm… tesoro? Ho un problema coi pomodori. Potresti venire un attimo a vedere?»
«Arrivo» risponde lei nella sua direzione. Si alza in piedi, mezzo dirigendosi verso la cucina. Diretta a me, dice: «La felicità va conquistata. Io vorrei che tu ti alzassi da questo divano e lottassi per averla. Perché Will te la può dare, te lo assicuro. E tu hai tutto il diritto di essere felice.» Si passa una mano tra i capelli, riportandoseli indietro. «Io devo aiutare Frank con la cena. Intanto, tu pensa a quello che ti ho detto, okay? Per favore.»
Alzo un pollice. «Affermativo. Va’ pure.»
 

 
È mezzanotte passata. Forse l’una. Non lo so con precisione. Arriva un certo momento, nel corso della notte, in cui distinguere le ore non è più possibile.
La tv a volume inferiore al dieci è un brusio che non sento quasi più, tanto ci sono abituato. La luce mi irrita gli occhi stanchi, ma non ho abbastanza forza di volontà per prendere il telecomando e spegnerla.
Quindi, mi ritrovo a seguire svogliatamente una commedia d’amore con George Clooney. George e la coprotagonista sono ancora alla parte iniziale in cui tutto va bene e la vita sembra magica e piena di sorprese. Illusi.
Dovete prima litigare, distruggere il vostro rapporto e piangere tutte le vostre lacrime. Poi, visto che siete i personaggi di un film—una commedia amorosa, per di più—, vi riappacificherete e tornerete insieme. Vi sposerete, avrete dei bambini e sarete per sempre felici e contenti. Fine.
Magari la realtà funzionasse allo stesso modo.
George si gira, rivolgendo lo sguardo direttamente allo spettatore. L’obiettivo si stringe sul suo sguardo, che pare vedermi dentro e leggere tutta la storia della mia infima vita, come un giudice infernale. Sembra rimproverarmi, ricordandomi tutte le parole che sono uscite dalla mia bocca riguardo Will Solace.
Lo fisso di rimando. Nella mia mente, ha luogo un ipotetico dialogo tra noi due. Io e George. Il fatto che suoni proprio come il titolo di uno sciocco film di serie B è ironico.
 
GEORGE: Hai detto di non essere innamorato di lui, figliolo. Se le cose stanno così, non dovresti crucciarti.
NICO: Hai ragione.
GEORGE: Allora, perché? Perché ti tormenti?
NICO: …
GEORGE: Sono qui per aiutarti, figliolo. Credimi. Confidati con me. Troveremo una soluzione insieme.
NICO: Grazie, George, te ne sono molto grato. In verità, devo dirti che penso di essere fottuto. E con “fottuto” intendo “innamorato”. Anche se, nel mio caso, le due parole sono sinonimi.
GEORGE: Ma è meraviglioso, figliolo. Innamorarsi è una sensazione che ci smuove qualcosa dentro.
NICO: Come il vomito.
GEORGE: Non essere così pessimista, ragazzo mio, avanti. Sei troppo giovane per essere tanto cinico. Guarda la situazione come lo farebbe Will. Scova il bianco nel nero. Sei in grado di farlo e sono certo che ti aiuterà.
NICO: Non so quanto tenere in considerazione i consigli di una proiezione della mia mente che si rivolge a me chiamandomi “figliolo”.
GEORGE: Ehi, sei tu che mi immagini parlare in questo modo. La colpa è tua.
NICO: Vero.
GEORGE: In ogni caso, figliolo, ascoltami. Sai cosa ti direbbe il tuo dottore? Ti direbbe che come una frase può distruggere, una frase può ricostruire, e che è dalle macerie che sorgono i palazzi più alti. O che persino in un edificio pericolante, corroso dal tempo e intaccato da troppi anni di scarsa manutenzione, c’è bellezza. Guardati attorno, figliolo. Questa città ne è l’esempio perfetto. Non c’è nessun monumento migliore di Roma stessa per farti capire che la bellezza è tale perché imperfetta.
NICO: …
NICO: Sta’ zitto, George.
 

Devo averlo detto ad alta voce, perché avverto i passi strascicati di Frank avvicinarsi. Mi si para davanti in canottiera e pantaloncini abbinati con su ricamati dei gatti della fortuna cinesi. Sono troppo esausto per ghignare o fare una battuta irriverente.
