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Autore: SunVenice    07/01/2016    3 recensioni
Sull’isola di Nido Leila non tutto è andato perduto e tre sorelle possono ancora respirare l’aria libera del mare. Finchè un’altra ombra si abbatte su di loro. E tutto cambia.
//Spin off-Sequel della fanfiction Kaizoku no Allegretto. Non è obbligatorio leggere la prima opera, ma è consigliato se voleste capirci di più :3
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caesar Clown, Donquijote Doflamingo, Donquijote Family, Nuovo personaggio, Trafalgar Law
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Sirene di Fuoco'
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Declaimers: Non possiedo One Piece in alcun modo. Ma l’idea delle Paradisee, i miei OC, e le origini dei Frutti sono miei e se Oda sa veramente l’italiano e sta leggendo gli voglio dire solo una cosa: GIU’ LE MANI!!

 

2: Cold in the Heart
 

And so my heart is paying now

For things I didn't do,

In anger unkind words are said

That make the teardrops start

 

Why can't I free your doubtful mind

And melt your cold, cold heart?

 

Cold Cold Heart ~ Tony Bennett

 

Quando la signorina Monet arrivò con un fagotto di coperte morbide e lanose tra le piume curvate a mo’ di conca, Mocha, Sindh,Dolan e Ally furono i primi a capire che era arrivato un nuovo bambino. 

In molti si erano già radunati attorno alla donna alata, saltellando emozionati ed esplodendo quando questa rivelò a tutti il volto della nuova giunta: una bambina poco più grande di loro, con capelli scuri e sporchi, paffutella e chiarissima di pelle.

Mocha e Sindh però erano rimasti ad osservarla, a disagio: nella Biscuit Room non era mai arrivata una singola bambina.

A detta della signorina Monet, il germe della loro malattia, nonostante ancora molto raro, si era diffuso su altre isole, probabilmente a causa di una specie di insetto o dello stesso vento, dunque non era cosa rara che altri bambini venissero prelevati e trasferiti insieme a loro.

Ciononostante erano stati i primi ad aver occupato quell’enorme stanza fatta di arcobaleni, alberi, stelle cadenti e nuvole disegnati sulla grande cupola azzurra che era la Biscuit Room, e non avevano mai visto arrivare una singola paziente.

Era strano.

Troppo.

“Signorina Monet, che cos’ha?” domandò Ally, indicando dall’alto il colorito malato e la fronte imperlata di sudore freddo della ragazzina.

La donna alata rispose con sorriso angelico.

“E’ svenuta per la fame appena arrivata. Ma non preoccupatevi: il dottore le ha già dato qualcosa per farla stare meglio.”

“Anche lei è molto malata?” bofonchiò preoccupata una bambina dai sottili boccoli biondi, accostandosi alla donna, sbirciando oltre le sue piume bianche per dare un’occhiata più attenta alla nuova giunta.

“Purtroppo sì.”

Dall’alto della propria statura, Mocha vide le palpebre della piccola tremolare e schiudersi timorose, rivelando due iridi così tonde e azzurre da far paura.

Li paragonò istintivamente alle mura dipinte della loro colorata stanza dei giochi e si accorse che, per quanto potesse essere bella, le iridi della nuova paziente parevano essere state staccate direttamente dal cielo… quello vero

Quel pensiero la spaventò.

Non vedrò mai più la luce del sole…

Riacquistando lucidità la bambina gigante vide l’altra spalancare le palpebre e irrigidirsi, continuando a fissare Monet quasi terrorizzata.

Mmama?”

La Biscuit Room non fu mai tanto silenziosa come in quel momento.

Lei e Sindh la fissarono stupiti, mentre questa osservava smarrita i propri dintorni.

Quella bambina.. aveva cantato qualcosa di strano.

Ma nessuno si metteva a cantare appena svegliato,…no?

“Signorina Monet, che cos’ha detto?”

Nemmeno il tempo di rispondere ad uno dei tanti mocciosi lì attorno che la piccola peste fra le sue ali cominciò a dimenarsi, lanciando piccoli ed acuti gridolini dal suono quasi musicale.

Un calcio le arrivò dritto in faccia, ammaccandole una guancia.

Tch!- si morse mentalmente la lingua l’arpia, lasciandola, suo malgrado, sgattaiolare via dalla sua presa.

I bambini a quella scena avevano trattenuto il fiato, terrorizzati.

Ovviamente nessuno di loro avrebbe mai osato sfiorarla con un dito, lei, tanto gentile e premurosa nei loro confronti.

Vedere qualcuno spezzare quella sorta di tacito tabù doveva averli spiazzati.

