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Autore: Astrid Romanova    10/01/2016    1 recensioni
Fin da bambino, Adrian aveva sempre sentito il desiderio di andarsene. L'andarsene nella sua forma più semplice ed immediata, come puro istinto alla fuga perenne e irrefrenabile. Né il mare né le navi che lo solcavano gli erano mai piaciuti, eppure a ventotto anni è ormai un marinaio esperto e straordinariamente scansafatiche.
Quando un giorno, sul ponte della Sposa Tradita, rivede Ravenna, non può immaginare che diciassette anni di vite diverse abbiano visto la bambina che conosceva diventare una ladra, ormai da due anni alla ricerca di un padre scomparso.
_________
«C'è un modo, sai?»
La spiazzò.
«Per cosa?»
«Per farmi smettere di lamentarmi.»
Ravenna assottigliò lo sguardo, scrutando il volto di Adrian in cerca di una risposta.
«Quale?»
[...]
«Lo stesso per farmi smettere di parlare del tutto» continuò, sperando di non essere costretto a dare spiegazioni dirette.
«Quale?» Insistette lei.
«Lo stesso per immobilizzarmi completamente.»
O per fermarmi il cuore. Potrebbe succedere se tu lo facessi come l'hai fatto stanotte.
«Quale?»
Adrian ebbe un moto di frustrazione.
«Darmi una botta in testa» borbottò sconfitto.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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#9. Sottocoperta

A notte fonda, Adrian era steso sulla propria branda ancora vestito e con gli occhi spalancati.
Ravenna non si era ancora fatta viva; aveva pensato che la gioia euforica del ricongiungimento le avesse fatto perdere la cognizione del tempo, così aveva tenuto a bada la preoccupazione. Ma più l’oscurità si infittiva e la luna procedeva nel suo percorso, più difficile diventava porre dei freni all’apprensione che sentiva svilupparsi al centro del petto.
Forse si era già dimenticata di lui. Aveva ottenuto ciò che desiderava, a cos’altro le serviva un marinaio scapestrato e assolutamente inaffidabile?
Ricordò il giorno in cui si erano incontrati di nuovo per la prima volta, cresciuti e irriconoscibili. Allora i ricordi avevano bussato prepotentemente alla sua mente, ora quello stesso momento era diventato un ricordo che rischiava di tormentarlo molto più di quanto avessero fatto i precedenti. Il loro viaggio avrebbe preso il posto della loro infanzia, i pericoli avrebbero sostituito i dispetti e le more non avrebbero più avuto alcun valore se confrontate con gli abbracci, i baci, gli ansiti. Era stato capace di lasciarsi alle spalle la bambina di Cerys, ma non era certo che sarebbe mai più riuscito a lasciarsi alle spalle la donna delle foreste.
Si rigirò sullo scomodo materasso puntellandosi sui gomiti, reggendosi la testa con le mani come a volerle fare da barriera contro i deleteri influssi di paranoia. Ma la verità era che la paranoia era nata all’interno stesso della sua mente, dove nessuno scudo poteva difenderlo.
Si stava lasciando condizionare dalla paura che lo aveva accompagnato per tutta la traversata da una costa all’altra, il timore che giungere alla meta avrebbe fatto scordare a Ravenna tutta la strada fatta per raggiungerla e ciò che aveva trovato lungo il cammino. 
In realtà potevano esserci decine di spiegazioni per giustificare il suo ritardo, se solo si fosse preso la briga di vagliare le ipotesi: poteva essersi fermata da Gren per la notte con l’intenzione di tornare da lui il mattino successivo, per dirgli che andava tutto bene e che sarebbero tutti tornati sulla Costa Settentrionale; poteva essere sulla strada del ritorno in quello stesso momento in cui lui si accoltellava il cervello; poteva esserle successo qualcosa mentre era là fuori da sola, al buio, in una città che non conosceva. L’ultima volta in cui aveva pensato che lei lo avesse abbandonato aveva scoperto che non era potuta tornare da lui perché era stata arrestata. Non era il caso di agitarsi troppo.  Quindi si alzò di scatto dal letto e saettò verso la porta, aprendola di slancio e senza curarsi di richiuderla.
La notte di Metra era persino più calda di quanto la ricordasse, cosa che non gli fece rimpiangere di aver dimenticato giacca e gilet nella stanza alla locanda. Mentre si avvicinava alla casa di Gren, furono le sue orecchie a captare i primi segnali, molto prima di quando gli occhi riuscirono ad intravedere la figura seduta a lato della strada.
 
Nelle mie braccia dormirai
Finché il sole sorgerà
E tu sola mai sarai
Finché la mamma ti proteggerà
 
Bambina mia, dormi serena,
Chiudi gli occhi al canto della sirena.
 
Già domani crescerai
Finché la luna sorgerà
Ma sempre bambina resterai
Finché il papà ti proteggerà
 
Bambina mia, dormi serena,
Chiudi gli occhi al canto della sirena.
 
Se distinguere le sagome nell’oscurità non era un compito semplice, al contrario riconoscere quella voce era facile come prendere un respiro, per Adrian. Così come lo era riconoscerne le sfumature che da bambino sapeva a menadito, recentemente tornate ad essergli familiari come i colori di un passaggio già visto e ritrovato.
Dopo aver udito le prime note rimase ad ascoltare abbastanza a lungo da rendersi conto che le tinte di quella ninna nanna erano tristi, le note trasparenti come lacrime.
Ciò che avrebbe dovuto essere rassicurante diveniva doloroso in quel canto non solo malinconico, non solo mesto, non solo sconsolato: quello… quello era il suono di un cuore spezzato.
 