«Stavi parlando qualcuno?» mi domanda, stropicciandosi gli occhi.
«No, nessuno» rispondo con voce rauca. «Tu, piuttosto, ancora sveglio?»
Frank si passa una mano sui capelli a spazzola. «Sono insonne» sospira. «Il caldo mi uccide. Pagherei oro per poter dormire su una lastra di ghiaccio.»
Mi rigiro sul divano. «Mi dispiace. Purtroppo, l’aria condizionata è un lusso che non abbiamo.»
«Non ti preoccupare. Per la fine della vacanza, mi sarò abituato al clima.» Deglutisce. «Spero.»
Un debole sorriso si stiracchia sulle mie labbra.
«Comunque» riprende il ragazzone, «io torno a letto, pregando che riesca a prendere sonno.»
«Ce la farai, amico, non ti abbattere» replico. «Va’ pure. Io non ho la forza di alzarmi da qui.»
Frank mi rivolge un piccolo sorriso. Sta per tornare nella camera matrimoniale, quando si blocca e si volta di nuovo nella mia direzione. Il suo tono di voce è completamente cambiato.
«Per quel che vale, Nico, penso che Hazel abbia ragione a dirti di conquistarti la tua felicità. Will ti ha già cambiato molto, in meglio. Voi due, insieme, sareste grandiosi. Mi sovviene una parola che ho letto da qualche parte, in giro per la città, che trovo adatta a definirvi. Excelsior. Ecco, io credo che tu e Will sareste questo: più in alto
Si gratta il collo, in imbarazzo, e conclude augurandomi la buonanotte. Come se fossi in grado di chiudere occhio.
 

 
Non ho idea di quello che mi stia succedendo. Concentrarmi mi riesce impossibile, prestare attenzione a quello che mi accade intorno è uno sforzo inutile. Questa mattina, ho rischiato di rovesciare il caffè per due volte e stavo per aggiungerci dei cereali, pensando si trattasse di latte. Quando Hazel mi ha chiesto cosa avevo voglia di fare oggi, le ho risposto “sì, sta finendo il caffè solubile”. È come se, ad ogni respiro, inalassi hashish al posto dell’ossigeno.
Probabilmente appaio piuttosto fuori di me, perché Frank ed Hazel concordano nel non fare nulla di stressante, oggi. Con calma, ci prepariamo per andare al mare e trascorrere una tranquilla giornata destinata unicamente al riposo della mente.
Peccato che mi sia semplicemente impossibile.
Non faccio che ripensare a tutte le stupide, piccole cose che mi sono permesso di fare con Will. A come, da ubriaco, ho lasciato la mia mente libera di fantasticare e credere che lo stessi baciando come avrei voluto baciare il custode della mia felicità. A come mi sono lasciato convincere così facilmente che la vita fosse migliore di come l’ho sempre vista. A come mi sono concesso di innamorarmi lentamente di lui.
Sono stato stupido e ingenuo a pensare che, almeno una volta nel corso della mia intera esistenza, qualcosa potesse andare bene.
A pranzo, sotto l’ombrellone, sbocconcello svogliatamente un tramezzino al tonno senza fare danni. Intercetto lo sguardo preoccupato di Hazel e, più tardi, mi sforzo di inghiottirne un altro. Mastico lentamente, ma non sento nessun sapore.
Rivedo davanti ai miei occhi il momento in cui gli ho sbattuto in faccia il mio tentato suicidio. Noto i minuscoli dettagli nella sua espressione che la rabbia mi ha impedito di vedere. È come assistere in diretta allo schianto di una bomba. Il mio intento era quello di ferirlo il più possibile e mi accorgo di averlo seguito scrupolosamente, radendo al suolo tutto quello che potevo.
Lo immagino preparare la valigia, le spalle curve e la testa china. Ripiega una maglietta, e pensa: ha cercato di morire in una vasca da bagno e io l’ho fatto cadere in acqua. Ripiega una maglietta, e pensa: è come se avessi deciso che la sua vita non valesse ancora abbastanza. Ripiega una maglietta, e pensa: ho rovinato tutto ed è giusto che mi odi.