Si massaggiò la parte lesa con le sue piume lisce, godendo della loro naturale frescura e riposò lo sguardo sulla sua nuova cavia da viziare.

La giovane paradisea si era raggomitolata poco distante da lei, tra due teneri peluche opportunamente sistemati l’uno accanto all’altro, tremando come una foglia al suo sguardo.

Notò che, fatta eccezione per qualche rapida occhiata ai propri dintorni, la creaturina non smetteva di fissarla, come se si trovasse di fronte ad un potenziale predatore al quale sottrarsi prontamente, piuttosto che ad un altro essere umano.

Intelligente la ragazzina.

Umph - pensò la donna, accigliandosi con sufficienza - Sarà di certo una spina nel fianco.

Reindossò velocemente il solito sorriso aggraziato e comprensivo e si rimise sulle proprie zampe rapaci.

 

 

Non era la sua mamma. 

Quella creatura con le ali e le zampe di un volatile non era la sua mamma, anche se per un istante, quando aveva ripreso conoscenza, le era sembrato si essere nuovamente cullata dalle grandi ali di fiamma che l’avevano cresciuta e amata per anni. 

Ma poi era arrivato il freddo.

Tagliente e crudele come quello che aveva sentito stringerla nell’incoscienza, un momento dopo essere svenuta davanti al demone bianco.

E allora aveva capito chi le si trovasse di fronte.

Un paio di iridi dorate.

La sua mamma le aveva argentate.

Reagì d’istinto.

Si era dimenata, finché non aveva colpito qualcosa con un piede e le piume gelate l’avevano abbandonata.

Poi si era rifugiata tra le prime cose che aveva trovato e si era focalizzata su quello strano luogo.

C’erano un sacco di bambini come lei… anzi no, alcuni erano piccoli, altri immensi. Indossavano tutti degli strani vestitini bianchi.

Una rapida occhiata a se stessa e si accorse di starne indossando uno anche lei.

Era una stanza azzurra come il cielo, ma gli alberi dipinti sulle pareti erano finti.

Lei sapeva com’erano fatti dei veri alberi: c’era cresciuta sopra.

Saa, kodomo-chan. Osorete wa ikemasen ~ ❤

Si raggomitolò ancora di più, pregando di poter sparire.

Il mostro alato si stava avvicinando.

Le sue zampe, lunghe e affilate, graffiavano impercettibilmente il pavimento, le sue ali bianche e spiegate sembravano volerla accogliere in un abbraccio mortale.

Dita sentì gelarsi il petto.

Quella creatura le stava sorridendo, ma lei non sentiva amore nel suo cuore.

Le vennero in mente le parole della sua mamma.

*Ricorda tesoro mio, quando ti senti in pericolo, grida fortissimo e io correrò da te.*

E lei gridò.

 

 

Fu poco prima che attraversasse l’arcata della sala bar, in cui solitamente Caesar sprecava le proprie giornate, che Law sentì delle urla.

S’irrigidì ed alzò la testa verso le pareti metalliche della struttura, che ancora vibravano degli echi di quei lamenti straziati.

S’incupì.

Sembravano grida femminili, anzi no… fanciullesche.

E questo non fece che aumentare il suo malumore.

“Caesar!!!!” gridò dal più profondo del proprio petto ed avanzò spedito, certo di trovarlo lì.

Le sue aspettative non vennero difatti deluse.

Eccolo lì.

Oziava tra i fumi del proprio corpo, tracannando cocktail elaborati un bicchiere dopo l’altro.

Gli venne il voltastomaco quando lo vide alzare la testa e con sorrisetto storto per via dei vapori dell’alcol chiedergli:

“Aaah~! Law~! Cosa ci fai qui~?”

Si morse la lingua, trattenendosi.

Quel verme risultava ancora più viscido quando era inebriato, cosa che non succedeva molto spesso.

Doveva essere successo qualcosa che l’aveva rallegrato e il suo sesto senso gli diceva che l’arrivo delle nuove pazienti centrava qualcosa.

Si diede una calmata, tornando ad essere il freddo calcolatore di sempre.

Prendere quello scienziato pazzo di petto non avrebbe portato a niente. Anche se… il fatto che fosse già mezzo ubriaco poteva girare le carte a suo favore.

“Ho appena saputo che sono arrivate delle nuove pazienti. Perché non ne sono stato informato?”

“Ah sì~? Oooh~ devo essermi lasciato prendere dall’entusiasmo~!” si stiracchiò meglio quello, allungandosi in maniera innaturale sul divanetto viola. 

Faceva il finto tonto. Sapeva benissimo di averlo tenuto all’oscuro.