◄►
 
Ravenna aveva bussato tre volte.
La prima, con mano quasi tremante, fu in un gesto furtivo e forse troppo lieve.
La seconda, con qualche secondo di scarto, dopo aver deglutito per inghiottire il piombo che le invadeva la gola.
La terza, con le sopracciglia aggrottate, persino un po’ scocciata: non aveva fatto anni di ricerche e cambiato continente per poi non trovare nessuno in casa.
«Sì, sì, arrivo» aveva borbottato una voce anche più infastidita dall’altro lato della porta.
La ladra ebbe un tuffo al cuore improvviso e, sebbene non del tutto inaspettato, ancor più sconvolgente delle sue previsioni; con la testa che girava per la trepidazione si preparò al momento in cui la porta sarebbe stata aperta, nonostante sapesse che non sarebbe mai stata davvero pronta: se il solo suono di una voce poteva farle mancare un battito, la vista del viso che aveva tanto a lungo cercato avrebbe potuto fermarle il cuore.
I cardini aveva cigolato nei propri sostegni e una lama di luce aveva fenduto l’oscurità, espandendosi e riempiendosi di un’ombra dai contorni umani; Ravenna trattenne il fiato.
«Chi è là?» L’aveva esortata l’uomo appena apparso sulla soglia.
Non assomigliava affatto a Gren Maerian.
Ravenna aveva sempre creduto che non avrebbe avuto dubbi, che avrebbe riconosciuto suo padre tra mille non appena avesse visto il suo viso, anche solo di sfuggita. Eppure il vecchio di fronte a lei non aveva nulla dell’uomo che ricordava.
Gli occhi lattiginosi l’avevano guardata senza vederla, le rughe sul volto segnato dalla fatica erano profonde e gli rigavano la pelle come crepe. I capelli, canuti ma ancora folti, erano disordinati e visibilmente sporchi, nulla a che vedere con la lucida capigliatura del fabbro di Cerys.
Quella figura grigia e raggrinzita non era suo padre.
Eppure…
Eppure la voce era la sua. Le mani – macchiate dall’età – erano quelle dell’uomo abituato a battere sul ferro caldo dalla mattina alla sera, instancabilmente. Il modo in cui le sue labbra erano contratte dal disappunto era lo stesso che rivolgeva alla sua unica figlia quando scappava nel bosco senza autorizzazione, facendolo spaventare a morte.
Suo padre era diventato cieco, ma lei vedeva… vedeva ancora tutto.
«Dannati ragazzini» aveva borbottato il vecchio, preparandosi a richiudere la porta.
«Aspetta.»
Gren Maerian aveva aspettato.
Cosa dire? Come iniziare? La mente di Ravenna era azzerata, ma lui stava aspettando. Forse l’aveva sempre aspettata. Il desiderio di ricongiungersi a lui aveva rapidamente superato la paralisi senza che lei ne fosse realmente consapevole, trovando l’accesso alle sue labbra per pronunciare ciò che per anni aveva sperato di poter ripetere una volta ancora.
«Padre…» aveva mormorato con un filo di voce. Aveva alzato una mano come per toccarlo, ma a metà della via l’aveva lasciata ricadere sul fianco. Non voleva spaventarlo. «Padre» aveva così ripetuto, ora con più forza. «Sono… sono Ravenna.»
Il vecchio aveva aggrottato le sopracciglia, difficile dire se per la sorpresa o lo sconcerto. Le sue palpebre si erano aperte un po’ di più, la sua postura statica si era fatta ancor più immobile, le labbra erano diventate un’unica linea tesa in quella che pareva più paura che gioia.
«Chi sei? Io non ho figli, signorina. Non conosco nessuna Ravenna.»
All’istante, Ravenna aveva sentito il suo intero corpo congelarsi.
Non era possibile. Non poteva essersi sbagliata, gli anni erano passati e i segni del tempo avevano sfigurato il panorama un tempo familiare, ma non poteva essersi sbagliata. Era lui. Doveva essere lui. Poteva non essere lui?
Il dubbio già spontaneamente sorto nella sua fede aveva trovato terreno fertile per crescere e mettere radici; forse aveva visto quello che voleva vedere. Forse era così disperata da trovare similitudini dove non ce n’erano. Un pensiero terrificante… ma non così impossibile.
«Cerco Gren Valerious» aveva ripreso a stento. «Mi è stato detto che abita qui.»
Aveva forzato un contegno che a stento riusciva a mantenere. Le urla di frustrazione che premevano per uscire erano ardue da contenere, ma si era costretta a esibire una precaria diplomazia di superficie.
«Mi dispiace, ha sbagliato casa» l’aveva liquidata il vecchio, esordendo nuovamente nel gesto di chiudere la porta.
«Aspetti» aveva ripetuto lei, ma non seppe perché l‘avesse fermato. La delusione le era già entrata in circolo nel sangue, eppure la sua mente continuava imperterrita a tentare di rifuggire una consapevolezza che non bastava a far fronte alla disperata speranza. Aveva bisogno del Gren Maerian che era stato fabbro di Cerys, marito di Saoirse, padre di una bambina che l’aveva perduto troppo presto.
«Ascolti signorina, per me è ora di far riposare le mie vecchie ossa. Mi dispiace di non poterle essere utile, ma nemmeno conosco qualcuno che risponda al nome di Gren Maerian. Buonanotte.»
Ma mentre la porta si chiudeva, gli occhi di Ravenna si erano spalancati.
Si era sentita soffocare, com’era accaduto nella pancia della nave che l’aveva condotta fino a lì. Forse aveva vissuto tutta la vita sottocoperta, strozzata dalla propria stessa speranza. 
Aveva indietreggiato finché la sua schiena si era trovata a contatto con un muro, impedendole la ritirata, inorridita dall’atrocità che aveva appena realizzato. Le era bastato un secondo, una parola sbagliata e l’inganno in cui era cascata si era dissolto come fumo, lasciandola intossicata ma crudelmente consapevole.
“Cerco Gren Valerious”, aveva detto lei, perché era così che suo padre aveva deciso di farsi conoscere, lì.
“Non conosco nessun Gren Maerian”, aveva risposto lui, dimentico del fatto che lei non avesse mai pronunciato ad alta quel cognome che un semplice anziano di Metra non avrebbe mai potuto conoscere.
Aveva provato a respingere l’idea, un tentativo di autoprotezione destinato a fallire che non aveva neanche avuto il pregio di farle guadagnare tempo. Ravenna era sempre stata troppo sveglia, i suoi occhi erano raramente in grado di chiudersi di fronte a ciò che non voleva vedere; quella volta non fecero eccezione. Non c’era spiegazione che reggesse, nessuna argomentazione in grado di far fronte alla verità; l’innaturale reazione del vecchio alla sua presentazione aveva acquistato un senso, la necessità di viaggiare addirittura oltremare per seguire le sue tracce aveva trovato infine una spiegazione. Aveva sentito distintamente il proprio cuore rompersi mentre scivolava contro il muro fino a terra, ed era stato un rumore come non ne aveva mai sentiti prima: un silenzio sordo, infinito, totale; il silenzio del più grave dei lutti, quando ogni gioia, ogni speranza, ogni amore muore; il silenzio che accompagna la verità assassina travestita da crudele menzogna.
Annaspò in cerca d’aria, ma non ce n’era abbastanza. Era sottocoperta e non c’era via d’uscita, non c’era mai stata.
Ravenna aveva davvero avuto di fronte il padre atteso e cercato per sedici lunghi anni, e lo aveva sentito mentire e tradirsi con uno sciocco errore.
Rivelandole, quasi per sbadataggine, che non aveva mai voluto essere trovato.
 
