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Autore: Billie Edith Sebster    30/12/2015    5 recensioni
[Seconda Guerra Mondiale / Olocausto AU! OOC! DESTIEL]
In un mondo dove vecchie tensioni si rinnovano con inaudita violenza, ferite non ancora rimarginate si riaprono ed il buio e la morte marciano sostenute in schiere compatte, c'è ancora spazio per qualcosa che non ha l'amaro sapore dell'odio. E' il 1938 anche per una cittadina fuori dal tempo come Colonia, e l'incontro di Dean e Castiel è pura coincidenza: è un amore prorompente che li porterà a trovare un espediente per cui combattere nel dolore e nel sangue ogni battaglia si presenterà loro davanti. Ma non sempre i nemici ci affrontano di petto, altri preferiscono strisciare da dietro e soffocarti lentamente nel tuo stesso passato...
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
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Salve a tutti, discepoli!

So che probabilmente mi davate già per morta e onestamente nemmeno io sono del tutto certa di potermi definire viva, ma ho deciso di sfruttare le ore della notte, trasformarmi in un gufo iperattivo e con la sola compagnia della mia candela salva-anime propinarvi un nuovo capitolo. Oggi sarà un breve, ma non disperate! (per ora…) perché da qui in poi le cose si faranno più movimentate…

Billie Edith

 

 

– Tuo… che cosa?

Kevin stava guardando Castiel con uno sguardo che non tradiva altro che ingenua perplessità.

Quest'ultimo non si scomodò a rispondere. Aveva troppo male alla schiena (o a qualsiasi altra parte del corpo che fosse ancora abbastanza attiva da mandare impulsi nervosi al cervello) per sostenere una conversazione degna della sua definizione.

– Ma due uomini possono sposarsi? – insistette il ragazzino. Castiel, già pentito di aver fatto cenno a quella storia, si raggomitolò incurvando le spalle e chiudendo gli occhi, sperando che Kevin afferrasse l'antifona e lo lasciasse in pace. Quando mai aveva ragione?

--Allora? Non mi rispondi?

– No.

Uno sbuffo d'aria lo colpì sull'orecchio, segno che l'altro aveva appeno emesso un esagerato verso di stizza. – Con questo tuo ermetismo non giungerai da nessuna parte. – Cercò di contrattaccare, ma ciò servì solo a rendere Castiel ancora più infastidito.

– Forse l'obbiettivo è proprio quello. – Sbottò, più forte di quanto avesse voluto. Qualcuno, che già da prima stava origliando assistendo di sottecchi alla scena, si voltò a guardarlo con sorpresa.

– Non ho intenzione di raccontarti ogni singolo dettaglio della mia vita con lui. È una cosa che abbiamo fatto in segreto, tra di noi. Ci basta essere gli unici a saperlo.– replicò in tono piatto, lanciandogli un'occhiata indifferente.

Kevin si fissa le mani. – Scusami per l'invadenza.

Non parlarono più per il resto della serata. Ognuno riprese a farsi gli affari propri, ad ascoltare aneddoti di veterani della prima guerra mondiale o a cercare di prendere sonno ignorando i crampi allo stomaco.

Non ebbero mai più dei veri e propri dialoghi. Si parlavano a monosillabi e fraseggiavano con piccoli gesti. Castiel, ad esempio, quando notava che la razione di cibo del ragazzino era più scarsa della sua, senza farsi notare dalle guardie ne travasava un po' dalla sua scodella. Kevin, in cambio, molto più gracile e veloce, gli aveva dato un cucchiaio rubato ad un deportato polacco.

All'inizio, quella cosa dei furti non aveva affatto convinto il giovane americano, che si limitava ad assistere in silenzio ad un episodio ogni tanto, persone che si fregavano vicendevolmente piccoli oggetti come posate arrugginite, chiodi o pezzi di spago. Ma gli era bastata una settimana scarsa per apprendere che era uno dei pochi modi per garantirsi le poche cose di cui necessitavano, senza sentirsi in colpa al riguardo.

La regola numero uno era che l'egoismo, in un campo di concentramento, salvava più vite dell'eroismo.

