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Autore: feffyna22    07/01/2016    3 recensioni
WHAT IF - Katniss vive nel distretto 12 insieme alla sorella e alla mamma. E' molto amata da Haymitch, che è la figura paterna di cui sentiva la mancanza dopo la morte del padre. Verrà estratta per partecipare agli Hunger Games insieme al suo amico Gale, lasciando dietro di sé sentimenti nuovi, che aveva appena iniziato a nutrire verso Peeta, un suo compagno di classe.
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Black Pearl'
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PROLOGO  -  Un ponte tra di noi 





Esco di casa al mattino prima che Prim e mamma si sveglino. Gale mi aspetta vicino al tronco dove nascondo il primo arco che mi regalò papà.
“Grande giorno!”, mi dice.
E’ un grande giorno, infatti. Ieri sono finiti i settantaduesimi Hunger Games, per un anno possiamo dimenticarcene e vivere come se non esistessero.
Alla fine dei giochi, i distretti festeggiano tutto il giorno. A Capitol festeggiano i vincitori, nei distretti dei favoriti si commemorano le dignitose e molto onorevoli morti dei tributi. Da noi si festeggia la vita: non celebriamo i giochi di morte, ma i giorni che ci separano dalla prossima mietitura.
Le scuole sono chiuse e sono certa che la mia paperella starà già in piedi quando tornerò a casa, in attesa di uscire con me o di giocare con le amichette e andare in giro per il distretto.
La sera si organizzerà una festa in piazza e, a malincuore, brinderemo e ci rimpinzeremo con il cibo comprato dai genitori dei tributi morti. Così funziona qui, che se muori nell’arena, il presidente Snow per mettere a tacere il dolore invia ai genitori un bel po’ di soldi. Cioè, per noi sono un bel po’, ma sono certa che a Capitol coprono appena il costo di un dopobarba.
Comunque non importa, sono finiti, no?
 
Di solito resto nei boschi per almeno un paio d’ore, ma da un mesetto caccio insieme a Gale. Lui è sempre rilassato, invece io sono piuttosto in apprensione.
Se ne accorge ogni volta, sorride con fare sarcastico e immagino il perché: ogni ragazzina del villaggio gli va dietro ed è considerato uno dei ragazzi più belli del distretto. Ma, sinceramente, io lo trovo un poco troppo presuntuoso per i miei gusti.
Comunque sia, lui pensa queste cose, pensa che me ne sono invaghita, e mi innervosisce parecchio.
Così, se ho già un paio di scoiattoli, non me ne curo e faccio dietrofront, senza dirgli una parola.
Le prime volte restava a fissarmi senza rendersi bene conto di quello che succedeva. Poi ha iniziato ad essere ostinatamente invadente. Un sacco di: “Ma perché vai via?”, “Aspetta ti accompagno!”, “Dai su, possiamo piazzare ancora un paio di trappole”.
 Lo fa anche oggi, mi dice qualcosa mentre io già sto rimettendo a posto l’arco.
“No.”, gli dico.
Di nuovo quel sorriso beffardo, mi sento arrossire e lui di sicuro ne sarà ancora più compiaciuto. Ma sono rossa di rabbia, lui non capisce. E poi, davvero me ne importa qualcosa? Di dare spiegazioni, a lui?
“No.”, dico di nuovo. Non a lui ma a me stessa. Filo verso casa, mentre mi urla dietro di farmi bella per la sera.
 
Prim freme dalla voglia di uscire, esattamente come avevo ipotizzato. Mi lavo e ci sbrighiamo a raggiungere la piazza. Il distretto è piccolo ma il quartiere del Giacimento è proprio dall’altra parte rispetto alla via dei negozi.
Per questa giornata, conservo sempre qualche moneta che mi arriva con le razioni di cibo quando mi iscrivo ai giochi.
Oggi comprerò qualcosa di bello per me e per Prim, di sicuro le piacerebbe una spilla o qualche dolcino della panetteria.
Camminiamo strette strette e non riesco a placare il suo entusiasmo. Mi coinvolge e rido anche io ogni volta che mi fa notare qualche cosa di buffo.
 
