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Autore: DanielleNovak221    03/01/2016    4 recensioni
[AU!Destiel]
Dean e Castiel hanno entrambi nient'altro che dolore nel loro passato, ma se è vero che non tutto il male vien per nuocere, l'ultima di queste ha portato al loro primo incontro: Dean si sveglia in un ospedale, dopo un coma di due mesi, sa che la ripresa sarà una scalata piena di ostacoli, ma se Cas, il suo infermiere, gli starà vicino, allora sarà in grado di raggiungere la vetta sapendo di poterla condividere con qualcuno che merita davvero di avere un motivo per cui sorridere. Tuttavia, i fantasmi sono forti e sempre in agguato, non è mai troppo tardi perché possano decidere di attaccare trascinandoti giù per affogarti nei tuoi stessi ricordi...
{trigger warning per una sola scena di violenza, anche se non esplicitamente dettagliata}
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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In una notte buia e tempestosa (mica tanto) la vostra Dan emerse dalle ombre reduce da quello che probabilmente avevate immaginato come un pellegrinaggio verso Giove, visto quanto tempo non mi sono fatta sentire, ma ehi. Avevo perso la Password dell'account, sul serio vi aspettavate che mi mettessi avanti come ogni persona sana di mente avrebbe fatto?

Faccio schifo, lo so. Specie perché invece che continuare questa, in attesa della sacra illuminazione divina salvatrice di account, ne ho iniziata un'altra. Qualcuno mi conoscerà anche come Billie Edith Sbster (si, proprio quella sadica lì) per aver scritto http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3123369&i=1 ('Se questo è un angelo', non ho ancora capito come fare i collegamenti, povera capra) e mi odierà anche per questo; magari passate a darci un occhio, se vi va.

COMUNQUE, visto che di roba da fare non ne avevo abbastanza, cercherò di mandarle avanti entrambe. Non so con la scuola quanto questo sarà possibile, non farmi detestare più di quanto già non faccia sarà l'impresa epica della prossima Eneide (scritta da Chuck il Dio Appollaiato Fra Le Nuvole, nelle librerie dell'universo a settembre dell'anno duemilaventordici).

Va bene, va bene, me ne vado.

Solo, capitolo cortino perché sono le due di notte, accidenti a me.

Dan

 

12.

Qualcosa gli vibrava in tasca.

Fu la prima sensazione che percepì, un insistente e fastidioso tremore che si scuoteva contro il suo fianco e lo svegliava lentamente. Ad intervalli regolari si interrompeva e riprendeva, ogni volta sembrava sempre più sistematicamente aggressivo.

Cercò di distrarsi allontanando il ronzare molesto dalla sua mente, concentrandosi piuttosto su quale parte del corpo in quel momento gli stesse facendo più male. Un dissonante concerto di dolori grossolani e pungenti si davano a gara nel suo cranio, come se una serie di pallonate si abbattesse direttamente contro la testa, prima contro le tempie, ora sulla nuca, ed in un qualche modo anche alle orbite e alla mandibola.

Il resto era solo un grumo informe di malessere. Lo stomaco era stretto in un nodo, il cuore sobbalzava. I suoi muscoli erano tesi, e piccole macchioline nere ingombravano la sua vista.

Non si rese conto di dove fosse finché, con la coda dell'occhio non scorse Dean raggomitolato in una poltrona poco distante da lui, con il telecomando in mano e gli occhi puntati sulla televisione. Probabilmente non aveva sentito il cellulare ronzare, perché era schiacciato fra il divano e il suo fianco e perché il volume moderato emetteva il suono fischiante e fragoroso di una corsa automobilistica.

La presenza del ragazzo lo aiutò a tranquillizzarsi, ma ancora non aveva idea di dove si trovasse. Vedeva una finestra incorniciata di legno con tende bianche tirate a metà, la luce del sole entrava timidamente gettando ombre opache sul pavimento. C'erano scaffali stracolmi di libri impolverati, anticaglie disseminate più o meno ovunque, attrezzi da meccanico su quella o questa mensola. Spostando lo sguardo, notò le assi del pavimento leggermente scheggiate, il tappeto spesso su cui poggiavano il divano e la poltrona, la tv era un modello abbastanza vecchio ed era appollaiata su un tavolino di legno. C'era un odore caldo, probabilmente quello delle persone che ci vivevano mescolato alla carta vecchia, le braci morenti del camino e mobili d'antiquariato.

Spalancò del tutto le palpebre.

Il tedioso vibrare era cessato all'improvviso.

Il dolore alla testa serpeggiò verso il basso raggomitolandosi fra le spalle, il che costituì un netto miglioramento.