◄►
 
Immobile a poca distanza dalla sorgente di quel canto, Adrian dovette aprire e richiudere la bocca diverse volte prima di trovare fiato con cui pronunciarsi.
«Ravenna…» mormorò, quasi temendo di interrompere la solennità di una musica così straziante da essere ipnotizzante.
Con inquietante lentezza, la ladra sollevò il viso e attese lunghi istati prima di rimettersi in piedi, avvicinandosi a lui con l’atroce grazia di un fantasma. Gli sfiorò il viso con le dita di una mano e con calma lo baciò, spiazzandolo e confondendolo. Adrian si lasciò trascinare dal desiderio per pochi, gloriosi secondi, prima che alla sua coscienza si affacciasse la sensazione che fosse ancora uno spettro a lambire le sue labbra con le proprie di carne inconsistente. Non c’era calore in quel contatto, e quello che si generava nel suo petto veniva risucchiato dal vuoto gelo dei gesti di lei.
«Ferma. Fermati, ti prego» scandì, allontanandosi di un passo. Tentò di leggere l’espressione sul suo volto, ma il buio lo rendeva impossibile. «Cos’è successo? Ravenna, cos’è successo?» indagò, trovandosi ad insistere come se già sapesse che non sarebbe stato facile ottenere una risposta.
Ma, invece, questa arrivò con una tremenda semplicità.
«Non mi vuole. Non mi ha mai voluta.»
Non c’era solo dolore nelle note che componevano quella frase; c’era un senso vibrante di umiliazione, il degradante rimbombo di una prostrazione tale da ridurre in cenere qualsiasi barlume di speranza. E fu quello, forse più della frase in sé, a condurre Adrian sulla via della comprensione, benché la parole non avessero lasciato spazio a fraintendimenti
Non ebbe il tempo di esprimere alcun tipo di cordoglio prima che il secondo bacio lo cogliesse impreparato esattamente come il primo, ma questa volta ebbe un sapore ancora più aspro; corrispose solo per un breve lasso di tempo prima di ritrovare nuovamente la lucidità, afferrando le spalle di Ravenna e costringendola ad indietreggiare.
«Aspetta! Aspetta. Cosa stai facendo?» Si ritrovò a domandare, tra mille quesiti informi che gli mulinavano in testa.
«Ti sto baciando, Adrian. Non lo vuoi?»
Il marinaio abbassò lo sguardo e scosse la testa, provando con tutte le sue forze a raccapezzarsi.
«Perché? Ravenna, perché ti comporti così?»
Perché lo baciava? Dopo quello che le era appena successo, perché cercava le sue labbra invece delle sue braccia, o della solitudine con cui fino a quel momento aveva affrontato ogni sofferenza?
«Perché non mi resta nient’altro.»
Il pesante martello della delusione lo colpì in pieno petto, gli parve quasi di sentire le costole cedere sotto lo schianto e perforargli lo stomaco, i polmoni, il cuore. Lasciò ricadere le braccia lungo i propri fianchi, perdendo la presa sulle braccia di Ravenna mentre la guardava con orrore.
Il suo paradossale egoismo non era più una novità per Adrian, il modo in cui lei pensava alla sicurezza degli altri prima che alla sua ma ai propri sentimenti prima che a quelli di chiunque altro. Eppure c’era qualcosa di tremendamente crudele in quella tortura, nell’onestà con cui l’aveva appena pugnalato al cuore pronunciando quelle poche parole. Perché benché lui sapesse da tempo di essere l’affetto collaterale, aveva sempre rifiutato di credere d’essere nulla più che una riserva. 
Indietreggiò, instabile sui suoi stessi piedi, ingoiando l’acido che sentiva invadergli la gola. Non sarebbe stato il contenitore in cui lei potesse riversare il relitto dell’amore verso suo padre. Non sapeva che rotta avesse preso il loro rapporto da quella notte ad Avon né fino a che punto sarebbero arrivati, ma aveva sempre messo da parte pulsioni e sentimenti perché non era il momento giusto, perché il cuore di Ravenna era diviso e il suo troppo confuso.
Ma non sarebbe stato il premio di consolazione, l’unica alternativa ad un’altrimenti inevitabile solitudine. Si era morso la lingua per non renderle più difficile la situazione, ma non sarebbe arrivato a farsi torturare per darle un sollievo che non sarebbe durato.
Perché non mi resta nient’altro.
Non si sarebbe lasciato trascinare sul fondo dell’oceano dall’amore per una sirena e il tormento per il suo canto disperato, solo per essere l’unico marinaio che ancora osava solcare quelle acque.
«Perché… Ra… mi dispiace. Perdonami, non ce la faccio, io non… perdonami» balbettò, finché l’eco dell’ultima parola strozzata accompagnò la sua uscita. Si voltò quasi con riluttanza, eppure il passo era rapido e sicuro quando si allontanò da quella strada, da quell’aria opprimente, da lei. Lei che rimase immobile alle sue spalle ad osservare le ombre dei suoi passi sulla strada, mormorando.
 
Bambina mia, non devi temere,
non sarai sola anche nelle notti più nere.
 
Bambina mia, dormi serena,
Chiudi gli occhi al canto della sirena.
 