Nel giro di un mese si era appropriato di un minuscolo cubetto di sapone all'acido fenico, una forchetta con i denti spezzati, il laccio di una scarpa ed un pezzo di cuoio di scarto dalle pelletterie che usava come prevenzione per i calli ai talloni. Il cucchiaio gli fu dato da Kevin quando Oliver (francese, lo superava di una testa in altezza) gli aveva rubato l'unica posata che aveva preso.

Il ragazzino aveva smesso di rompergli le scatole. Condividevano la branda e, occasionalmente, un quadratino di pavimento, scaldandosi a vicenda in inverno. All'inizio Kevin era sembrato molto restio a dormire così appresso a Castiel: gli omosessuali non erano comunque ben visti da nessuno. Ma quando aveva capito quanto il giovane dagli occhi azzurri fosse innocuo, si era visto costretto a fidarsi di lui.

Le cose procedettero stranamente monotone per alcuni mesi. Non per questo, fu tutto meno doloroso.

La mancanza di Dean lo corrodeva come il fuoco e, nonostante per certi momenti fosse in grado di accantonare il pensiero, la sua assenza lo colpiva come un pugno nello stomaco.

Dopo un anno, Castiel aveva alle spalle nessun tentativo di fuga, ventisei fustigazioni, otto minacce di morte, cinque pezzi di posate fra quelle che aveva rubato e quelle che si era fatto rubare e almeno quindici chili in meno. Poteva contarsi le costole, le sue braccia avevano mantenuto tono muscolare solo grazie ai lavori forzati e tutte le assi di rotaie che aveva portato su e giù per la piana spoglia che circondava il Konzentrationslager.

Aveva scoperto che, se possibile, l'estate in quell'inferno era peggio dell'inverno.

Il caldo afoso portava ad una violenta spossatezza, attirava insetti e le loro malattie, e le notti erano insonni a causa di tutti i corpi caldi ammassati l'uno contro l'altro. Verso luglio, per fortuna, non ci fu più bisogno di montare la ferrovia, e vennero mandati alle fonderie. Trasportare incudini, sicuramente, richiedeva maggiore sforzo, ma essendo tutti spediti su camion esterni non erano ustionanti come il metallo e scottature sanguinanti sulle mani guarirono relativamente in fretta.

Cambiò, in quattrocento giorni, almeno dieci paia di scarpe. Se non avesse usato lo spago per tenere insieme la suola probabilmente sarebbero state di più, e comunque doveva arrangiarsi perché altre non potevano averne. Nonostante il numero di morti fosse quasi pari a quello dei nuovi arrivati, il vestiario scarseggiava sempre, e quindi dovevano aver cura di lavare il proprio con assiduità. Mentre nei mesi freddi era una tortura dover indossare la camicia ed i pantaloni ancora umidi, in estate era sempre un giorno particolarmente migliore degli altri, perché riuscivano a stare freschi per un'oretta o due.

A causa di ciò, proprio quando credeva che dopo una breve epidemia di tifo niente di più piccolo di un proiettile l'avrebbe abbattuto, Castiel si prese probabilmente il peggior raffreddore di tutta la sua vita.

Il KB, letto Ka-Be e acronimo di Krankenbau, era probabilmente l'unico luogo in tutto il Lager in cui un detenuto si augurasse di finire, anche a costo di scorticarsi una mano a morsi.

Intanto, era molto meno affollata, tanto che c'era un letto ciascuno e comunque uno o due avanzavano sempre. Poi, chi alloggiava nel KB riceveva sempre una razione più abbondante di cibo e d'inverno era riscaldato. Castiel vi passò quasi cinque giorni. La sua permanenza nell'infermeria lo esonerò per una settimana dai lavori forzati.

In un qualche modo, però, chi usciva dal KB era sempre il primo preso di mira dai Kapò, e lui non fu da meno. Prese più bastonate e frustate in quel mese successivo che in tutto il resto del soggiorno.

 

Il mattino del tre marzo preannunciava una giornata carica di pioggia. Il cielo plumbeo era solcato da strascichi di nuvole dense e nere, l'aria era fredda e nell'erba rinsecchita intorno alle baracche si posava ancora un sottilissimo strato di brina. Quell'anno, l'inverno si stava protraendo a fatica accavallandosi alla primavera, rabbuiandola di nubi cariche di pioggia e rendendo ghiacciati i pavimenti dei Block.