Giriamo tra i negozi, in merceria le compro un cerchietto con una piccola rosa lilla e lei insiste affinché io compri per me un fiore da mettere tra i capelli.
Prendo per mamma un bracciale con delle pietre verdi e ci fermiamo come ultima tappa in panetteria.
Oggi la fila è tanto lunga che dobbiamo aspettare fuori dal negozio, restiamo lì una decina di minuti per poi riuscire, dopo un bel po’ di tempo, a farci strada per arrivare al bancone.
“Cosa prendete?”, mi dice un ragazzo biondiccio. Ha gli occhi marroni e profondi. Gli sorrido e dico a Prim di scegliere. Le prendo due biscotti a forma di farfalla, la glassa è tutta colorata e so che per Prim doverli mangiare sarà un vero peccato, tanto sono belli.
“Ci sono quelle focaccine al brandy?”
“Sì, appena sfornate!”
“Ne prendo due!”
 Usciamo da lì facendoci largo tra la grande folla che non smette di generarsi, impieghiamo altri dieci minuti per riuscire ad arrivare in strada.
E’ l’ora più calda e dopo aver combattuto per uscire mi sento sudata e in disordine. Aggiriamo la panetteria e quando arriviamo sul retro ci fermiamo a prendere un poco d’aria. Prim ride e mi aggiusta un ciuffo di capelli che si è liberato dalla treccia e padroneggia sulla mia fronte.
“Ciao!”
Alzo gli occhi e incontro i suoi, blu.
“Ciao!”, ricambio. Prim tira fuori dalla bustina il primo dei due biscotti e l’addenta, Peeta prende la palla al balzo.
“Hai visto che macello nel negozio?”
“Sì, per poco non ci seppellivano vive!”
“Ti piacciono i biscotti?”, chiede a Prim che annuisce.
“Li decoro io, sai?”
Prim sgrana gli occhi e mi guarda con meraviglia. Le accarezzo la guancia e le sorrido dolcemente.
“Stasera ci sarai in piazza?”
“Sì, ci vediamo lì!”
“Ci spero!”, alza la mano e va verso la porta sul retro.
Resto qualche secondo a guardare, a ricordare quando, un paio di anni fa, mi lanciò il pane e ci salvò da quella morte orribile.
Non provo vergogna, ripensandoci. Anche se molto spesso sì. Ma non ora.
 