Ma il fatto è che io non ti odio, Will Solace. Io odio me stesso, avrei detto un tempo. E non è neppure questo, perché sono venuto a patti con la mia natura e ciò essa comporta.
Non ti odio, Will Solace, perché mi hai mostrato come sia impossibile odiare qualcosa, ma soprattutto qualcuno, quando riesci a vedere che il nero delle persone non è solo nero, che lì dove sono più scure ci sono i colori che hanno assorbito più luce. E sono belle, lì. E sono belle, lì, soprattutto lì.
Mi hai fatto capire che, a volte, le cose che teniamo nascoste, quelle che tentiamo di non far vedere a nessuno, quelle che non mettiamo alla luce del sole perché non la riflettono, sono le più speciali. Sono fiori che si aprono solo di notte, quando tutto è buio.
Finalmente l’ho capito, Will.
Ho capito anche che il segreto della felicità è la libertà, e che il segreto della libertà è il coraggio. E diamine, io voglio essere libero di essere innamorato di te e voglio avere il coraggio di amare tutte le parti di te e voglio essere felice con te.
Per cui scatto in piedi all’improvviso, facendo sobbalzare mia sorella e Frank, e annuncio: «Io vado all’hotel.»
Pian piano, l’approvazione sostituisce lo sgomento sul viso di Hazel. Mi rivolge un sorriso soddisfatto, si alza e dà un colpetto col piede al suo fidanzato, ancora sdraiato sull’asciugamano. «Forza, sistema tutta questa roba. Io chiamo un taxi.»
Frank fissa la sua ragazza, poi me, infine di nuovo Hazel. Lentamente, capisce ciò che sta succedendo e fa come gli è stato detto, senza né a né ba.
Lo aiuto a sbattere via la sabbia dai teli mare, ripiegarli e rimetterli in un’enorme shopper. Chiudiamo l’ombrellone e lo infiliamo nella sua apposita custodia. L’operazione richiede circa cinque minuti. Ne dobbiamo aspettare altri venti, prima che un taxi si faccia strada nel traffico e arrivi.
L’autista di un’età indefinita tra i trenta e i cinquant’anni si offre di aiutarci a caricare la roba nel bagagliaio e, quando sente mia sorella parlare inglese, fa una smorfia, malcelata dietro la barba nera. Sentirmi dargli l’indirizzo in italiano lo risolleva un po’, gli sfugge un sorriso piccolo e imbarazzato che esprime tutto il suo sollievo.
«Ti dispiace se accendo la radio?» mi chiede con una voce rovinata dal fumo.
Seduto accanto a lui sul sedile del passeggero, scuoto la testa. «No, faccia pure.»
Il tassista non se lo fa ripetere due volte e, pochi istanti dopo, musica reggae riempie l’automobile. Nello specchietto retrovisore, colgo Hazel muovere piano la testa, seguendo il ritmo. Frank la osserva cercando di non sorridere e, quando si accorge che li sto guardando, mi rivolge un sorriso complice.
Man mano che ci avviciniamo all’hotel di Will, l’ansia si fa strada nel mio corpo. Non so se si trovi ancora lì o se è già partito, né a che ora è il volo né se riuscirò a fermarlo. Devo parlargli di persona e chiedergli di restare, qui, con me.
Tamburello sulla coscia con le dita, faccio schioccare la lingua contro il palato e mi torturo l’orlo della maglietta. Quando non riesco più a tollerare l’attesa e l’ansia è diventata un mostro che mi rode dall’interno, sento la mano di Hazel posarsi sulla mia spalla.
«Ci siamo quasi» mormora. «Vedrai che faremo in tempo.»
«Lo spero» sussurro in risposta.
Una parte della mia testa continua a gridarmi che tutti i miei sforzi saranno inutili. Tengo occupata la mia mente contando quante macchine gialle vedo prima del semaforo e quante di esse siano delle Panda—praticamente tre quarti. Sto iniziando una nuova serie, quando il taxi rallenta fino a fermarsi.
«Eccoci qui» annuncia l’autista. «Sono…»
«Aspetti» lo blocco. «Potremmo dover fare un’altra corsa.»
L’uomo scrolla le spalle, mentre io spalanco la portiera ed esco in strada. Copro la distanza tra me e l’entrata a grandi falcate e non ho neanche la pazienza di aspettare Hazel, che mi tiene dietro.