La sveglia fu prima del solito. Quando due Kapò fecero letteralmente irruzione nella baracca, armati di manganello, menando fendenti per svegliare tutti gli Haftlinge, Castiel fu uno dei primi ad alzarsi. Il suo sonno, nonostante la spossatezza prostrante che lo portava ad essere stanco morto ogni sera, era comunque vigile e leggero. Aveva imparato a non allungare troppo il tempo di reazione ai comandi dei superiori.

Capì immediatamente che qualcosa non andava. Era notte fonda, forse nemmeno l'una, e l'alba non si era ancora affacciata all'orizzonte. Il buio era lacerato dai fari delle torrette di guardia agli angoli della piazza nord. L'ombra dei cancelli e del filo spinato era agghiacciante, si proiettavano sull'asfalto sporco come una serie di sbilenchi ed affamati sorrisi.

Si guardò alle spalle, mentre procedeva speditamente verso l'area aperta, alla ricerca di Kevin, ma il ragazzino era sparito. Ebbe un debole moto di preoccupazione mosso da puro egoismo, perché se gli fosse successo qualcosa o li avessero separati, trovare qualcuno disposto a condividere le nottate gelide con lui si sarebbe dimostrata un'impresa. Avrebbe dovuto cercare un altro triangolino rosa, ma nella sua baracca era probabilmente l'unico, e non gli era consentito cambiarla.

Giunsero nello spiazzo spoglio, una lieve brezza muoveva la polvere contro un ammasso sudicio al centro, dove tutti i fasci di luce bianca convergevano. C'era un SS.

Non li si vedeva tanto spesso, quindi significava che la cosa era grave. Furono messi in file, le solite cinque schiere di fantasmi bianchi ed infreddoliti, i volti cinerei tutti proiettati verso quell'agglomerato di indumenti insanguinati.

Comparvero altrettanti agenti, di fronte a ciascuna, imbracciando il fucile. Il sesto, che stava in mezzo, era in piedi di fianco al mucchietto, in attesa del silenzio. Quando il cicaleccio confuso ed assonnato si spense impiegando appena in una manciata di secondi, gli sferrò un calcio. Se si aspettava di vedere brandelli di stoffa sporca volare in tutte le direzioni, Castiel ebbe la tetra sorpresa di udire un rumore cupo e scricchiolante. Il corpo rotolò di lato e le braccia di spalancarono ai lati del busto, cadendo flaccide sul selciato. Uno schizzo scuro si rovesciò fuori da uno squarcio sulla tempia destra, impregnandosi fra le fughe delle mattonelle, nei capelli radi, nella terra.

Il ragazzo ebbe un conato di vomito, ma si trattenne. Dopo più di un anno, non si era ancora abituato all'odore del sangue ed alla vista di un cadavere così scompostamente abbandonato al suolo.

Cominciò a provare una paura cieca nell'esatto istante in cui capì come mai fossero stati sbattuti giù dal letto così all'improvviso, perché quel corpo fosse riverso per terra con una scarica di proiettili nel cranio e cosa facessero lì i sei agenti.

Quello al centro spiegò brevemente gli accadimenti dell'ultima ora: il detenuto 3620250 aveva tentato di scappare, ma rimanendo impigliato nel filo spinato, aveva perso tempo, e il faro lo aveva illuminato. Cosa gli fosse successo poi, era evidente, ed il resto ancora da concludersi. Fece un breve cenno agli altri cinque, che si voltarono verso le rispettive file e si misero a vagare fra i deportati.

Ognuno ne avrebbe scelti due.

Castiel sentì i suoi occhi bruciare mentre i passi si facevano man mano più vicini. Ad un certo punto si fermarono, qualche secondo di movimento, un uomo verso i sessanta incespicò sui suoi stessi piedi nel venir buttato fuori dalla fila, poi altro silenzio.

Il sangue gli rombava nelle orecchie, ora stava veramente piangendo, le lacrime erano calde e sapevano di paura, il loro sapore era pungente e salato sulle sue labbra spaccate, la testa faceva male e tutto quello a cui pensava era Dean, Dean, Dean, ditegli che lo amo, Dio ti prego salva Dean, non mi importa se fai ammazzare me, ti prego di salvare lui perché merita di vivere ed è tutta colpa mia per qualsiasi cosa gli sia successa, ti prego salva Dean ovunque egli sia, io sto per morire e mi va bene ma salva Dean.