“Lo sapevi che è lui che decora i biscotti?”, mi chiede Prim mentre trotterella al mio fianco.
“Sì, lo sapevo!”.
Prima di ritornare a casa, ci fermiamo al villaggio dei vincitori. I pacificatori mi dicono che Haymitch è tornato ed io ho molta voglia di rivederlo e ho pure paura che lui non voglia per niente.
Ha fatto da mentore ad un ragazzo di sedici anni e ad una ragazzina di quattordici e sono morti entrambi.
“Resta fuori, Prim!”, le dico rendendomi conto che le finestre sono serrate e non si sente nessun rumore provenire dalla casa.
La mia paperella si siede sugli scalini, proprio come avevo fatto io quando papà mi ci aveva portato la prima volta.
“Haymitch!”, lo chiamo senza ricevere risposta. Un tentativo andava pur fatto.
Lo trovo disteso sul divano, lo scuoto ma non si sveglia. Prendo uno strofinaccio e lo bagno con un poco di acqua. Gliela passo sulla fronte e lui pian piano si desta. Mi aspetto un sorriso, invece sgrana gli occhi e mi allontana urlando.
“Vattene! Vattene, ho detto!”, urla.
Le lacrime gli si accumulano agli angoli degli occhi ed iniziano a rigargli il viso, che è contratto in una smorfia di dolore.
Mi attanaglia le braccia e mi spinge verso la porta. E’ troppo forte, mi sento come nel mezzo di una bufera e nemmeno mi rendo conto di essere già fuori dall’uscio con un piede.
Raccolgo le forze e mi giro, lui si blocca ed io gli porgo la busta con le focaccine.
Prim si alza, un poco spaventata e gli tende una margherita bianca.
Haymitch allenta la presa sulle mie braccia e raccoglie il fiore. Mi guarda con occhi tristi, ancora lucidi: “E’ di famiglia, eh?”.
Sorride debolmente, io prendo la mano di Prim e me ne vado via. Lo so, so quello che prova, so ogni cosa: sta soffrendo, mi allontana perché soffre, lo so. Ma vorrei solo…
Io l’avrei allontanato? Se fossi stata io il mentore e lui il tributo? No, io non l’avrei fatto. Avrei sofferto, fino in fondo, ma non avrei allontanato Haymitch. O forse è che, lui mi ha detto, non capisco davvero. Tutto il dolore e l’ansia e la paura. Ed è vero e spero di non capire mai del tutto.
Mi sento un po’ in colpa. Ma mi butta via, mi caccia, mi ferisce. E’ incostante. E’ quasi un padre, ma non davvero un padre. Quasi un amico ma non proprio. Quasi un mentore ma spero che non lo sia mai davvero. Ed io ora l’ho fatto di nuovo, gli ho chiesto di essere quasi un padre, quasi un amico, quasi un mentore e lui non vuole essere nulla per me. Mi sento vulnerabile di fronte ad un suo rifiuto, mi sento più nuda e più povera di com’ero quando mi ha visto il ragazzo del pane, quando piangevo per la fame.
Io non voglio sentirmi così, vorrei papà. Lui non mi ha mai fatto sentire così.
“Katniss”, mi richiama dal mio torpore Prim, “Ti vuole bene.”
Penso che Prim abbia una specie di dono. Penso che ci completiamo, che io la nutro e lei mi nutre, in modi diversi.
Corre a giocare con delle amiche vicino a casa, mentre io sorprendo mamma con il bracciale. Vorrei che fosse rimasta. Avrei voluto ancora un suo bacio prima di dormire. Avrei voluto, forse ancora di più, la sua presenza. Ma lei non c’è più, c’è un fantasma di lei.
 
Prim la convince in qualche modo a prestarmi uno dei suoi vestiti più belli per la festa della sera. Mi sento sempre molto a disagio quando devo indossare delle gonne o degli abiti, non sono abituata a scoprire la mia pelle, mi irrita sentirmi così esposta.
Ma Prim ride e mi posiziona il fiore bianco tra i capelli, dopo che mamma li ha intrecciati.
Usciamo di casa poco dopo il tramonto, la piazza è già piena e delle grandi lanterne colorate oscillano al vento sulle nostre teste.
Incontro Madge, una mia compagna di classe. Mamma mi fa segno di andare, stringendo con una mano quella di Prim.
 
“Sei bellissima!”
“Anche tu Madge!”
Raggiungiamo il centro della piazza, dove si balla e si canta, mentre ai lati, tutt’intorno, grandi tavolate servono abbondanti porzioni di purè di patate, zuppa, frutta di stagione e si diffonde nell’aria l’odore di focaccine al formaggio.
Madge mi prende per mano e mi convince a danzare, “Vorrei avere un ragazzo con cui ballare!”, dice sognante.
Ci riposiamo dopo qualche canzone, prendiamo un bel piatto di zuppa e raggiungiamo il gruppo della classe. Madge è amica di tutti, io invece non parlo con nessuno.
Non saprei spiegare il motivo, forse perché non mi fido o forse perché non mi va. Non mi va proprio. Ma sono io l’unica a vedere quanto sia inutile?
Di solito, quando penso queste cose, mi rendo conto di estraniarmi dal mondo, per diversi minuti. Quando torno in me, mi sento molto a disagio, ho perso il filo del discorso e faccio fatica a sembrare realmente interessata quando la gente mi parla. Anzi, mi sembra di stare in fondo ai miei occhi, che loro guardano ma io sto dietro. Io sto dietro ai miei occhi, non sono realmente presente. Sono come mia madre, io. Sono come Haymitch, io. Abbandonerei Prim, forse. Forse abbandonerei pure me stessa.
Così, mi alzo e corro via. Lo faccio ogni volta e so che pensano tutti che io sia una tipa strana.
Lo pensano loro, ma al Forno mi rispettano, perché (checché ne dica Haymitch) nonostante la mia età, qualcosa in più di quei ragazzi io la so.
Mi ritrovo a camminare in una stradina ripida, la festa è lontana e la via è deserta. Mi sento in colpa per aver festeggiato, non dovrei festeggiare ora che papà non c’è più.
“Ehi”, mi giro verso quella voce così familiare.
“Peeta”, cerco i suoi occhi, sono rassicuranti, come il modo gentile con cui posa lo sguardo su di me, quasi impercettibile.
Forse c’era anche lui prima, mentre stavo con Madge e con gli altri.
Non mi chiede nulla e non dice nulla e non sembra voler fare altro se non tenermi per mano, guidandomi non so dove.
Mi porta al confine del quartiere industriale, da qui al Giacimento è un attimo, ma la strada che fa da collegamento è saltata nell’esplosione in cui è morto papà. Ci sono delle case diroccate e lui entra in una di queste.
L’edificio è prigioniero dell’edera e del glicine e profuma di muschio. Saliamo al piano superiore e mi fa guardare da una finestra: è collegata da un ponte alla finestra della casa di fronte.
 