Si mise a sedere lentamente, cercando di controllare i conati di vomito. Ricordava molto bene quello che era successo, quello che non si spiegava era perché fosse sdraiato su un divano in una casa in cui non era mai stato. Dean lo stava fissando.

– Alzati e splendi, hai dormito quasi quattro ore. – disse, entusiasta di vederlo più attivo di una cozza. Castiel si strofinò la faccia con una mano e appoggiò i piedi per terra, ancora confuso e mezzo intorpidito.

Aveva indosso solo i suoi pantaloni e la camicia. Il trench era scomparso chissà dove e così anche la cravatta. Non che i suoi indumenti fossero la priorità numero uno in quel momento.

– Dove siamo? – Biascicò, continuando a guardarsi attorno.

Dean si alzò in piedi, circumnavigando la poltrona per sedersi accanto a lui. – A Sioux Falls. – disse, lentamente. Castiel lo guardò disorientato, quindi decise di continuare, soppesando le parole con accuratezza. – A casa di Bobby. Sammy è di sopra nella sua stanza, e il vecchio è in città.

Cas normalmente avrebbe lasciato che la consapevolezza di non essere a lezione, o a casa a studiare o con Dean dal medico lo gettasse nel panico, ma in quel momento decise di accantonare il pensiero. Il ragazzo gli aveva circondato le spalle con un braccio e si stava stringendo contro di lui, perché avrebbe dovuto consentire a pensieri cupi come quelli il primo posto nella sua mente? Ora gli stava baciando la fronte. Una pace improvvisa scese su di lui e lo avvolse.

– Qui è… curioso. È caotico, eppure tutto sembra dove dovrebbe essere. – commentò, cercando di leggere i titoli degli spessi volumi ammassati sulle mensole.

– Dean, perché mi hai portato a casa di Bobby? Perché non da me? Avevo le chiavi in tasca, sai che non mi sarei arrabbiato se… –

– Perchè ho bisogno di parlare. – Lo interruppe Dean più bruscamente di quanto avrebbe voluto.

Il cuore di Cas fece una capriola.

Dean gli prese la mano, nonostante non sembrasse ancora particolarmente sicuro di sé era anche deciso a lasciarsi ogni dubbio alle spalle, inclusi i lunghi monologhi interiori su come tutto intorno a lui sembrasse vorticare velocemente.

– Castiel, chi era quello? Il tizio che ha parlato di tu sai chi? – Il riferimento ad Harry Potter lo fece quasi sorridere, ma fu più impegnato ad apprezzare il fatto che non avesse direttamente pronunciato il nome di Dick Roman. Ciononostante, si sentì impallidire.

– Cas, non devi preoccuparti, qui sei al…

– Era lì.

Dan non si aspettava di venire interrotto, quindi lo fissò perplesso.

– Era lì quella notte. Era con Dick. Lo spronava a farmi del male. – la sua voce, nonostante gli appartenesse, suonava lontana anni luce. Guardava il pavimento perché Dean non leggesse tutta l'angoscia che aveva negli occhi.

– La notte che sono stato violentato, e Gabe è stato assassinato, Dick era con altre quattro persone. Due di loro si erano limitati a tenermi fermo quando cercavo di scappare, e sono stati i primi ad andarsene. Probabilmente sono già in libertà, ma di loro non mi interessa granché. Matthew Fergus MacLeod, che gli altri chiamavano Crowley, era un ragazzotto di ricca famiglia inglese che si credeva il re di tutto ciò su cui posasse gli occhi. Probabilmente era l'unica persona che Dick temesse, anche se in fin dei conti il loro rapporto era solido perché si temevano a vicenda. Quella sera, in un qualche modo, era riuscito a ficcare le mani nella cassaforte di suo padre, e si era presentato con una pistola. Pensava fosse una comune scacciacani, ma in realtà penso fosse una rivoltella, perché una scacciacani fa solo rumore ed un po' di fumo. Ha dato lui la pistola a Dick, gli ha dato lui il potere di uccidere mio fratello.

Dean gli strinse una spalla. – Per questo ti sei spaventato ed arrabbiato così tanto?

Cas annuì piano. – Ho rivisto il momento in cui gli ha passato l'arma. È stato il momento in cui ho pensato volessero portarmi in un luogo isolato per uccidere me.

Dean sciolse la stretta, lasciando che una mano vagasse sul suo braccio con fare rassicurante. – Io ti ho visto talmente scosso che l'idea migliore che mi è venuta sul momento è stata portarti il più lontano possibile per qualche giorno. Non pensare all'università, datti malato. Devi pensare anche alla tua salute.