◄►
 
Le assi di legno del grezzo soffitto a cassettoni non avevano nulla di così interessante, eppure Adrian le fissava da un’infinità di tempo. Si concentrava sulle venature che riusciva a vedere alla luce della lampada ad olio, provando a condensarle in forme familiari: il pennone di una nave, lo scafo, una vela scossa dal vento, le labbra di Ravenna.
Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, passandosi una mano sul viso prima di riaprirli. Il pennone di una nave, lo scafo, una vela scossa dal vento, un timone che puntava a dritta, una prua che lasciava una lunga scia, il triangolo formato dai nei di Ravenna.
Si alzò dal letto di scatto, prendendosi la testa tra le mani mentre si spostava con l’incedere di un ubriaco verso la finestra. Si appoggiò alla parete con malagrazia, osservando il buio all’esterno e le poche stelle che popolavano lo scorcio di cielo che gli fosse concesso di vedere da quella prospettiva.
Si stava costringendo a restare, a non muoversi da quella stanza cedendo all’istinto di andare a cercarla, ma era come trattenersi dall’annaspare sott’acqua quando l’ossigeno veniva meno. Aveva vagato per la città, era tornato alla locanda, si era sdraiato e aveva provato a obbligarsi in un sonno che di certo sarebbe stato funestato dagli incubi, ma gli incubi li aveva anche stando ad occhi aperti. Vedeva tutti i peggiori scenari con cui quella storia si sarebbe potuta concludere, e più peggioravano più l’irrefrenabile bisogno di andare di nuovo a cercarla aumentava. Almeno per una notte, solo una notte. Poi avrebbero parlato, o forse no. Forse si sarebbero solo guardati e avrebbero capito che era il momento di prendere strade diverse, ma non giovava a nessuno dei due rimanere soli e insonni, quella notte. L’avrebbe trovata, l’avrebbe portata in quella camera e avrebbe permesso a entrambi di addormentarsi.
Almeno per quella notte. Aveva una vita per lasciarsi logorare dal pensiero di ciò che era stato, poteva essere e non era mai diventato.
Per la seconda volta dimenticò i vestiti sul letto e corse fuori dalla locanda, andando a cercarla nell’ultimo posto in cui l’aveva vista. In fondo sapeva che non l’avrebbe trovata ancora lì. Attraversò le strade, fendendo il buio senza una luce a illuminare i suoi passi, guidato solo dalla luna e dall’ormai feroce urgenza di trovarla. Più avanzava e più lo strisciante timore che se ne fosse andata si avviluppava al suo cuore in spire di ferro; lui, che era sempre stato in fuga, avrebbe capito meglio di chiunque altro se alla fine lei avesse deciso di scappare. Rifiutata due volte in una notte dalle due persone che già una volta, in modi diversi, l’avevano abbandonata, andarsene senza un addio poteva esserle sembrata l’unica soluzione. Aveva un posto in cui tornare, dopotutto. Persone che l’avrebbero accolta e consolata.
Senza accorgersene aveva iniziato a correre, come fosse stato in un labirinto di cui non trovava l’uscita. Il porto apparve in fondo ad una larga strada, il mare che rifletteva pozze di luce irregolari alla stregua di un faro per un marinaio che cercava la costa.
Dalla banchina guardò le navi ormeggiate, dandosi dello stupido per aver pensato che anche solo una sarebbe potuta partire a quell’ora della notte. Questo non acquietava completamente l’allarme nella sua testa, ma almeno era certo di avere ancora tempo.
«Ravenna!» Gridò.
La sua voce, grave e piena, suonava come una tempesta quando gridava: potente come un tuono e graffiante come la pioggia.
«Ravenna!»
Dove sei? Rispondimi. Ti sto chiamando, non mi senti chiamare il tuo nome?
«Ravenna!»
Non poteva controllare tutta la città, neanche tutto il porto soltanto. Come la trovava? C’erano così tanti posti, Metra era così grande, ma lei la conosceva così poco…
«Ravenna!»
Scorse un movimento dietro l’angolo del magazzino di fronte cui si era fermato, per riprendere aria nei polmoni affaticati. Una vaga perturbazione nell’ombra al limite del suo campo visivo, ma i suoi sensi erano così all’erta che sospettava avrebbe notato anche l’aria incresparsi.
Continuò a osservare in quella direzione, se non altro per accertarsi della natura della propria impressione. Ci vollero alcuni secondi perché l’anomalia si ripresentasse, questa volta accompagnata dal suono di un passo incerto.
«Chi c’è?» Domandò. La figura che intravedeva a malapena non sembrava né di una donna né, a dirla tutta, di un uomo. Era bassa, minuta. Era la sagoma appena accennata di un bambino.
Il ragazzino si fece avanti con titubanza, una scelta comunque coraggiosa per un esserino così piccolo che girovagava da solo durante la notte.
«Io… cerchi una donna?» Domandò, decidendo di fermarsi abbastanza lontano da avere lo spazio per scappare, ma abbastanza vicino da non aver bisogno di alzare la voce.
«Sì» fu la sola risposta di Adrian a fior di labbra.
Nella silhouette immersa nell’oscurità riusciva ad indovinare la forma di abiti logori e stracciati, che inevitabilmente facevano sorgere altre numerose domande nella mente già sovraccarica del marinaio. Non riusciva a concentrarsi.
«Forse io l’ho vista.»
Quelle poche parole rianimarono Adrian, che si fece avanti con uno scatto forse sconsiderato.
Il bambino indietreggiò all’istante; Adrian capì e si fermò, mostrandogli le mani alzate della speranza di rassicurarlo.
«Non voglio farti del male. Voglio solo sapere cos’hai visto, ti prego.»
«Voglio… voglio qualcosa in cambio» riprese il bambino dopo diversi secondi, cercando di dare un tono deciso alla sua voce incerta.
Adrian aggrottò le sopracciglia, ancor più disorientato. Di cosa parlava? Cosa poteva volere un ragazzino, solo, da un uomo adulto incontrato per caso? E perché era solo, all’apparenza ridotto così male?
Lo sguardo di Adrian sussultò per la rivelazione e si addolcì quasi all’istante, una dolcezza triste che gli colmò il cuore molto più di quanto avrebbe dovuto. Forse, pensò, anche Ravenna era stata così, a undici anni. Quando suo padre era partito ed era rimasta sola, prima che si unisse alla banda di fuorilegge che l’aveva resa la donna forte e impavida che aveva incontrato.
Forse anche lei era stata una bambina isolata nel buio con abiti stracciati, alla disperata ricerca di un aiuto o almeno di un modo per sopravvivere.
Il marinaio si piegò sulle ginocchia ed estrasse il sacchetto con le monete dalla scarsella, versandosene una generosa quantità nella mano sinistra. Le appoggiò a terra e si rialzò, allontanandosi di qualche passo. Il bambino esitò; guardava Adrian e le monete a terra a intermittenza, valutando l’affidabilità di quel gesto e le proprie chance di fuga in caso fosse stato solo un tranello. Con uno scatto fulmineo si fece avanti, raccolse fino all’ultimo conio e tornò alla propria posizione di partenza, stringendo il bottino nelle manine sporche.
«Era proprio lì, prima» rivelò infine, indicando con un dito il bordo della passeggiata.
Adrian sentì la speranza invaderlo. Non aveva pensato potesse essere tanto calda.
«E sai dov’è andata?»
Sentiva il cuore battergli forte nel petto, era vicino, era così vicino…
«Un uomo l’ha presa in braccio e l’ha portata su quella nave lì.»
Il respiro gli si spezzò all’istante, molto prima che i suoi occhi sgranati trovassero la lucidità necessaria a guardare dove indicato. La nave era di medie dimensioni, una di quelle da carico provenienti dalla Costa Settentrionale, non diversa da molte altre su cui aveva prestato servizio. Perché un uomo avrebbe dovuto trasportarla lì dentro? Forse non era lei, non poteva essere lei, non aveva alcun senso. Lei neanche si sarebbe lasciata prendere in braccio, giusto? Potevano averla costretta con la forza. No, aveva visto di cosa era capace, non l’avrebbe mai permesso. Non era lei. Ma se era lei?
«L’hai… l’hai vista bene? Sai descrivermela?» Tentò, senza sapere esattamente cosa si augurasse. Non avrebbe saputo dove altro cercarla se non fosse stata lei, ma se lo era temeva che fosse finita in qualche guaio.
«Era buio… io non lo so… aveva un cappuccio, ma quando le è scivolato ho visto che aveva i capelli lunghi, però io non so…»
Il bambino balbettava, arretrando lentamente, tanto che capire le sue parole diventava sempre più difficile.
«Va bene, va bene» lo interruppe Adrian, più gentilmente. Qualcosa nella sua espressione o nel tono di voce dovevano aver spaventato quell’innocente ragazzino, ma terrorizzarlo non avrebbe fatto stare meglio nessuno. «Non ti ricordi nient’altro?» Riprovò, questa volta costringendosi a un approccio più delicato.
«N-no…»
«Va bene» ripeté.
Si passò le mani, stranamente fredde, sul viso, cercando di raccapezzarsi. Doveva andare comunque, se non altro per assicurarsi che non fosse lei. Anche se non trovava una spiegazione logica per quanto aveva sentito, non poteva lasciare nulla di intentato.
«Grazie. Grazie» rimarcò, indietreggiando sempre più velocemente prima di voltarsi e correre verso l’attracco.
Senza alcun piano. Senza alcun buonsenso. Senza alcuna sicurezza. Irrimediabilmente scapestrato. Irrimediabilmente innamorato.
 