Saliamo sul ponte, è in legno massiccio, stabile e largo e ci sediamo a metà, nascosti dall’edera che ne ricopre per intero la struttura.
C’è una luce tenue, un lampione che dalla strada ci illumina quanto basta per leggere le nostre espressioni.
“Perché sono qui?”, chiedo spavalda.
“Avevi bisogno di venire qui. Tutti hanno bisogno di un posto.”
“Io ho un posto, che è solo mio.”
“Ma questo è diverso, questo è il mio posto. Questo posto non sarà mai tuo, ma ci sarà quando ne avrai bisogno.”
“Io non ho bisogno di niente.”
“Allora diciamo che quando non avrai bisogno di niente, potrai venire qui.”
“Il mio posto mi basta.”
“Nessun posto basta. Nessuna casa è abbastanza casa e nessun posto è abbastanza tuo. Tu appartieni per qualche tempo ai posti, ma poi non ci saremo più e altri noi avranno bisogno di questo ponte.”
“Tu che ne sai? Tu non hai perso nulla.”
“Ci credi davvero?”
“No.”
Si avvicina e mi bacia sulle labbra, mentre con la mano mi accarezza i capelli.
Chiudo gli occhi, mi abbandono a quel bacio dolce che non sapevo di desiderare così tanto. Ma lo desidero. Desideravo da molto ritrovarmi seduta a gambe incrociate su un ponte, mentre un ragazzo mi bacia dopo avermi capito fino in fondo.
Così piccola, non mi sentivo così piccola da tanto tempo.
Lui preme le sue labbra con più vigore contro le mie ed io istintivamente le schiudo e ci accarezziamo con la punta della lingua.
Ho quasi paura che questo bacio finisca, lui lo avverte e quando sta per staccarsi, ci ripensa e mi bacia ancora.
Non so quanto tempo passa, so che quando riapro gli occhi il lampione è spento e siamo circondati da lucciole.
Rido e le cerco con la mano mentre Peeta mi osserva per la prima volta così da vicino, senza nessuno e nessun imbarazzo ad allontanarci.
 
“Devo tornare a casa.”, dico con un filo di voce. Non ho nessuna voglia di tornare a casa. Di pensare a papà, a mamma, ad Haymitch.
Mi guarda con un sorriso dolce e mi prende la mano, mi avvicina e mi abbraccia, avvolgendomi. Le sue braccia sembrano proteggermi, riaccendono un bisogno viscerale, che avevo dimenticato dopo l’ultimo abbraccio di papà. Il bisogno di abbandonarmi un poco, di cedere qualche minuto appena, di non dover occuparmi di qualcosa, di qualcuno.
“Domani sarà tutto diverso.”, mi dice. Tra di noi? Non lo so, ma mi eccita quello che dice. Mi eccita vedere la mia vita attraverso i suoi occhi, riscoprirmi così bambina e così donna allo stesso tempo.
Mi sfiora il viso e riunisce ancora le nostre labbra ma in un bacio più intenso. Suscita in me un brivido che risale lungo la schiena e tremo cercando ancora le sue labbra. Avvicino la mia mano al suo viso, lui esita un istante e poi si lascia andare alle mie carezze.
Con riluttanza, ci stacchiamo e ci alziamo per tornare alla festa. Le voci in lontananza, prima rumorose, si sono affievolite. Quando arriviamo in piazza sono rimasti solo i più anziani, che ricordano i vecchi tempi e che ridacchiano mentre attraversiamo la piazza.
Peeta insiste per accompagnarmi a casa, ma arrivata al Forno, lo convinco che posso proseguire da sola. Mi stampa un bacio sulla fronte e se ne va.
 