Raggiungo la reception e sbatto le mani sul bancone, attirando immediatamente l’attenzione della donna seduta dietro di esso. Con la divisa e i capelli biondi raccolti in uno chignon stretto, non saprei dire se si tratti della stessa della sera scorsa.
Prima che possa chiedermi se desidero prenotare una camera, mi rivolgo a lei il meno bruscamente possibile: «Sto cercando un vostro cliente. Potrebbe gentilmente dirmi se si trova ancora nella sua stanza?»
La receptionist inclina la testa di lato. «Mi dispiace, signore, ma non possiamo divulgare certe informazioni.»
Combatto contro il desiderio di afferrare qualcosa e abbatterlo sul suo cranio. «Lei…»
«Ci dispiace arrecarle disturbo.» La voce di Hazel si impone sopra la mia. Usa il suo tono professionale, quello chiaro ed educato che, però, non ammette discussioni. «Ma deve capire che il vostro cliente, ovvero il nostro amico, ha un aereo da prendere. Siamo qui per accompagnarlo all’aeroporto e siamo già in terribile ritardo. Non potrebbe fare un’eccezione?»
La donna la squadra dall’alto in basso. Forse è il fatto che abbia corso per starmi dietro e che, quindi, appaia sul serio trafelata a convincerla. Raddrizza la tastiera del pc fisso, spostandola di qualche millimetro, e domanda: «Conoscete il piano e numero della camera?»
«Quarto piano. La camera numero 7» rispondo. «Il cliente è Will Solace.»
La receptionist alza un indice smaltato di rosso, chiedendoci silenziosamente di aspettare. Digita velocemente qualcosa, muove il mouse sullo schermo e annuisce, prima di rivolgersi di nuovo a noi.
«Il vostro amico ha già lasciato l’hotel. Ha riconsegnato la chiave elettronica alle quattro e quarantacinque circa.»
Cazzo. È più di un’ora e mezza fa.
Le mani mi scivolano giù dal bancone. L’ho perso. L’ho perso.
«Oh, menomale. Arriverà in tempo, allora.» Hazel sospira pesantemente, portando avanti la recita. «Per caso, sa se ha preso un taxi o…?»
La donna socchiude gli occhi, ma le risponde. «Noi offriamo un servizio gratuito di trasporto. Le navette partono ad orari precisi verso Fiumicino, non c’è la necessità di raggiungere l’aeroporto in taxi.»
Le mie speranze si risollevano di mezzo centimetro. Almeno, so dove posso raggiungerlo.
Sempre che parta da lì, insinua la mia ansia. E poi, non sai con che compagnia vola. Né quando l’aereo decollerà e se arriverai mai per tempo. È altamente probabile che tu non lo raggiunga mai.
Mia sorella è rapida nel congedarsi. «Grazie mille. Molto gentile.» Mi afferra per il gomito e mi trascina via, sibilandomi: «Muoviti, Nico. Non so cosa stia accadendo nella tua testa, ma puoi farcela ad arrivare prima che parta. Solo, sii veloce
Usciamo di corsa dall’hotel. La vedo agire, decisa e concentrata, e ammiro la sua forza e il suo controllo. Se fossi sempre come lei, potrei raggiungere tutti gli obiettivi che mi sono prefissato.
Aumento il passo. Ce n’è uno che non posso permettermi di mancare. Quindi, ricaccio indietro ogni pensiero che mi ostacola e inizio a ragionare.
Will deve andare in America e Fiumicino è l’aeroporto più grande di Roma, anche noi siamo atterrati lì. È più che probabile che per Will valga lo stesso. Lui ha i bagagli e per imbarcarli serve tempo, per questo è andato lì così presto. Ma i gate aprono solamente quando l’aereo è pronto ad accogliere i passeggeri, ovvero non molto prima che decolli. La chiave è riuscire ad arrivare fin lì e convincerlo a non partire. Tutto sommato, non è un’impresa impossibile.
Rimontiamo in macchina. Il tassista mi cerca con lo sguardo, in attesa di ulteriori istruzioni.
«Ci porti all’aeroporto di Fiumicino» dico. «Faccia il più in fretta possibile.»