◄►
 
A passo leggero sulle assi di legno scricchiolanti, Adrian scese sottocoperta immergendosi nel buio assoluto. Giunto alla fine dei gradini, sul solido pavimento appena oscillante, non aveva idea di come muoversi su quella superficie sconosciuta, né sapeva se e da cosa si sarebbe dovuto guardare. Avanzava in tutti i sensi alla cieca, con cauta quanto snervante lentezza; l’urgenza gli scorreva ardente nelle vene, facendolo sudare e corrompendolo a una sempre maggiore impazienza. Le braccia stese in avanti lo protessero quando andò quasi a sbattere contro una paratia; gli anni trascorsi sul mare gli avevano conferito un considerevole senso dell’orientamento e una certa conoscenza della struttura interna di una nave da trasporto, perciò era certo che quel tramezzo non sarebbe dovuto essere lì. Provò a seguirlo in lunghezza, ma aveva fatto solo pochi passi quando dei suoni anomali raggiunsero il suo orecchio teso e, in quel frangente, particolarmente sensibile.
Distinguere il brusio dal rumore del mare diveniva più facile mentre procedeva radente la paratia, finché non arrivò all’altezza di un solco che gli suggerì di aver trovato una porta chiusa, finché non fu in grado di capire che quelle che sentiva fossero voci. Trattenne il fiato per ascoltarle, cercando con la mano la serratura.
«…imprevedibile. Dev’essere sorvegliata, per tutta la durata del viaggio. Quando arriveremo alla Costa Settentrionale, se avrai fatto bene il tuo lavoro, ti ricompenserò lautamente.»
«Non sembra così pericolosa.»
Uno sbuffo. No, una risata sommessa.
«Se ti fai ingannare dal suo aspetto sei uno stolto. Questa è la donna che ha eluso la cattura per tre anni, è scappata da una prigione e ha messo al tappeto sei guardie addestrate. Se ne avrà l’occasione sta pur certo che troverà un modo per fuggire di nuovo.»
«Una volta che saremo salpati non potrà scappare da nessuna parte.»
«Questo non significa che non possa fare del male a qualcuno. Se non sono ancora stato chiaro, non è una persona a cui piaccia essere incatenata.»
«Come vuoi. La terrò d’occhio, ma non c’è modo che riesca a liberarsi da quelle corde. I miei nodi la terranno al suo posto.»
«Lo spero per te, marinaio. Ora resta qui finché non torno: se si sveglia… ti consiglio di prestare attenzione.»
La mente di Adrian elaborava freneticamente tutto ciò che stava incamerando, trovando corrispondenze che di parola in parola lo convincevano sempre di più sull’identità dell’ostaggio oggetto della discussione e, in seconda analisi, sul motivo della sua cattura. Le circostanze andavano districandosi, assumendo una forma che non era del tutto nuova per lui, non più. Non aveva più dubbi che lì dentro ci fosse Ravenna, e se ancora non riusciva ad afferrare chi fosse l’uomo che l’aveva imprigionata, di sicuro aveva capito che la cattura era da imputare alle attività di Ravenna.
L’appassionata riflessione ebbe però la sgradevole controindicazione di distrarlo dal rumore di passi che si approssimavano alla sua posizione; fu solo per un soffio che riuscì a scattare dall’altro lato della porta e rimanere nascosto da questa quando si aprì, lasciandone uscire il misterioso assalitore. La lama di tremolante luce che si disegnò sul pavimento era ingombrata da un’ombra massiccia che si trasformò in una sagoma altrettanto robusta quando lo sconosciuto apparve oltre il bordo della porta, la schiena illuminata coperta da un mantello troppo pesante per la Costa Meridionale. Veniva dal nord.
L’oscurità si rivelò infine una preziosa alleata per Adrian; nonostante quell’uomo sembrasse non avere difficoltà a muoversi al buio, non parve notare il suo stazionamento immobile in quell’angolo irrilevante. Ciononostante il marinaio liberò il fiato solo quando sentì le ante della botola chiudersi, segno che la persona in nero se n’era definitivamente andata.
Solo allora, di nuovo nel silenzio totale, Adrian  sentì che il proprio cuore stava battendo a un ritmo infernale. Lo sentiva nei polsi, nelle orecchie, nella gola. La paura l’aveva colto, sì, ma non si era reso conto di quanto fosse effettivamente agitato.
Perché il responsabile del rapimento voleva riportare Ravenna sulla Costa Settentrionale? Sembrava conoscerla bene in veste di fuorilegge, anche meglio dello stesso Adrian. Lui non sapeva che fosse ricercata da tre anni. Per quale crimine? L’unico di cui lui fosse a conoscenza per il quale fosse stata condannata era il furto ai danni del governatore di Hyssen, lo stesso per cui si era trovata costretta ad evadere da una cella. Non sapeva nulla neanche di quelle sei guardie, erano coinvolte sempre nella stessa storia? O era stata un’altra volta, un altro furto, un’altra città? Sapeva ancora ben poco della vita da bandita di Ravenna, forse troppo poco. Avrebbero dovuto parlarne di più. Ora lei era di nuovo prigioniera, e se anche lui fosse riuscito a liberarla era comunque ad un passo dal perderla. Di nuovo.
Aveva rischiato di lasciarla andare più volte di quante fossero perdonabili; ma se c’era una cosa che non avrebbe mai perdonato a sé stesso era permettere che le fosse portata via.
Doveva entrare in quella stanza. Doveva trovare il modo di mettere fuori gioco il secondo aguzzino e liberarla, portarla fuori di lì prima che rientrasse l’uomo col mantello e condurla dove sarebbe stata al sicuro.
Adrian non era un combattente: se voleva uscirne rapidamente e illeso doveva escogitare una soluzione pratica adatta. Gli serviva qualcosa di pesante. O forse…