Il ritmico passeggiare dell'SS si bloccò accanto a lui. Il suo cuore perse almeno due battiti.

Silenzio, guardava per terra. Aspettava di sentire una violenta scossa al braccio, di venire sgraziatamente scaraventato avanti con gli altri. L'SS non diceva nulla, e nemmeno Castiel, ma sapeva che stava fissando lui, probabilmente ghignando in direzione del suo volto piegato dal terrore, emaciato e scavato.

– Castiel? – poco meno di un bisbiglio, ma lo sentì chiaramente.

Altro silenzio. Castiel sollevò lentamente la testa, il cuore in un tumulto insopportabile. Incrociò un paio di occhi color tempesta sormontati da sopracciglia cespugliose. Erano spaventati quanto lo erano i suoi, ma cosa più incredibile, li riconobbe.

– Benny? – Passarono un paio di secondi a fissarsi attoniti. Poi accadde qualcosa di incredibilmente veloce, tanto che il giovane americano non seppe nemmeno seguire tutti i passaggi.

Benny sorrise malevolo, come se finalmente si stesse disfando di qualcosa di sgradevole e ripugnante, lo afferrò per le spalle, lo buttò fuori dalla fila e gli ordinò con un ringhio di marciare avanti. Castiel quasi cadde carponi, ma obbedì troppo terrorizzato ed arrabbiato per protestare. Poi, di nuovo, la voce di Benny lo raggiunse.

– Torna indietro! – latrò, facendo tremare i presenti.

Si sentì afferrare per un braccio e trascinare di peso al suo posto. – Oggi è il tuo giorno fortunato, razza di verme. – e piazzandosi di fronte a lui lo fece retrocedere fino al punto dove era pochi attimi fa. Appena prima di spostarsi gli prese la mano e gli mise dentro qualcosa. Si fissarono per un altro paio di istanti, Castiel ancora con il viso inondato di lacrime, Benny che in una muta preghiera di scuse gli serrava le dita attorno al gomito in una stretta docile ed amichevole.

Poi proseguì e scelse qualcuno in fondo alla fila.

Castiel strinse ciò che Benny gli aveva dato senza abbassare lo sguardo nemmeno una volta. Erano costretti a guardare, assistere impotenti all'esecuzione.

I dieci prescelti vennero allineati su una linea bianca a un paio di metri dalla prima fila, e fu ordinato loro di correre. Se fossero arrivati alla linea successiva senza cadere, avrebbero avuto il diritto di continuare a vivere.

Immediatamente, si lanciarono in avanti, Cas poteva vedere le loro membra (o quello che ne restava) contrarsi in un ultimo sforzo. Corsero per qualche metro, poi cominciarono gli spari, colpi assordanti che echeggiavano nel buio come spettri irrequieti, e uno dopo l'altro si accasciarono al suolo accompagnati da schizzi di sangue, tremendi gemiti e singhiozzi.

C'era un motivo se nessuno dei detenuti era certo dell'esistenza della Linea Successiva.

Benny, fra gli agenti inginocchiati e con ancora il fucile sottobraccio, si alzò e scaricò i bossoli vuoti, voltandosi verso di lui. Gli lanciò uno sguardo carico di tristezza ed angoscia, lo sguardo di chi ha desiderato di essere dall'altra parte della canna. Caricò l'arma in spalla e, con un ultimo cenno, se ne andò.

 

 

Castiel attese che tutti fossero tornati a dormire per allentare la presa su quello che scoprì essere un minuscolo involucro di carta.

Lo aprì il più silenziosamente possibile, scoprendo un messaggio scritto in una calligrafia che riconobbe all'istante. In quell'istante comprese quanto tutto fosse programmato, quanto Benny avesse rischiato per fargli arrivare quel messaggio e quanto fossero stati, anche se per una volta sola, dannatamente fortunati.

Diceva semplicemente “Sto arrivando.”

E occultato fra le pieghe di carta, c'era uno spesso anello d'argento, che portava le iniziali D. W

   
 
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