«Okay.» L’uomo mette in moto. La musica reggae esce fuori dalle casse e sembra spronarlo a guidare più veloce. «Nessun problema.»
Non ho idea del tempo che impieghiamo. Riesco solo a pensare a cosa farò non appena arriverò sul posto. Pianifico le mie azioni, stilano una scrupolosa lista nella mia testa, che seguirò non appena metterò piede in aeroporto. Per una volta, l’ansia non riesce a mettere radici in nessun modo.
Eppure, sono così teso che mi fa male la pancia e non azzardo un movimento, per paura di scattare come una molla. Persino le mie dita sono un fascio di muscoli pronto a reagire ad un minimo segnale; sotto la pelle, intravedo i tendini in tensione.
Poi, il tassista dice: «Due minuti e siamo davanti all’ingresso principale.»
«Okay. Si fermi lì e ci aspetti» lo istruisco, leggendo il punto uno della lista nella mia testa. «Ritorneremo con un nostro amico.»
L’uomo si limita a girare la faccia verso di me, guardarmi con i suoi occhi neri e informarmi, la voce arrochita: «È una corsa bella lunga, questa. Ti costerà un po’, ragazzo.»
Inserisco brevemente una postilla al punto uno, che comprende la seguente risposta.
«Me ne rendo conto, ma è necessario. Lei evidentemente non può sapere perché sto facendo tutto questo, e forse non le interessa nemmeno, però le assicurò che salderò il conto, non importa quanto alto esso sia, perché per questo ne varrà la pena.»
Il tassista ritorna a guardare la strada. Si inserisce in un posteggio riservato, in coda dietro altri due taxi bianchi, e spegne il motore. Sto attuando il punto due della lista—uscire dall’auto il più velocemente possibile per non sprecare neanche un secondo di tempo—quando lo sento pronunciare quattro semplici parole.
«Lo fai per amore.»
Fermarmi per confermare la sua intuizione è fuori discussione, ma, prima di sbattere la portiera, gli rivolgo un sorriso che spero interpreti come un sì. Dopodiché, sono già all’interno dell’aeroporto e corro. Schivo le persone che mi si parano davanti, rischio di travolgere diversi borsoni, non so che direzione devo prendere, ma continuo a correre.
È Frank a scorgerlo per primo. Il pannello digitale che riporta tutti gli arrivi e le partenze è enorme, piazzato su una parete in una zona dedicata ai passeggeri in attesa del proprio volo. Svariate destinazioni si susseguono una dopo l’altra—Bangkok, Milano, Parigi, Livorno, Beirut, Dublino, Amsterdam—ma New York, New York dov’è? Mi manca il fiato e le ginocchia mi tremano, quando, alla fine, la scorgo.
19.07 New York JFK Airport, GATE 4E: APERTO.
Lancio un’occhiata all’orologio. Le 19.00. Ho sette minuti per trovare quel gate e Will. Mentre una parte del mio cervello pensa merda merda merda, l’altra è attiva e mi conduce fino a un inserviente, cui chiedo trafelato: «Sa dirmi dove si trova il gate 4E?»
L’inserviente ci riflette su un attimo, poi indica alle mie spalle. «Tutti i gate dall’1 al 13 dovrebbero essere da quella parte. Provi a vedere, non ne sono sicuro.»
«Grazie mille.»
Svelto, ritorno da Hazel e Frank e li prendo per le braccia, portandoli nella direzione indicatami dal tipo. Il punto tre della lista—correre—deve essere messo in atto. Mia sorella fa due passi per uno dei miei, ma resiste straordinariamente bene.
«Hai sentito?» domanda. Quando scuoto la testa, mi spiega: «Credo abbiano fatto l’ultima chiamata per il volo. Non ne sono sicura, l’inglese era pessimo e c’era troppo rumore, ma…»
«Ci arriveremo» la interrompo. «Dobbiamo arrivarci.»
La strada verso il gate 4E è così lunga da sembrare infinita e, ad ogni passo, sento il tempo scivolare via veloce e inesorabile. Solo quando raggiungo l’area dei metaldetector, mi rendo conto di quanto impossibile sia la mia impresa.