Scese il silenzio. Dean non diceva nulla perché si aspettava un minimo di assenso, ma Castiel sembrava assorto in chissà quale altro distruttivo pensiero.

– Sei stato molto coraggioso a parlarne, Castiel. Ma adesso cerchiamo di fare qualcosa di rilassante, vuoi?

Dopo quasi un minuto, il moro prese parola: – d'accordo. Sei sicuro che non sarà un problema?

Dean si illuminò, le labbra si stesero in un sorriso. – Certo che no, la casa di Bobby è grande e un paio di braccia in più aiutano sempre. Andiamo di là, così prendiamo un boccone.

Per la seconda volta, il cuore di Castiel affrontò un doppio salto mortale e sprofondò all'altezza dello sterno.

Il suo appetito era pari a zero, tanto per cambiare, e dopo gli ultimi avvenimenti non c'era dubbio che sarebbe riuscito a forzarci dentro nemmeno una ciliegia senza rimettere l'anima.

– Non ti disturbare, non ho fame. Mangia solo tu.

Dean si bloccò sulla soglia della porta, si voltò verso di lui con la fronte corrugata.

– Scherzi? Sei svenuto in mezzo alla strada ed hai dormito quattro ore, devi assolutamente mettere qualcosa nel tuo organismo! – Obbiettò contrariato, tornando verso il divano ed allungando una mano verso di lui.

– Sembra che fra noi due il medico sia tu. Dean, ti ringrazio per la cortesia ma dico sul serio, non ho appetito.

Dean non sembrava affatto convinto. Prese la sua mano e lo costrinse ad alzarsi, portandolo nuovamente contro di sé ed accompagnandolo in cucina. – Okay, va bene. Ma un the lo devi per forza bere, anche solamente due sorsi. Sei pallido come un lenzuolo.

Castiel non si perse a cercar di capire che relazione di pallore ci fosse fra lui ed un lenzuolo, e si lasciò accompagnare docilmente in una stanza ampia dai mobili chiari. Si sedette al tavolo ed osservò il biondo armeggiare con i cassetti e le pentole, muovendosi con sicurezza e disinvoltura.

Sembrava trovarsi a suo agio fra i fornelli, le sue spalle larghe erano rilassate e sciolte, i passi meno rigidi. Ora che era a casa, il portamento severo e militare che gli aveva visto ogni tanto qualche mese prima sembrava essersi dissolto. Come se si fosse spogliato di un'armatura lasciando intravedere da che parte fosse più propenso ad appoggiare il peso del corpo, quale posata usava con quale mano, la lieve torsione della schiena.

Dean intanto, approfittava del fatto che Cas non potesse vederlo in viso per pensare.

Ora che ci faceva veramente caso, da quando lo conosceva non lo aveva mai davvero visto mangiare cibi solidi. Il caffè o i milkshake nel bar di fronte all'ospedale non contavano. Tutte le volte lo liquidava con un atono “non ho fame”. Di sicuro sapeva che al campus dell'università non consumava alcun genere di pasto perché non ci si fermava se non per prendere da bere la mattina, glielo aveva detto lui, e fra lo studio ed il tirocinio tornava a casa per poche ore. Ne avevano parlato la sera del planetario: anche nei mesi in cui Cas aveva smesso di farsi vedere in ospedale aveva passato giorno e notte a studiare, e stava il più tempo possibile in biblioteca dove poteva consultare quanti più libri possibile. Quindi, anche a casa, ci andava appena per dormire, perché la madre lavorava a tempo pieno e prendeva il pranzo alla tavola calda vicino alla libreria dove faceva la commessa, quindi in casa non c'era mai nessuno ed il frigo era quasi sempre vuoto. Castiel gli aveva assicurato che mangiava sempre fuori, ma non ne era più tanto sicuro, ed un improvviso e pericoloso dubbio si insinuò nella sua mente.

Era impossibile che non mangiasse assolutamente nulla, perché era comunque allenato e andava regolarmente in palestra, e i turni di notte non si superavano con solo caffè.

Si voltò lentamente, scuro in viso, gli porse la tazza. Castiel sorrise e la prese, soffiando appena sul vapore per raffreddare la bevanda, prima di prenderne un paio di sorsi.

Fu allora che li vide.

Dean si diede mille volte dell'idiota per non averli notati prima.

– Cas, posso vedere la tua mano?

Il ragazzo gelò sul posto, fissandolo stranito. – come mai?

– Fallo e basta.

Gliela porse, ubbidendo diligentemente, ma Dean la respinse e gli chiese l'altra.

Con enorme riluttanza, ubbidì anche quella volta.

