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Autore: Nat_Matryoshka    08/01/2016    3 recensioni
Le loro esistenze non sono mai state simili: cosa potrebbero avere in comune una principessa in un mondo di meraviglie e un ex-Tributo che lotta contro se stesso per non cadere nell’abisso? Eppure, ad Haymitch importa davvero di Effie. E farebbe di tutto pur di salvarla. Di vederla sorridere di nuovo.
[Ambientato tra la fine di Catching Fire e la prima parte di Mockingjay || Hayffie]
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Vincitrice del Premio Lacrima in "Il contest delle ship" indetto da emmevi sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Effie Trinket, Haymitch Abernathy
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autore: 
  1. La storia si svolge in un ipotetico missing moment tra la fine de La Ragazza di Fuoco e l’inizio della prima parte de Il Canto della Rivolta: ho immaginato che Effie sia stata salvata da Capitol City prima di venire giustiziata con l’accusa di appoggiare il Distretto 13 e la ribellione.
  2. Inizialmente Effie appare cosciente e in grado di camminare, ma Haymitch le si avvicina mentre è sotto l'effetto di un sonno indotto dai medicinali, per permetterle di riposarsi e non sprecare le proprie energie.
  3. Il titolo è una citazione della canzone “Dust to Dust” dei Civil Wars.
 
 



You’re like a mirror, reflecting me
 
 
 




Quando Haymitch chiude gli occhi e pensa ad Effie, l’immagine che la sua mente gli restituisce è quella della donna che ha visto la prima volta alla Mietitura di qualche anno prima, al Distretto dodici: una ridicola parrucca color cipria, un corpo stupendo infilato in un vestito fucsia, un bocciolo violentemente stagliato sul grigiore dell’ambiente circostante e altrettanto impossibile da non notare, un paio di scarpe che rendevano le sue gambe magre ancora più sottili e innaturalmente lunghe. Trucco pesante, lustrini e piume ovunque, un’opulenza quasi oscena sbattuta in faccia agli abitanti del Distretto, ma lei che poteva farci? Quando provieni da un ambiente che ti insegna ad elevarti al disopra della plebaglia, alla fine ti ritrovi ad accettare tutto senza farti domande, soprattutto se tendi a rispettare le regole come una brava bambina… e quello era decisamente il caso di Effie.
Gli occhi, però, lo avevano colpito più di ogni altra cosa: celesti e puri, poco più chiari dei suoi ma più ingenui, privi del dolore accumulato durante gli anni trascorsi a portarsi dietro il fardello degli Hunger Games senza poterlo mai posare. Il trucco poteva soffocarli, renderli irriconoscibili, ma la purezza dei suoi sguardi era rimasta intatta nel tempo, l’aveva accompagnata durante i cambiamenti che avevano vissuto, gli aveva dato speranza. Continuava a dargliene, per quanto fossero settimane che non li vedeva più.
Perché, se una creatura di Capitol City come lei riusciva a provare sentimenti come la pietà e l’affetto, significava che non tutto era perduto.
 