Miserabile pallone gonfiato..!

“E’ un regalo di Joker~!”

Il Chirurgo della Morte si bloccò a quel nome, neanche avesse sentito pronunciare una bestemmia.

Joker.

Allora ci aveva visto giusto.

Mantenendo quanta più calma riuscì, si diresse verso l’altro giaciglio e ci si sedette, assicurando come sempre la spada sulla spalla.

“Tre ragazzine malate …un regalo?” insinuò con sorrisetto provocante e subito la maschera di sguaiata contentezza dello scienziato si trasformò in una colma di disappunto.

“Non sono tre semplici ragazzine, sciocco!” sbottò, trangugiando di getto l’ennesimo bicchiere.

Se ne era preparati parecchi.

“Sono la chiave per portare a termine la mia ricerca sul SAD!” proclamò spalancando le braccia teatrale.

Il SAD? - pensò Law, guardingo: cosa mai potevano centrare tre ragazze con la ricerca di quel pazzo sui Frutti del Diavolo? 

A meno che..!

Caesar colse il suo disagio e gli lanciò una smorfia di scherno.

Era vero, dunque. Non era solo la sua immaginazione a galoppare con troppo entusiasmo.

Strinse i pugni sull’elsa nera della spada, facendo diventare le proprie nocche esangui.

“Quelle ragazze… non saranno…” stentava a vomitare quelle parole.

Un nodo gli stava stingendo la bocca dello stomaco.

Il demone di gas si risistemò sullo schienale della poltrona, compiaciuto come non mai.

“Già~! Sono delle Paradisee~”

Law non capì dove trovò la forza di regolare la propria sudorazione per non sudare freddo e raddrizzare gli angoli della propria bocca per aggiungere, in un vano, disperato tentativo di smascherare quello che sembrava essere un orribile scherzo:

“Credo tu abbia bevuto un po’ troppo, Caesar. Le paradisee sono estinte. Ne sono rimaste solo quattro. Protette da ciurme influenti del Nuovo Mondo o rifugiate su qualche isola sconosciuta.”

Non colpito dalle sue parole, lo scienziato iniziò, come sua brutta consuetudine, a scaccolarsi con un mignolo.

“Sì~.. Conosco la storia. Canarino Infernale fece un discorso molto toccante, anni fa…” biascicò, palesemente disinteressato.

“Ma questo~.. a quanto pare non ha impedito a Joker di trovarne altre 3 tra i resti di Nido Leila~.. Vive e vegete~!”

Era rimasto inebetito, nonostante la sua faccia da poker mascherasse il proprio subbuglio interiore.

Se quel pagliaccio in camice bianco diceva il vero, la produzione di Smile avrebbe fatto un balzo in avanti enorme.

Allegra Canarino Infernale aveva fatto un grande sbaglio a Marineford, rivelando al mondo intero l’esistenza della sua razza. 

Lui stesso, finita la guerra, ci aveva messo molto poco a fare due più due, una volta raccolte informazioni a sufficienza da degli archivi della Marina particolarmente sorvegliati.

Era venuto presto a conoscenza della carneficina che era stata Nido Leila. Quel rapporto, che aveva stampato nella mente, recante la firma di nulla di meno del Cane Rosso, era così dettagliato da mettere a dura la prova anche lo stomaco di un dottore come lui.

Un massacro spietato. Quelle creature erano state colpite con velocità e durezza inaudita.

Ed il motivo era stato solo uno: Le Paradisee creavano i Frutti del Diavolo.

Come ne fossero capaci era cosa sconosciuta persino alla Marina, ma il punto era che potevano e questo per Caesar era l’unica cosa che contava.

Le avrebbe usate come cavie, sottoposte a test disumani, sventrate, probabilmente anche sezionate.

Sarebbero morte in modo atroce.

La sensazione di un pugno allo stomaco lo riscosse.

Le urla fanciullesche di prima erano ricominciate, stavolta attirando anche l’attenzione dello scienziato.

Caesar alzò lo sguardo, chiaramente infastidito.

“Ah..quella mocciosetta deve essersi svegliata. Yaawwwn~! Non invidio Monet.” sbadigliò, intontito e con le lacrimucce agli occhi. 

“E’ un bene che questi laboratori siano insonorizzati. Le urla di quel mostriciattolo sarebbero in grado di attirare qui il Re dei Mari più vicino.”

Le pupille di Law si ridussero a due puntini.

Ma se queste sono le grida di una sola e una è dispersa… dov’è la terza? - ragionò allarmato.

“Ho saputo che una è scappata.”

“Sììì~ Ma non andrà lontano. Presto o tardi i miei uomini la troveranno.”