Si affrettò di nuovo verso le scale, questa volta a memoria del percorso fatto in precedenza; invece di salirle, però, controllò i sacchi stipati dietro di esse, frugando con smania tra coperte di riserva, amache in eccesso, rotoli per i bendaggi e… bottiglie di sidro nascoste.
Un colpo secco alla nuca. L’aveva visto fare centinaia di volte, in ogni rissa che scoppiava tra l’equipaggio. Anche lui stesso era svenuto un paio di volte per una cosa del genere. Forse più di paio. Dopo un po’ aveva perso il conto. Il vetro era così spesso e resistente che, se esercitavi una forza sufficiente, la botta che ne risultava non aveva niente da invidiare alle sedie per le risse nei bar.
Ne prese tre e tornò alla propria posizione dietro la porta, poggiandone a terra due – di riserva – e preparandosi a scaricare tutta la propria frustrazione della serata sulla testa del marinaio che di lì a poco sarebbe uscito. Avvicinò piano la mano per bussare, ma prima di farlo guardò la bottiglia di sidro: nessuno se ne sarebbe voluto se prima di fracassare la bottiglia ne avesse bevuto un sorso
Richiusa la bottiglia la guardò ancora, la riaprì, prese un altro sorso, la richiuse, prese un bel respiro e batté tre volte.
Forse dovevo bere di più.
Non dovette attendere a lungo; insospettito dal rumore, il sorvegliante si avvicinò alla porta e l’aprì quanto bastava per dare un’occhiata all’esterno. Troppo poco per Adrian, che aveva bisogno di più spazio per avere una speranza di coglierlo di sorpresa. Attese che il marinaio rientrasse e, con qualche secondo di scarto, ci riprovò; questa volta l’uomo, scocciato, fece qualche passo avanti, aguzzando la vista per osservare meglio i dintorni. Pentendosi di non aver direttamente svuotato la bottiglia, Adrian si sporse in avanti e caricò il colpo, abbattendo la propria arma improvvisata sulla nuca del malcapitato con tutta la forza di cui disponesse.
L’uomo barcollò in avanti, accompagnato dai pezzi del vetro in frantumi, ma non cedette; rapidamente il marinaio agguantò le restanti due bottiglie e, senza dare all’avversario il tempo di riprendersi, lo colpì una seconda e una terza volta: questi cadde in avanti, e a quel punto non sembrava più tanto intenzionato a muoversi.
Senza attendere oltre ora che aveva la strada libera, Adrian si precipitò nella stanza credendo di essere preparato alla vista che lo avrebbe accolto.
Si sbagliava.
Nella modesta stanza illuminata da due lampade a olio, Ravenna era semisdraiata a terra, priva di sensi; aveva i polsi legati dietro la schiena da spesse funi, fissate ad un palo di legno originariamente adibito a sostegno per amache. Il volto era girato di profilo, completamente abbandonato, il collo scoperto come bersaglio a chiunque avesse voluto farle del male. Era completamente indifesa. Inerme. Vulnerabile al punto da ferire la vista di chi l’aveva sempre guardata combattere con fierezza.
Ne rimase così impressionato che per un attimo non riuscì a muoversi, a stento respirare, guardando con occhi sgranati l’immagine più innaturale su cui il suo sguardo avesse mai avuto la sventura di posarsi. Gli appariva quasi blasfema mentre ricordava che persino nelle celle di Hyssen Ravenna non era mai parsa realmente imprigionata, solo momentaneamente ostacolata da un imprevisto. E ricordava quando aveva pensato che le uniche catene intorno ai suoi polsi fossero quelle che lei stessa stringeva tra le dita mentre si lasciava trainare da una speranza più grande di lei, una speranza ora distrutta accompagnata da corde che la costringevano, immobilizzandola.
Era una vista che non riusciva a sopportare.
Scattò in avanti e si accucciò accanto a lei, posandole delicatamente le mani ai lati del viso.
«Ravenna…» la chiamò, accarezzandole uno zigomo con estremo riguardo. Le scrollò le spalle, controllò il respiro, il polso, la richiamò di nuovo, ma nonostante sembrasse stare bene lei non rispose.
Le sollevò la schiena per raddrizzarne la posizione, le resse la testa con una mano e le avvolse un fianco per sostenerla, avvicinando a sé il suo viso e portando la sua fronte a contatto con le proprie labbra. Avrebbe trascorso tutta la notte a sussurrare il suo nome nell’attesa del suo risveglio, a lisciarle i capelli con le dita ed accarezzarle le spalle per confortare il suo sonno forzato, ma il suo tempo si avvicinava sempre più alla scadenza concessagli per liberarla.
«Ora ti porto via di qui» mormorò con un filo di voce.
Si staccò da lei con l’impressione che qualcosa dentro di lui stesse precipitando, ma a denti stretti fece forza sul nodo che stringeva saldamente la fune intorno ai polsi di Ravenna. Si graffiò le dita sulla ruvida canapa, cercando di crearsi uno spazio per allentare la pressione, ma la legatura era così rigida e sapientemente eseguita che per quanto spingesse riusciva solo a graffiarsi di più. Con movimenti affrettati, maledicendosi per non averci pensato prima, estrasse il proprio pugnale dallo stivale, ma la lama non arrivò mai neanche vicina a compiere il proprio compito.
«Detesto gli impiccioni.»
Riconobbe quella voce con un solo secondo di ritardo, ma fu comunque un secondo di troppo. Cadde in avanti in preda ad un immediato e lancinante dolore che oscurò ogni cosa intorno e dentro di lui.
Il coltello, rimasto inutilizzato, gli scivolò di mano e tintinnò quando atterrò sul pavimento, distorta eco morente dell’ultimo pensiero di Adrian: io non ti abbandono.
 