________
 



Una volta entrato nella stanza d’ospedale, i colori sembrano scomparire, come se fossero stati risucchiati da una gigantesca lavatrice che li ha risputati fuori sbiaditi, trasformati in bianco e grigio. Effie l’avrebbe detestato. Avrebbe odiato i mobili dal primo all’ultimo, soprattutto perché non si trattava di mogano ma di qualche volgarissima fornitura industriale per edifici pubblici, tutta in legno scadente plastica e metallo, da farle arricciare le labbra e storcere il naso. Avrebbe chiamato per farsi portare almeno un paio di tendine di un colore decente, scendendo a compromessi con se stessa per non pretendere quello più di moda al momento.  E il cibo… già, neppure quello le sarebbe andato bene: troppo povero, troppo insipido, non nutriente. Un vero schifo, per una come lei, abituata ai gusti più raffinati. Avrebbe fatto impazzire l’infermiere, che probabilmente l’avrebbe accontentata per mandarla poi a quel paese, una volta uscito… o semplicemente sarebbe stato zitto e si sarebbe limitato a lasciarla cianciare, indifferente ad ogni sua esigenza. Effie avrebbe bofonchiato, offesa, ma la questione sarebbe finita lì: una signora sapeva sempre quando tacere, erano le norme base della buona educazione. Effie eccelleva in quelle cose frivole e graziose, tipo il galateo e le buone maniere e il saper abbinare due colori insieme e…
Lascia che la sua mente dialoghi con se stessa e immagini quello che vuole, poi posa lo sguardo sul corpo abbandonato di lei, sul viso bianco come porcellana e coperto da bende, ancora più bianco di quanto ricordi. Ogni pensiero è buono, pur di non doverla vedere ridotta com’è ora.
È in quel momento che Haymitch si siede accanto a lei. Poggia le mani sul letto così bianco da accecarlo, ascolta il ticchettare dell’orologio, si perde a osservare la flebo che gocciola lentamente, poi prende una delle mani di Effie e la accarezza piano, come se fosse un fiore di carta che ha il terrore di spiegazzare, qualcosa di così bello e fragile da far venire le lacrime agli occhi nel guardarlo, un groppo in gola che non se ne va per quanto si cerchi di scioglierlo, di cacciarlo via.
“Dolcezza.”                                                            
Si rivolge a lei con una sola parola, poi sorride. Continua a sfiorare la sua mano, quasi a volerla plasmare da un blocco di marmo morbido come burro, ma non dice altro, pensa e basta.
Pensa a quando sono andati a recuperarla assieme a Plutarch Heavensbee, dopo la fine dell’Edizione della Memoria: l’avevano portata in una cella in attesa di un’esecuzione mai fissata, ma la paura per una sorte non definita l’aveva ridotta ad uno straccio, un’ombra della donna che aveva conosciuto. Ricordava i suoi occhi spenti, le labbra secche, i vestiti grigi nei quali l’avevano infilata a forza e che le erano rimasti addosso come una muta di serpente priva del suo interno, sostituiti solo dalla camicia da notte bianca dell’ospedale. Non aveva idea di cosa gli avesse detto la testa, quando si era impuntato a forza perché la rilasciassero: in qualche modo, sentiva di non poter lasciarla andare. Sarebbe stato sbagliato, lei faceva parte della loro squadra, della loro famiglia… non voleva che le capitasse qualcosa di male, neppure lui sapeva perché. Voleva che stesse bene e basta.

Siamo sentimentali, eh Haymitch?

Fissa lo sguardo sulle sue ciglia lunghe, belle anche senza tutto il mascara e i brillantini che le ricoprivano fino a poco tempo prima. Vederla così fragile, i capelli biondi e sciolti sul cuscino, il viso struccato, giovane gli dà una strana sensazione, come se fosse precipitato all’improvviso in una dimensione intima che mette a confronto le loro parti più nascoste, quelle che nessuno dei due ha mai avuto interesse a mostrare. Eppure ora sono lì, lei è priva di conoscenza e dorme come una bambina, lui continua a sfiorarle una mano come se non riuscisse a fermarsi e formula pensieri che mai avrebbe potuto credere possibili, che scappano si rincorrono e finiscono negli angoli della stanza, sperando di sopraffarlo.
Scuote la testa.
Quando le porte della cella si erano aperte, quasi non l’aveva riconosciuta. L’avevano spinta in avanti senza grazia, senza cura, con lo sguardo indifferente e superiore di chi si sente quasi soddisfatto nel vedere una cittadina di Capitol City così in difficoltà, spogliata delle ricchezze che aveva rubato al resto di Panem insieme ai suoi concittadini. Non vedono che sguardo ha? si era chiesto Haymitch.

Come fanno a sentirsi in pace con loro stessi davanti a tutto quello che le stanno facendo?

Un attimo dopo, si era stupito di se stesso e dell’umanità che gli era ancora rimasta. Forse c’era ancora posto per i sentimenti, tra la cenere che ricopriva il cuore duro e freddo di quell’ubriacone di Haymitch Abernathy. Forse era cambiato fin troppo, ma non se n’era mai accorto.
Non capisce che cosa gli sia preso, e il fatto lo preoccupa, quasi lo spaventa: pensava di aver sigillato le sue emozioni tanti anni prima, quando era solo un ragazzino tornato da un gioco crudele nel quale aveva sacrificato pezzo per pezzo ogni brandello di una vita normale. Gli anni di solitudine e l’alcool ci mettono poco a trasformare completamente un uomo… eppure ha sempre sentito di esserselo meritato, una sorta di punizione per essere rimasto vivo al posto dei suoi compagni. Amore? Amicizia? Affetto, empatia, tutte quelle belle parole lì non fanno per lui, ci ha rinunciato da anni ed è meglio così, è sempre stato meglio così. Ora che ha perso la bussola e non sa più chi è, sente di non avere più spiegazioni da fornirsi: sa solo che vorrebbe far tornare tutto come prima. Sentirla raccontare stupidaggini, lamentarsi per il cibo, preoccuparsi per la pettinatura o l’abito del giorno, ridere in quella sua maniera tutta particolare per rallegrare l’atmosfera, anche solo spostarsi una spallina dell’abito con un gesto delle dita lunghe, sottili, perfettamente curate. Vorrebbe poterle dire che prova qualcosa, aprirsi come non ha mai fatto e smetterla di punirsi per quello che è stato in passato, ma quella situazione è così ridicolmente romantica e sbagliata da fargli venire voglia di piangere e sghignazzare contemporaneamente, senza ritegno, per poi vergognarsi della propria stupidità. Vorrebbe baciarla, se solo ricordasse ancora come si fa.