“L’altra invece?”

“Ha preferito starsene nella gabbia. Ha anche fatto fuori quasi tutti i marines che avevano accompagnato Vergo. Buon per lui. Meno pulizia da fare una volta che l’avrà scaricata a Dressrosa.”

Detto ciò lo scienziato kabuki trangugiò l’ultimo dei propri cocktail.

Dal canto proprio il Chirurgo della Morte, invece, era rimasto impietrito.

Dressrosa.

Perché Dressrosa?

Che senso aveva?

Di nuovo le urla della bambina di poco prima.

“Insomma! Che diavolo sta facendo Monet?! Adesso non riesce nemmeno più a tenere a bada una bambina?!”

Law si alzò.

Non aveva tempo da perdere.

Qualunque cosa stesse succedendo, doveva focalizzarsi sulle priorità.

“Recupererò io la Paradisea che è scappata.” decretò, dirigendosi all’uscita “Tu pensa a goderti il tuo premio, dottore.”

Ovviamente Caesar Clown, che non poteva sapere che il senso della frase del Chirurgo voleva essere derisorio, arrossì sulle guance, certo di aver appena ricevuto un complimento.

 

 

 

Non voltarti indietro.

I suoi ansimi scandivano il suo avanzare nella neve.

Non voltarti indietro 

I suoi piedi affondavano nella steppa ghiacciata, cuocendo passo dopo passo.

Non voltarti indietro.

Si strinse le spalle con le mani infuocate, così simili ad ali, ma, anche se il sua essenza le ricopriva il corpo quasi del tutto, apparendo come un lungo vestito di veli fiammeggianti, sentiva il freddo star prendendo il sopravvento du di lei.

Poteva chiaramente avvertire le piante dei piedi spaccarsi lentamente.

Quanto tempo aveva camminato in quel deserto di ghiaccio?

Il vento le scuoteva il manto di fuoco attorno alle membra, rendendo inutile la loro calda presenza. 

Ormai le mascelle battevano incessantemente. Quanto avrebbe desiderato un po’ di acqua calda, un bagno vaporoso e tiepido, come quelli delle sorgenti dove lei e le altre pescatrici del villaggio raccoglievano cibo per le altre.

Non voltarti indietro.

Era quel mantra ossessivo l’unica cosa a mandarla avanti.

Oltre al pensiero del cibo.

Una fitta più forte la colse, costringendola a raschiare in ginocchio manciate di neve da ingoiare, in cerca di sollievo. A contatto con le sue mani infuocate quei cristalli si scioglievano velocemente, quindi per lei indispensabile buttarli giù ancora solidi, per non perderne neanche una goccia. 

Finito di bere poggiò controvoglia la fronte su quella distesa di gelo, raggomitolata su se stessa per sopprimere gli ultimi spasmi di dolore,.

La sua lingua, prima secca ed attaccato al palato si era un poco ammorbidita, ma la gola rimaneva stretta e bisognosa di nutrimento. 

Le sembrava di soffocare.

Doveva mangiare qualcosa, qualsiasi cosa, ma in quell’inferno bianco non c’era nemmeno un ramo d’albero.

Se soltanto potessi creare una Nota… - implorò, gli occhi socchiusi, ma ancora troppo secchi per concedersi il lusso di un pianto - …basterebbe un annetto.

Le venne quasi da urlare, quando, ancora confusa dalla violenza della tormenta, vide quello che sembrava uno spuntone di roccia sotto il quale potersi riparare.

Oh Grande spirito, grazie!Graziegraziegrazie!

Vi si trascinò a forza, constatando col cuore colmo di gioia che il vento non arrivava ad abbattersi anche su quell’angusta e provvidenziale nicchia.

Le sue fiamme, finalmente indisturbate, si rinvigorirono e portarono un poco di calore alle sue stanche membra.

Strinse le ginocchia al petto e lasciò che le palpebre si abbassassero.

Un mezzo singhiozzo le scappò dalle labbra, quando sospirò.

Era salva, per il momento.

 

 

 

Lo scricchiolio della neve la svegliò di soprassalto.

Doveva essersi addormentata, travolta dalla stanchezza e il digiuno.

Poi. girando la testa di lato, la vide.

Una figura altissima, nera, ferma in mezzo alla neve e a pochi passi da lei.

Le si mozzò il respiro e le sue mani scattarono in avanti istintivamente, aspettandosi di dover bloccare un attacco, ma l’apparizione non si mosse, anzi, rimase lì ferma come se non l’avesse nemmeno percepita muoversi.

Pareva uno spettro.

Gaida identificò solo in un secondo momento nella figura una sorta di demone bianco.