Quando torno a casa, non faccio in tempo ad entrare che mamma mi piazza uno schiaffo sul viso. Le urlo tutto il male che mi ha fatto. Il senso di colpa le compare sul viso dopo un paio di frasi ma io non mi fermo finchè non l’ho giudicata fino in fondo.
Non mi sento in colpa per averle detto quelle cose, non verso di lei almeno. Dopo qualche minuto ha già la stessa espressione vuota che mi indica che lei lì non c’è.
Prim invece ascolta tutto. Avrei dovuto fermarmi, almeno per lei. Ma non meritavo quello schiaffo, non dopo che Haymitch mi ha mandato via, non dopo questa serata perfetta. Avrei dovuto fermarmi, ma non sono riuscita a controllarmi. Raggiungo la mia paperella e la stringo forte, mi scuso per quelle brutte parole che ha sentito e le dico che era bellissima questa sera.
Le racconto una bella favola e si addormenta come un sasso.
 
Il giorno dopo a scuola attendo con ansia l’arrivo di Peeta. Mi ha detto che sarebbe cambiato tutto ed io mi sento davvero una stupida ad aspettare qui. Spero che non pensi che lo desidero così tanto, che qualcosa cambi nella mia vita. Così, sto ferma all’ombra della grande quercia in giardino. Che non è una grande quercia. Non è nemmeno grande, ma da bambini sembrava enorme e noi la chiamammo così.
Assopita nei miei pensieri, neanche me ne rendo conto.
“Katnip!”, salto appena dallo spavento.
“Ti odio, Gale!”
“Non ti ho visto alla festa.”
“Nemmeno io, meno male!”, gli dico mentre provo a guardare dietro le sue spalle se arriva Peeta.
“Spiritosa! Aspetti qualcuno?”
Non so perché questa domanda mi sconvolge così tanto, “No, no, assolutamente!”.
Faccio qualche passo verso l’entrata della scuola mentre Gale mi gira e mi bacia con desiderio. Lo allontano quasi subito, dopo un paio di secondi che mi servono per realizzare che cosa sta facendo. Istintivamente guardo verso la strada della panetteria. Peeta non è ancora arrivato. E penso che ora Gale si sia reso conto che stavo davvero aspettando qualcuno.
 
Vorrei correre via, ma sembrerei una stupida agli occhi di tutti quelli che si sono fermati a godersi lo spettacolo. Così, semplicemente, me ne vado a passo lento. Gale prova di nuovo a raggiungermi ma lo fulmino e si allontana con uno sguardo triste che non mi scalfisce minimamente.
 
In aula sento un vociare continuo e sguardi rivolti verso di me che mi rendono nervosa. Mi ha baciato davanti a tutta la scuola! Perché lui ovviamente deve fare le cose in grande, deve in qualche modo essere sempre sulla bocca di tutti.
Peeta arriva quando la lezione sta per cominciare. Entra con una delle ragazze che ha visto la scena.
Mentre attraversa la classe si gira verso di me e mi guarda con occhi gelidi e delusi. Sono certa che se gli parlassi, magari non ora, magari tra qualche giorno, quando sarà più calmo, sono sicura che capirà.
Dovrei parlargli. Dovrei spiegargli. Non mi va proprio. Aspetterò qualche giorno. Sì, un paio di giorni e poi gliene parlerò.
Lo farò.
 
La solita storia. La solita me. Di nuovo io.
Non cambierà nulla.


 



 
   
 
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