Hai scelto il momento peggiore per innamorarti, Haymitch. Quarant’anni, un passato da ubriacone e una vita da poveraccio fuori di testa, chi potrebbe mai volerti?

“Sono nei pasticci, dolcezza. Fino al collo.”
Continua a lisciare il lenzuolo senza dire nulla, osservandola e basta. Ed è in quel momento – quello più sbagliato in assoluto, o forse quello più azzeccato? – che Effie Trinket apre gli occhi dopo giorni interi di sonno indotto dai medicinali, due fessure celesti che si spalancano in un attimo e sembrano perdersi nel bianco spaventoso della stanza, due piccoli frammenti di luce inghiottiti dal nulla. Haymitch non se ne accorge, resta con gli occhi bassi fino a che una vocina flebile non lo richiama all’attenzione e quando lo fa è come se tutti i rumori del mondo si fermassero, solo per permettere a quel suono di farsi strada nell’aria, di raggiungere le sue orecchie e la mente stanca, che ha riflettuto troppo.
“Hay… mitch?”
Lui spalanca gli occhi e lascia andare via ogni altro pensiero, concentrandosi solo su di lei. Si alza dalla sedia e si piega sul suo corpo ricoperto di fili e tubicini, spostandole una ciocca di capelli sudati dal viso. Ora che ha aperto quegli occhi celesti così ingenui da disarmarlo sembra ancora di più una bambina spaventata dalla situazione, giovane e sperduta in un mondo che non le appartiene. Ha provato a essere una ribelle, forse ci sta provando ancora, ma serve del tempo per abituarsi a quella vita.

Dove sono tutti i tuoi lustrini, Effie? Dove sono finite le feste e i divertimenti, la noncuranza totale del mondo che ti circondava e che ti portavi dietro come una maschera incollata al tuo viso da bambola?

“Ciao, dolcezza. Sei sorpresa di trovarmi qui?”
Lei lo fissa, come se volesse assicurarsi di vederlo davvero e di non avere davanti un’illusione, qualcuno travestito da Mentore messo lì per ingannarla, forse un nuovo torturatore che vuole colpirla prima psicologicamente, poi di nuovo nel corpo. Si tranquillizza osservando il movimento familiare delle sue labbra, sentendo la mano di lui che si fa strada tra le lenzuola e afferra una delle sue, cercando di non spostare gli altri tubicini attaccati alle dita: quel posto non sembra orribile come la prigione. Certo, non sarà una reggia, ma è al sicuro e quello le basta.
Sorride, incurvando appena le labbra.
“No. Siamo una squadra, non ricordi?”