Dean la prese fra le sue e, dopo averla accarezzata per un paio di secondi, la voltò, esaminando con occhio indagatore le nocche.

Non ci aveva visto male. La zona intorno alle nocche dell'indice e del medio erano piene di solchi, in certi punti quasi scorticate.

– Da quanto tempo rimetti tutto quello che mangi? – chiese, a mezza voce, spaventato dalla risposta.

– Dean…

Da. Quanto. Tempo.

Cas sospirò, ritraendo la mano e avvolgendola attorno alla tazza tiepida. Sentiva la voce tremargli : – Quasi otto anni.

E prima che Dean potesse intavolare un qualsiasi discorso o fargli una scenata o anche solo dirgli che tutto si sarebbe sistemato, cercando di indorare la pillola di indistruttibile ottimismo, si alzò ed uscì.

Aveva bisogno di cinque minuti, perché la sua testa stava riprendendo a ridere di voci che non erano la sua e vedeva il sangue raggrumarsi nella polvere del su personale pezzetto d'inferno.

***

Sam stava guardando Doctor Who con le cuffie (riconobbe un Dalek passando di fronte alla sua stanza), quindi non udì i suoi passi, o forse semplicemente li ignorò.

Si avventurò alla ricerca di una stanza vuota, che trovò in fondo al corridoio, con la porta pesante di legno mezzo consunto dischiusa. Sembrava un piccolo studiolo, anch'esso pieno zeppo di libri e fogli e qualche candela qui e là e le ragnatele che piovevano dalla lampada. L'abat-jour aveva il filo tutto mangiucchiato da un qualche topo avventore, ma come tutti gli altri ambienti di quella casa, non poteva che affascinarlo. Tutto era in disordine, ma non c'era nulla fuori posto. Ogni cosa era dove sarebbe dovuta essere.

Di diverso c'era solo un pianoforte vecchio stile, chiuso e messo a prendere polvere in un angolo. Sentì un groppo in gola, gettò un'occhiata alle sue spalle. Dean non l'aveva seguito. Non che se l'aspettasse.

Si avvicinò con le gambe che sembravano di gomma, la testa era sul punto di esplodere e quel maledetto proiettile continuava ad affondare nella carne e lacerare e strappare e fare male avvelenandogli i pochi pensieri razionali che c'erano nella sua testa mandandoli al deraglio e prima che potesse rendersene conto piangeva silenziosamente e il cuore che minacciava di scoppiare. Poi, le sue dita erano sui tasti.

Si muovevano con agilità toccandoli quel tanto che bastava per emettere un suono appena accentuato e flebile, perché potesse sforzarsi di sentirlo e connettere la sua mente a qualcosa di esterno. Piccole nuvolette di polvere si sollevavano ad ogni nuova ottava, le legature si infilavano fra le battute allacciandole fra di loro creando suoni liquidi e veloci, poi ecco una pausa ed il vuoto occupava un'altra battuta, lasciandosi esprimere nell'attesa di un'altra riga di un pentagramma invisibile che Castiel non aveva ormai più bisogno di leggere.

Andando avanti la sua mano affondava sempre di più sui tasti, le note erano più forti, aggressive e cristalline, il ritmo incalzante scandito da attimi di sciolta lentezza.

C'era qualcosa in quella melodia, o meglio, quell'armonia di suoni che credeva di aver dimenticato, ma che erano stati seppelliti con violenza inaudita nei recessi più reconditi del suo subconscio.

“– Ricordati, Cassie, che non esiste un solo modo per esprimersi, così come non esiste un solo modo di amare, o provare dolore, o morire, o guarire. Puoi sceglierne uno alla volta e dargli una durata lunga e flemmatica così come puoi creare accordi e combinarli fra di loro, facendo parlare con più voci ciò che vuoi dire. Puoi connettere tutto quanto e poi far aspettare il tempo che ritieni necessario, un sospiro o una vita intera. Non c'è limite a quello che puoi fare con quello che hai nella mente, Castiel. –

D'accordo, Gabe.”

Probabilmente era stata in tutta la sua vita l'unica metafora che era riuscito a comprendere senza indagare sul significato di ogni parola.

Quando finì, quando decise che era abbastanza calmo da tornare di sotto e scusarsi con Dean, si rese conto di non aver mai aperto gli occhi, mentre aveva suonato.

Se l'avesse fato, lo avrebbe sicuramente visto appoggiato allo stipite della porta con lo sguardo incantato e pieno di lacrime.

 

 

Spero di essermi fatta perdonare, ditemi che ne pensate :)

Buon anno a tutti!

Dan

   
 
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