Indossava una strana lunga tunica color degli abissi più profondi, maculata di giallo verso la fine, un copricapo bianco, anch’esso presentante delle macchie, nere, e teneva poggiata sulla spalla qualcosa di lungo.

Aveva la pelle bruna, mani grandi appena visibili, degli strani ed incomprensibili segni sulle nocche e…

Deglutì.

Due occhi di iride grigia, ombrati dalla visiera del cappello, scavati da delle occhiaie, stretti e taglienti, fissi su di lei, senza battere ciglio.

Le venne la pelle d’oca.

E dire,…- pensò sarcastica - …che gli occhi della mamma avevano lo stesso colore.

Sarebbe stata una barzelletta, venire uccisa nel mentre metteva a confronto gli occhi del suo carnefice con quelli dell’unica persona che più di tutti l’aveva amata al mondo.

Si chinò appena e scattò via.

Non oggi.

Fu allora che il demone nero si mosse e ruggì qualcosa.

Quelle creature avevano un timbro vocale che sembrava provenire direttamente dalle viscere della terra, ma quella cosa, qualsiasi cosa significasse, le fece letteralmente rizzare i capelli.

Room.”

Un istante dopo, Gaida, tesa nell’atto di lanciarsi in avanti, si sentì in trappola. 

Avvertì come una pellicola sottile, espandersi e trapassarla, come se una bolla di sapone si fosse espansa tutt’attorno a lei.

Cosa-..?!

Qualcosa si mosse dietro di lei, una pressione sul lato sinistro della schiena e poi… sentì il vento ghiacciato soffiarle attraverso il petto.

Scalpel.”

Si sentì mancare il respiro e cadde a terra, sbigottita.

Le sue fiamme si erano dissipate, abbandonandola, e la testa le vorticò.

Cos’era successo?

Non era stata abbastanza veloce? Stava morendo? Perchè allora non smetteva di respirare?

Sentì la figura nera passarle di fianco, scostando ad ogni suo passo piccole montagne di neve.

Se prima aveva pensato di aver provato freddo, dovette ricredersi: in tutta la propria vita, Gaida non aveva mai tremato così tanto.

Dei filamenti arancioni le volteggiavano ai lati del viso e sulle spalle.

Fu la prima volta che vide di che colore erano i suoi capelli.

Gomen'. Watashi wa anata to anata no yūjin o tasukete mimasu.

Lo vide chinarsi, qualche passo di fronte a lei, e raccogliere qualcosa.

Tentò di focalizzarlo: era un involucro violaceo cubico, trasparente, gelatinoso quasi e dentro…

Se avesse avuto lo stomaco pieno, Gaida avrebbe vomitato.

Quello strano frutto rosa e carnoso contenuto al suo interno si era appena mosso.

Era vivo e stava palpitando ad un ritmo che le risultò orrendamente famigliare.

Fu quando il demone nero lo prese in mano, sollevandolo che capì.

Aveva chiaramente avvertito la sensazione di quelle dita attorno a quella cosa.

Come se appartenesse a lei.

Come se fosse stata un’estensione del suo corpo

Tada... Kyō wa shimasen.

Non pensava neanche più ad ascoltarlo. Ormai la voce di quella creatura echeggiava lontana alle sue orecchie.

Le sue mani si alzarono spaventate e tremanti verso il proprio petto, temendo già di sapere cosa avrebbero trovato.

E infatti i suoi polpastrelli incontrarono il vuoto.

Abbassò lo sguardo ed inorridì.

Appena sopra il seno sinistro uno buco quadrato le squarciava il torace, attraversandola da parte a parte.

Non c’era né sangue né dolore.

Solo l’orrenda sensazione di essere stata appena derubata di qualcosa.

Il suo cuore.

Un grido fece a malapena in tempo a risalirle la gola, prima che il demone le fosse addosso, costringendola a tacere con una mano ben stretta sul suo viso.

Ochitsuku!!

Gaida sentiva il respiro galopparle incontrollato.

Non capiva più niente.

Iniziò ad agitare le braccia. 

Tentò di graffiarlo, allontanarlo, addirittura cercò di mordergli la mano, senza successo.

All’altezza del suo fianco, il suo cuore martellava incontrollato, nel posto sbagliato, ancora nelle mani di quel mostro.

Un forte dolore alla tempia e si afflosciò, incosciente.

 

 

Note a piè pagina:

 

Monet:        Su, bambina. Non avere paura~.

Trafalgar:    Spiacente. Aiuterò te e le tue amiche. 
                    Solo…non oggi.
                    
Calmati!

 
   
 
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