Nessun passeggero è ancora qui, non c’è nessuna coda da superare, ma non è questo il problema. Perché, a differenza dei viaggiatori, i poliziotti ci sono ancora. Chiacchierano, non sono attenti come quando svolgono il loro lavoro, però sono qui e io non riuscirò mai a convincerli a lasciarmi passare in tempo.
Controllo l’orologio. Le 19.04. Mi mancano tre minuti.
È finita.
Eppure, qualcosa dentro di me si ribella. Non voglio arrendermi. Se mollassi proprio ora, non me lo perdonerei mai. A volte non è il successo a contare, ma il superamento dei propri limiti. Per cui, anche se so che non c’è nulla da fare e che è tutto già deciso, raggiungo di corsa la prima postazione di metaldetector, la oltrepasso, attirando l’attenzione della poliziotta lì vicino, e, quando mi si avvicina con aria minacciosa, rispondo al suo “che cosa sta facendo?” con una supplica.
«Lasciatemi passare vi prego lasciatemi non è suonato nulla non ho niente addosso vi prego ne va della mia vita vi supplico devo passare devo è per amore.»
Lo ripeto una centinaia di volte—lasciatemi passare vi prego lasciatemi non è suonato nulla non ho niente addosso vi prego ne va della mia vita vi supplico devo passare devo è per amore—, li guardo con gli occhi di un disperato e li prego con lo stesso fervore di un credente.
«Vi supplico devo passare devo è per amore.»
È per amore. Ma a chi non è innamorato, dell’amore non importa nulla.
Alla fine, un poliziotto sui venti mi afferra per la maglietta e mi intima: «Se non la smette, dovrò ammanettarla e sbatterla dentro.»
Lo fisso negli occhi finché, ormai, le 19.07 sono passate e l’areo di Will è partito.
Sostengo il suo sguardo un ultimo momento, dopodiché alzo le mani e dico: «Va bene, va bene, me ne vado.»
Tanto per esserne sicuri, comunque, mi accompagnano all’uscita. Hazel e Frank, che si sono tenuti in disparte per evitare conflitti internazionali, ritornano al mio fianco. Uno alla mia destra e una alla mia sinistra, sembrano i miei due angeli custodi. Silenziosi, rimontiamo in macchina.
Il tassista mi scocca un’occhiata, poi controlla i sedili posteriori e domanda: «L’amico dov’è?»
Devo schiarirmi la gola prima di riuscire a parlare. «Andato» rispondo. «Non ha funzionato.»
L’uomo si passa una mano sulla bocca. Articola una bestemmia, ma questa non lascia le sue labbra. Alla fine, sospira e chiede: «Dove ti porto, ragazzo?»
Mi abbandono contro il sedile e gli do l’indirizzo di casa. Il quieto ronzio del motore mi avverte che la macchina si sta muovendo.
La mano di mia sorella stringe la mia per tutto il tragitto. Non dice nulla e le sono grato per questo. Non ho bisogno di parole, adesso, ma solo del suo muto affetto fraterno. Quando sarò pronto, forse, verranno anche le riflessioni e tutto il resto.
Osservo distrattamente il cielo colorarsi del rosso e dell’arancione della sera, mentre percorriamo i grandi viali di Roma. Una sezione di epidermide in mezzo al torace, spostata di qualche centimetro verso sinistra, manda segnali che il mio cervello non riesce a tradurre. Non c’è né malinconia, né tristezza, né dolore, né pace, ma una sorta di connubio di tutte queste emozioni. Il mio corpo è pervaso da un torpore invincibile.
A un certo punto, mi scopro fuori dal taxi e non so come io sia riuscito a scendere né riesco a ricordarmi di aver saldato il conto. Hazel si stringe a me, con un braccio di Frank attorno alle spalle. Percorriamo i pochi metri che ci separano dal portone di casa.
Poi: «Nico!»
Alzo la testa e, poco più avanti, su una strada mal asfaltata sporca di gomme da masticare sputate e sigarette gettate con noncuranza, lo vedo. I capelli biondi illuminati dagli ultimi raggi del sole, gli occhi azzurri in cui scorgo un amore che, per la prima volta, posso dire di ricambiare, e le labbra che brucio dalla voglia di baciare.
Scivolo via da mia sorella e mi avvicino. Will si trascina dietro la valigia, poi, non sopportando di essere così impacciato, la abbandona con un gesto brusco e copre la distanza che ci separa in pochi passi di corsa.