◄►
 
C’era troppo rumore.
Adrian voleva dormire, gli faceva male la testa e si meritava un po’ di riposo, anche se non sapeva perché. Eppure da qualche parte qualcuno faceva casino, suoni che gli rimbombavano nelle orecchie penetrando la cortina dell’incoscienza.
Per primo si accorse che i suoni erano stranamente attutiti, come se tra lui e la loro fonte ci fosse un significativo ostacolo. Poi si rese conto che la posizione in cui si trovava non era tra le più comode, ma quando tentò di muoversi scoprì che i suoi movimenti erano limitati da qualcosa. Provò a portare una mano a strofinarsi il viso, ma questa non rispondeva ai suoi comandi. O meglio: non riusciva a rispondere.
Quando, infine, realizzò che qualcosa di ruvido era stretto intorno ai suoi polsi, ogni tassello tornò a disporsi nel puzzle che la perdita di coscienza aveva disfatto.
«Ravenna!» Gridò, raddrizzando di scatto la schiena e spalancando gli occhi, neppure troppo feriti vista la scarsa luminosità della stanza.
«Non urlare» gli rispose una voce familiare alla sua destra, laconica.
Laconica.
Il marinaio di voltò verso di lei, per la prima volta stranito nel sentirle usare quel tono normalmente così ordinario. Era un sollievo vedere che stava bene, sveglia e apparentemente del tutto in sé, ma allo stesso tempo non capiva come potesse essere così… così normale.
«Ravenna…» ripeté a voce più bassa, e anche il suo tono subì una notevole variazione, facendosi più consapevolmente apprensivo che goffamente spaventato.  «Stai bene?» Azzardò.
«Sono stata meglio, Adrian» rispose lei in tono d’ovvietà, senza alzare lo sguardo.
Sembrava… controllata. Una buona cosa, in teoria… ma se fosse stata sull’orlo di un pianto disperato, scalciante e con gli occhi gonfi, il marinaio si sarebbe allarmato di meno.
C’era qualcosa di anomalo nella tipicità di quell’atteggiamento che impediva ad Adrian si sentirsi rassicurato dall’inaspettato ritorno alla calma di Ravenna. Era avvenuto troppo in fretta, e anche se immaginava che la ladra stesse sforzandosi di trattenere il proprio dolore per far fronte al problema più imminente, simili sbalzi di comportamento non suggerivano nulla di buono.
«Ravenna…»
«So come mi chiamo» Lo interruppe subito lei. «Se vuoi dirmi qualcosa, dilla e basta.»
Non c’era cattiveria nel suo tono, né impazienza. C’era solo la sua solita alacre schiettezza. Qualcosa con cui Adrian aveva imparato a scendere a patti ma che in quel momento non sapeva come gestire. Rimase in silenzio.
«Non ti interessa neanche un po’ sapere perché siamo finiti legati nella pancia di una nave in partenza per la Costa Settentrionale?» Lo punzecchiò lei.
«Ho altre preoccupazioni, al momento...» rivelò lui con un attimo di esitazione.
«Non dovresti.»
Ed eccola lì: nonostante preoccupazione, dispiacere e paura, sentì chiaramente l’irritazione risalire dal fondo dello stomaco appesantito e premere contro i denti serrati. Perché, perché, perché… perché diamine doveva essere sempre così altèra?
Adrian si trattenne, non senza una certa fatica.
«Quello che è succ…»
«Dacci un taglio.» Ancora, lei lo interruppe. «Sappiamo tutti cos’è successo e questo non è né il luogo né il momento giusto per ricordarlo. Dobbiamo filarcela di qui prima che la nave parta: a che punto sei?»
Il marinaio aggrottò le sopracciglia. Lei aveva ragione, non era la situazione adatta, ma… a che punto doveva essere di cosa?
«Le corde, Adrian, le corde» scandì Ravenna, decifrando l’espressione confusa dell’amico. Sospirò rassegnata. «Non stai neanche provando a liberarti, vero?»
Adrian forzò un sorriso palesemente tirato.
«Va bene, lascia stare» si arrese lei.
Non sapendo cosa rispondere, il marinaio approfittò del silenzio per capire quanto male fossero messi: Ravenna era nelle stesse condizioni della notte prima, ma sveglia – che di per sé era un gran passo avanti – mentre lui aveva presto il posto d’onore alla sua sinistra, legato al secondo dei quattro pali disposti in fila, immobilizzato su polsi e caviglie e con un pulsante fastidio alla nuca.
Chissà se avevano usato una bottiglia anche loro. Loro… chi?
«Chi erano? Quei due uomini… cosa vogliono da te?»
La ladra, concentrata sui movimenti delle proprie dita, sempre più indolenzite dallo sforzo apparentemente inutile che stavano compiendo, sembrò non averlo neanche sentito, se non che all’improvviso interruppe il proprio armeggiare con uno sbuffo spazientito.
«Credevo ci saresti arrivato. Dopotutto ti avevo avvertito, una volta» gli rispose nervosamente, ma il motivo della sua irrequietezza risiedeva interamente nella frustrazione per la resistenza di quei nodi.
Adrian, però, era troppo attento alle parole di lei per accorgersene.
«Non ricordo che tu mi abbia mai avvertito che qualcuno avrebbe potuto tramortirci e imprigionarci su una nave, ma potrei essermelo perso in uno dei tanti discorsi dove tu mi ragguagliavi sul perché diamine c’è sempre qualcuno che vuole rinchiuderti!»  
Ravenna, per nulla impressionata dall’aumento di tono di Adrian o dal suo sarcasmo, alzò gli occhi al cielo.
«Ti ricordi di Serlas?»
L’irritazione che il marinaio aveva sentito crescere rapida e imperterrita si sospese all’improvviso, ancora presente eppure momentaneamente accantonata dalla curiosità. Cosa c’entrava Serlas?
«Be’, sì, ma…»
«Credevi fossi pazza perché non ero preoccupata dalla notizia della morte del re e dallo spettro di una guerra civile. Ricordi cosa ti spiegai all’epoca?»
Adrian fece mente locale. Ricordava piuttosto bene quel momento, quando aveva pensato che lei non si rendesse conto della gravità della situazione solo per essere, una volta di più, zittito dal suo inattaccabile ragionamento.
«Sì, credo. Dicesti che la guerra sarebbe stata su un piano più politico che militare, che dopo la Guerra del Ferro l’esercito non…»
«Non mi riferivo a quello» intervenne lei, impedendogli di proseguire. «Prima. Quando ti spiegai quale fosse la mia preoccupazione maggiore in quel momento, molto più verosimile e molto più immediata.»
Di nuovo, Adrian recuperò il filo dei ricordi e cercò di riavvolgerlo. Di cosa aveva avuto paura, quel giorno? Un pericolo, un pericolo che per loro – per lei – sarebbe stato molto più grave.
«Cacciatore di taglie. Temevi che fosse arrivato in città un cacciatore di taglie sulle nostre tracce.»
«Mi dai sempre grandi soddisfazioni, marinaio» lo canzonò lei, confermando la correttezza della sua epifania.
«Stai dicendo che quell’uomo è un cacciatore di taglie?» Indagò Adrian, senza nemmeno far caso al suo sarcasmo.
«Sì. Lo chiamano Nox, non so quale sia il suo nome completo. Mi sta addosso da circa un anno, da quando il suo predecessore ha abbandonato il compito dopo due anni di fallimenti.»
«È per quello che hai fatto a Hyssen?»
 Ravenna alzò lo sguardo su di lui, sorpresa. Non si aspettava quella domanda così repentinamente, anche se forse avrebbe dovuto prevederla: oltre quel crimine specifico, Adrian non sapeva quasi nulla delle sue scorribande.
«No. Hyssen è un’altra storia. Diciamo che il governatore non è l’unico signorotto a cui ho dato un po’ di grane, e qualcuno si è arrabbiato molto più di lui.»
«Le sei guardie che hai messo fuori gioco?»
La ladra tornò ad osservare i lineamenti di Adrian, l’attenzione e la sete di notizie che animavano il suo sguardo inquisitore. Se non si era aspettata la domanda precedente, quest’altra era l’ultima che pensava di sentirsi rivolgere.
«Come fai a saperlo?»
«L’ho sentito parlare, stanotte. Ero venuto qui per liberarti e li ho ascoltati, capendo che qui dentro c’eri tu.»
Ravenna sospirò.
«Gran bel salvataggio, marinaio.»
«Non divagare.»
«A proposito, come ci sei arrivato fin qua?»
«Non divagare!»
«Erano le guardie della persona che mi ha messo il cacciatore di taglie alle costole, non ho ucciso nessuno a parte il loro orgoglio, se è questo che ti turba. Tu però dovresti imparare che quando non mi trovi saresti più saggio a non venire neanche a cercarmi.»
Adrian arricciò il naso allargando le narici, infastidito in un modo che gli fece dimenticare completamente perché fino a un momento prima fosse stato in ansia per lei.
«Non preoccuparti, non credo che lo farò mai più» grugnì seccato.
Ravenna lasciò cadere l’argomento, abbassando la testa.
Mentre i suoni dell’equipaggio a lavoro sulla nave tornavano a regnare nel bugigattolo in cui erano chiusi, la ladra intensificò i suoi sforzi per allentare il nodo che la bloccava. Si accanì sulla canapa, ma sopportare il bruciore ai polsi diveniva sempre più difficile a ogni millimetro che la corda le scavava nella carne. Le dita, dolenti, faticavano a trovare ancora spazi di manovra, i muscoli che si stavano pericolosamente irrigidendo a causa dei movimenti innaturali cui li costringeva.