 
__________
 



Hanno preso tutto il team dei tuoi ragazzi, gli aveva detto Plutarch. Lo stilista di Katniss è morto prima dell’inizio dei Giochi, ma l’accompagnatrice, i parrucchieri, gli altri stilisti… tutti catturati. Credo vogliano giustiziarli.
Lui si era irrigidito: come si potevano mettere a morte persone completamente innocenti, solo perché avevano fatto parte di quella giostra orribile stando dalla parte sbagliata? Aveva stretto i pugni, si era impuntato, aveva dichiarato che si sarebbero potuti scordare la sua collaborazione se non avessero risparmiato quelle persone… e aveva funzionato. Dopo qualche giorno di trattative estenuanti e di bocconi amari buttati giù col whisky (prima che la Presidente Coin decidesse di sequestrarglielo rendendo effettivo il proibizionismo, ovvio), erano stati scortati alla prigione e gli era stata affidata la prigioniera, o almeno quello che restava di lei. 
Mentre la guardava muoversi malferma sulle gambe magre, trascinata dalle guardie verso l’elicottero col quale l’avrebbero trasportata al Distretto 13, aveva pensato a quanto fosse cambiata in quel poco tempo: la maschera di trucco dallo sguardo altezzoso e seccato, che lo aveva freddato con un’occhiataccia per aver vomitato sul treno diretto a Capitol City anni prima era diventata quella di una donna dallo sguardo triste e dalla voce tremante che salutava con dolore i suoi protetti per la loro seconda Mietitura, un sorriso di circostanza sul viso, fragile quasi come le farfalle che ricoprivano il suo vestito. Si trattava comunque del passato… e il presente? Chi era la ragazza che stavano portando con loro, la creatura fatta di stracci e sguardi spenti che si era macchiata di una colpa di cui non si rendeva neppure conto?
Era finito per sbaglio nella stanza dove gli infermieri la stavano cambiando per metterla a letto e le aveva viste: cicatrici. Le ricoprivano la schiena, le segnavano le mani e le gambe, un intrico di ragnatele incise dalla crudeltà, graffi tagli e lividi ormai rimarginati ma che sicuramente le torturavano ancora l’anima. La mano gli era andata istintivamente a quella che portava sullo stomaco e si era sentito scuotere da un brivido.
Come hanno potuto farci questo?
Un piccolo gemito lo riporta alla realtà: Effie si è mossa per prendere l’acqua sul tavolino accanto al letto, ma i suoi movimenti sono ancora troppo impacciati e condizionati dai sonniferi. Lui la precede e le porge con delicatezza un bicchiere pieno, cercando di aiutarla a bere un sorso d’acqua senza rovesciarsela addosso. Effie lotta per mantenere la sua dignità di persona sempre al massimo dell’efficienza, ma alla fine si arrende e lascia che Haymitch si prenda cura di lei, meravigliandosi per quella gentilezza inaspettata, tremando appena al suo tocco gentile. Un aspetto di lui che le è nuovo, ma ciò che vede la stupisce piacevolmente. 

“Piano, dolcezza. Ti farai la doccia se continui così.”
“Poco male, tanto avrei il mio assistente pronto ad asciugarmi… o no?”

Lo ha preso in contropiede e se ne rende conto: sorride appena, ma in quelle labbra incurvate c’è la Effie che ricordava, la donna allegra e ciarliera che, in fondo, voleva soltanto che tutti stessero bene. È dimagrita e triste, ma nella sua anima c’è ancora qualcosa di lei, ed è a questo piccolo frammento che si attacca con tutte le sue forze, come se potesse sfuggirgli dalle mani, come se anche lei potesse scappare via senza più ritornare.
Le prende di nuovo una mano e le accarezza le dita, una dopo l’altra, quasi a volersi imprimere la loro forma nella mente: se avessero avuto l’intenzione di strapparle le ali e di inchiodarla con uno spillo al cartone dei colpevoli, beh, non glielo avrebbe lasciato fare. Non ne avevano il diritto. Non avrebbero fatto a pezzi l’anima di un’altra persona come era successo con la sua, quando ancora non aveva la possibilità di cambiare le cose.
Darebbe di tutto, pur di riavere la Effie che conosceva, la stessa donna che fino a poco tempo prima lo irritava tanto. La rivuole semplicemente indietro così com’era, Effie Trinket, e basta, ma si rende conto che non sarebbe così semplice: nei suoi occhi, nella fragilità dei movimenti, persino nel modo rapido in cui sbatteva le palpebre e si guardava attorno smarrita legge la paura che ancora prova e che deve aver riempito le sue giornate. Quanto vorrebbe essere in grado di abbracciarla e rassicurarla, dirle che andrà tutto bene. Affondare il naso nei suoi capelli e sussurrarle che è importante, che la proteggerà e nessuno oserebbe farle del male perché non glielo permetterebbe… anche se non si sente la persona migliore, per fare qualcosa di simile. Non uno come lui.
Se non altro, ci proverà con tutto se stesso.
Siamo due ammassi di cicatrici e incubi notturni, ma possiamo farcela, dolcezza. Eri una principessina di Capitol City, sei diventata una ribelle… quante altre cose potranno cambiare.
Potrei cambiare anche io. O magari già l’ho fatto.
Si alza e lascia la mano di lei, sostituendo il tocco delle dita a quello delle labbra sulla sua fronte, posandole un bacio sopra agli occhi stanchi e arrossati dal troppo piangere. È un inizio, eppure in qualche modo sente di aver fatto la cosa giusta: Effie gli sorride e basta quell’ennesimo incurvarsi delle labbra per renderlo felice, almeno per un po’.
La sua buonanotte.
 
   
 
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