Il suo respiro è ancora irregolare, quando allunga la mano, fa per toccarmi il braccio, si ricorda delle mie ultime parole e si ritrae di scatto. Si passa nervoso la destra tra i capelli e sbuffa. Cerca di parlarmi senza guardarmi negli occhi, ma non ce la fa e, quando si volta a fronteggiarmi, il discorso che aveva preparato gli muore in bocca. Il suo sguardo si addolcisce e tutta la sua spavalderia evapora. Se potessi esprimere un desiderio, vorrei poter vedere me stesso come lui vede me e sentirmi traboccare d’amore.
Faccio un passo in avanti. Will ne accenna uno indietro, poi ci ripensa e rimane fermo dov’è.
«Nico—io—il fatto è—non so—»
Mi chino in avanti e lo bacio. Le sue labbra si schiudono sotto le mie, le nostre lingue si toccano e io sono solamente in grado di pensare che potrei morire in questo esatto momento e che non mi dispiacerebbe. Will preme contro di me e approfondisce il bacio. I miei polmoni sono pieni di una gioia che non ho mai provato prima d’ora ma privi di ossigeno, e sono costretto a separarmi da lui.
Le nostre fronti si sfiorano e le mie labbra sono ancora un’estensione delle sue, quando sussurro: «Ero all’aeroporto.»
Will spalanca gli occhi. «Tu… all’aeroporto?» ripete, incredulo.
«Mh-mh» mormoro, prendendogli il labbro inferiore tra i denti.
Lui prova a sorridere, ma gli è impossibile, per cui si abbandona placidamente a un secondo bacio.
Dopo esserci separati, cerco di recuperare un briciolo di compostezza e gli chiedo: «Ho detto un sacco di cazzate e mi sono comportato di merda e sono tremendamente dispiaciuto. Potrei capire un tuo rifiuto, però… Ti andrebbe di rimanere?»
Ora, Will mi sorride apertamente. «Sei un rubacuori, Nico Di Angelo» risponde. «E sì, mi andrebbe di rimanere.»
Gli rivolgo un timido sorriso e gli prendo la mano. Così, ritorniamo da Hazel e Frank e, insieme, saliamo i primi gradini verso casa.
 
 
***
 
NdA: La fic è conclusa, ma, se già mi conoscete o avete letto qualcosa di mio, saprete che le mie note d’autrice non sono mai corte. Un giorno riuscirò ad essere concisa, lo giuro.
Quindi:
  • Il titolo della fic è preso da una frase tratta dalla canzone “Roman Holiday” di Halsey, mentre il nucleo della fic è frutto della scoperta degli U2 e di un ascolto ossessivo di “Song For Someone”.
  • Non se Nico sia rimasto IC. (Lo spero hahah) Se avessi scritto in terza persona, sicuramente lo sarebbe stato di più, ma 1) la storia esigeva la prima persona e 2) volevo sfidare me stessa e provare a scrivere uno dei personaggi più complessi di zio Rick in questo modo.
  • Will Solace è un capitolo a parte. Visto che in BOO è comparso un po’ tanto a caso e ha sgomitato per inserirsi nel quadro dei personaggi, sappiamo giusto il necessario su di lui, ovvero che è una testa calda, porta le infradito e ha una cotta pazzesca di origine sconosciuta per Nico. Ora, io sono partita da queste informazioni e l’ho mosso nella fic cercando di rimanere il più IC possibile ma, se non corrispondesse perfettamente all’idea di Will, mea culpa.
  • Ho voluto che il suo soprannome fosse “dottore” perché lo trovo stra carino e, be’, due parole: Doctor Who.
  • Ho detto che Will studia a Stanford, che si trova in California, ma dico che il suo areo arriva al JFK Airport di New York. Questo perché non esistono voli diretti Italia-West Coast e che, se ci si vuole arrivare, bisogna fare scalo a NY. Perché Stanford? Perché è l’unico cazzo di college che conosco a parte Harvard LOL
  • Sono stata a Fiumicino una volta sola, facendo uno scalo di manco mezz’ora. Per cui, non ho idea di come sia fatto o come ci si arrivi né quanto disti da Roma città, ma vige la regola che gli aeroporti sono tutti uguali (e io ne ho girati parecchi) così ho preso spunto da quello di Malpensa e fine.
  • No, non sono di Roma. Avrei potuto ambientare tranquillamente tutto dove abito io, se non fosse che a Milano, d’estate, non c’è un cazzo di nessuno e che, insomma, per una fic del genere mi serviva una città che fosse zeppa zeppa di storia e monumenti (e mare) etc. e Roma era perfetta. L’ho visitata anni fa, però non ricordo molto e, nelle descrizioni, mi sono orientata grazie a google immagini.
  • Ho sottolineato un po’ l’aspetto della lingua per deformazione professionale, però penso sia più che credibile che l’inglese arrechi un po’ di disagio in Italia, quando si deve parlarlo/comprenderlo.
  • Il tassista dà del tu a Nico, mentre Nico gli dà del Lei. Questo non è a caso e vorrei vedere se c’è qualcuno che capisce che l’ho fatto hihi
  • Sì, dovevo incentrare tutto sul rapporto di Nico e Will, sì, ho bocciato da subito l’idea di una fic introspettiva che partisse con per Nico, Will era la luce del mondo, ciò che lo teneva in vita e bla bla bla. Sparatemi. Io sono un’amante dei gesti e delle azioni, dei dialoghi ma anche del non detto, per cui palesare non era neanche un’opzione. Seconda cosa, non credo in una storia di amore eterno tra i due. Penso che Will possa insegnare a Nico come essere felice e come non vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto, ed è quello che ha fatto qui, ma, già, la Solangelo non richiede un amore totalizzante come Pernico e Jasico.
  • Non potevo ovviamente dimenticarmi di Hazel. Lei è una figura fondamentale per Nico, dopotutto. La Frazel, dolcissima coppia di cui non scrive mai nessuno, fa da background per tutta la fic perché merita ogni briciolo d’ammmore.
  • Ammetto di aver letto del grounding su tumblr. Stavo facendo ricerche per una storia e uno dei classici post di aiuto/supporto psicologico per depressi&co è spuntato fuori. Ho cercato su google. Sono venute fuori diverse varianti del processo, ne ho scelta una adatta, fine. La morale è che esiste.
  • Ecco, diciamo pure che sono una merda di infermiera. NON HO IDEA DI COSA SI DEBBA FARE IN SITUAZIONI DI TAGLI E GOOGLE ERA TRAGICO E IO HO SPARATO TUTTO A CASO CHIEDO VENIA SE HO SCRITTO CASTRONATE
  • Non so se George Clooney abbia mai girato una commedia d’amore, ma era troppo affascinante l’idea di un dialogo tra lui e Nico so whatever
  • Ho scritto quest'ultima parte di corsa e, quando dico di corsa, intendo che, se avessi potuto scrivere mentre correvo, l'avrei fatto. Credo che quest'ultima parte risenta un po' della mancanza di tempo e penso anche che si veda, ma spero non troppo. Per correttezza, non farò delle aggiunte al testo, perché così l'ho spedito alla giudiciA, così verrà valutato sia da lei che, in un certo senso, da te, lettore. (se poi me lo dici con una recensione, ti vorrò un po' più bene. sono una fan di tutte le bandierine, quindi arancione, bianca, verde non importa.)
  • Nel primo capitolo, c'è un chiaro riferimento a una battuta tra Katniss e Finnick ne Il canto della rivolta. Dal momento che Finnick è il mio modello di Will e che, poverino, gli è capitato quel che gli capitato, persino i film son finiti etc. l'ho fatto rivivere nelle parole del biondino. «Che c’è, trovi che ti distragga?»
  • Se avessi potuto scrivere una fic a rating rosso, questa lo sarebbe stata. Ma, purtroppo, niente Solangelo sex perché il contest non prevedeva ff rosse.
Dulcis in fundo, ringrazio la mia socia, nonché compagna di banco, per avermi spronato a scrivere questa storia fino in fondo minacciandomi di morte (ma solo qualche volta). Da sola, sarei morta a causa di verifiche varie e non avrei combinato una sega.
Ringrazio anche voi, lovely readers, e aturiel per aver indetto questo un contest ed essersi sorbita una marea di parole. Sis felix.
  
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