«Merda!» Esclamò, quando la frustrazione raggiunse l’apice.
«Ci metti troppa forza. Quello è un nodo fatto per resistere alle peggiori tempeste in alto mare, un kraken potrebbe distruggere l’intera nave ma quel nodo rimarrebbe intatto.»
La voce di Adrian, parca d’intonazione, non ebbe una singola esitazione.
Così non sei d’aiuto, pensò Ravenna. E, come se le avesse letto nel pensiero, lui tenne lo sguardo fisso sulle mani di lei e riprese la parola.
«Devi essere gentile. Precisa. È un nodo di giunzione, senti che ha quattro estremità? È intrecciato con due corde diverse, non puoi semplicemente scioglierlo, devi prima capire quale coppia di estremità compone una stessa corda. Ce la fai?»
Ravenna esitò. Solo per pochi istanti si concesse di osservare di sottecchi il viso di Adrian, all’apparenza più annoiato che concentrato. Quello era il suo campo, le sue conoscenze. Poteva non essere in grado di liberare sé stesso, ma poteva suggerire a lei come muoversi. Una bizzarra collaborazione tra ladra e marinaio, per una volta entrambi essenziali alla risoluzione del problema: senza proferire alcunché, Ravenna fece quanto lui le aveva detto.
Facendo scivolare le dita sulle corde con attenta lentezza, provò a seguirne i percorsi intrecciati come aveva già fatto in precedenza. Allora non sapeva di preciso cosa stava cercando, voleva solo farsi un’idea della forma del nodo per trovarne i punti deboli, ma si era accorta di non riuscire a trovare neanche un punto di riferimento. Ora sapeva dove aveva sbagliato, e concentrandosi sulle percezioni del proprio tatto arrivò a farsi una mappa mentale della disposizione delle due corde, invece che sforzarsi di immaginarne una sola in grado di compiere un simile giro.
«Ci sono» dichiarò ad alta voce.
«Bene. La corda che ti avvolge il polso destro ha una sola curvatura, ma se tenti di tirarla farai solo stringere la prima curvatura dell’altra corda, che ne ha tre. Per riuscire a liberarti devi avere spazio tra la seconda curvatura della seconda corda e quella singola della prima. Ora, il problema è questo: non puoi creartelo lavorandoci direttamente. Senti il pezzo di corda che ti passa tra i polsi? È la parte finale della terza curvatura, quella che devi riuscire ad allentare. All’altra estremità è legata al palo, quindi se vuoi guadagnare la lunghezza che ti serve devi avvicinartici di più.»
«Se mi avvicino di più non avrò spazio per muovere le dita» obiettò Ravenna, che non senza difficoltà aveva ascoltato il suo discorso, riempiendo i buchi delle sue spiegazione con l’intuito e la propria personale esperienza. Se non avesse capito per logica cos’era una curvatura, non sarebbe mai riuscita a seguire le istruzioni.
«Avrai quello che ti basta, dovrai fare dei movimenti minimi» ribatté immediatamente lui.
Rassegnata, Ravenna si schiacciò il più possibile contro il palo.
«Adesso ruota il polso sinistro verso l’altro. Con almeno un dito devi raggiungere la curvatura.»
Ravenna strinse i denti, preparandosi a lanciare una buona dose di imprecazioni interiori. Mentre infieriva sull’irritazione alla pelle che già si era trasformata in una bruciante ferita circolare, una smorfia di dolore le sfuggi sul viso quando dovette imporre al muscolo di andare oltre i propri limiti. Ma almeno aveva raggiunto l’obiettivo.
«Brava. Adesso infila il dito sotto la curvatura che senti, è l’unica che riesci a toccare. Senti che riesci ad avere un po’ di movimento? Creati una fessura il più larga possibile. Bene. Ora, spingi verso l’esterno col polso destro, dovresti riuscire a guadagnare qualche millimetro.»
Ancora, la ladra obbedì. E scoprì che davvero la morsa intorno al suo polso era diminuita.
«Ora, accanto al polso destro c’è il punto cruciale del problema, dove le corde si incastrano l’una con l’altra rendendo impossibile che possano sciogliersi senza un intervento preciso. Non puoi ancora sfilare tutta la mano, ma puoi fare al contrario: spingere il braccio più avanti, così potrai piegare completamente il polso. Riesci?»
«Questo è il massimo» rispose Ravenna, nascondendo la fatica dietro il tono più fermo che riuscisse a esternare. Le faceva male tutto, e più andava avanti peggio era. Se non fosse stata certa che quello era l’unico modo per scappare, avrebbe già mandato all’inferno Adrian e tutti i marinai, in particolare quelli che avevano ideato quei maledetti nodi.
«Piega il polso e cerca di arrivare ad afferrare l’estremità della corda. Dovresti sentirne due che appartengono alla stessa, quella con la curvatura singola. Devi tirare verso di te… no, non quella. Ecco, quella. Tira.»
Ravenna tirò, e percepì la tensione allentarsi anche intorno al polso sinistro.
«Ci sei quasi. A questo punto riporta il destro dov’era prima e rifai al contrario quello che hai fatto prima: devi riuscire a stringere le corde il più possibile intorno al polso. Più sarà stretto quello, più libero sarà il sinistro.»
La ladra imprecò silenziosamente contro tutta la marina, dal primo uomo che progettò una barca al più incapace dei mozzi sulla più avanguardistica delle navi, e strinse, strinse fino a poter quasi sentire la circolazione bloccarsi, muovendo in circolo il polso sinistro che sentiva sempre meno oppressato. Strinse e tirò, strinse e tirò in contemporanea finché la curva del pollice oltrepassò la corda: era libera.
Le corde, ora in lunghezza superflua, si afflosciarono permettendole di sfilare anche il destro martoriato senza fatica; il cacciatore di taglie le aveva sottratto il suo pugnale, sentiva lo spazio vuoto nello stivale, ma non aveva toccato quello nascosto nella doppia suola: ne era certa perché, in effetti, quella suola ce l’aveva ancora.
Si piegò in avanti e con gesti rabbiosi staccò la suola inferiore dello stivale sinistro, lasciando cadere con un tintinnio il piccolo coltello non più bloccato.
«Ma da dove ca… lasciamo perdere.»
Per quanto Ravenna lo stava ascoltando a quel punto, Adrian avrebbe anche potuto urlare che lei non se ne sarebbe accorta.
Con la piccola lama ora stretta in pugno, la ladra recise le corde che le stringevano le caviglie e fu finalmente del tutto libera.
«Loro dove sono?» Domandò Adrian, mentre Ravenna armeggiava con le sue costrizioni.
«Nox è andato a contrattare col capitano, era previsto un solo passeggero in più, non due. Il marinaio che lo aiuta suppongo stia facendo il suo lavoro sul ponte.»
Mentre Adrian si massaggiava i polsi, Ravenna passò alle sue caviglie.
Sul ponte… il ponte
«Non abbiamo molto tempo» realizzò all’improvviso. «Questi rumori… li senti, sul ponte? Si preparano alla partenza, salperemo tra poco, sempre che non siamo già partiti e non ce ne siamo accorti. Aspetta, che…»
Adrian abbassò lo sguardo sui propri piedi quando li sentì liberi, scorgendo così per un istante i polsi di Ravenna, prima che questa si rialzasse. Con uno scatto si rimise in piedi a sua volta e le afferrò un gomito, mentre lei si girava per dirigersi alla porta. Senza esitazione le prese una mano e le sollevò la manica, quanto bastava a scoprire la rossa ferita simile a un grottesco bracciale.
«Io lo ammazzo» furono le parole che uscirono incontrollate dai suoi denti digrignati.
Con uno strattone, Ravenna ritrasse il braccio.
«Andiamocene e basta» decretò, guardandolo dritto negli occhi.
Senza attendere un secondo di più corse verso la porta e la spalancò di malagrazia, sparendo nella zona adiacente della pancia della nave.
«Hai presente come siamo scappati dalle celle di Hyssen?» Riprese lei quando Adrian la raggiunse.
Lei per prima e lui per secondo, salirono le scale fino alla botola che li avrebbe portati di nuovo alla luce del sole.
«Correndo come disperati?»
«Precisamente. Lo tieni ben aggiornato il tuo diario di bordo, non è vero? Be’, questa volta non dovremo fare nulla di diverso. Corriamo come disperati fino alla passerella, scendiamo da questa dannata nave e spariamo nella città» dettò la ladra.
Il piano meno organizzato della storia.
«Brillante, davvero brillante» borbottò il marinaio, sarcastico. «Al tuo tre?»
«Se preferisci. Uno, due…»
«Aspetta! Non così rapidamente, si conta più piano.»
«Sulla base di cosa?»
«È così e basta. Si fa: uno… due…»
«Tre!»
Senza un vero e proprio preavviso, Ravenna spalancò la botola e saltò sul ponte, inseguito da un irritatissimo Adrian che, quando guardò oltre il parapetto, sentì gli insulti morirgli in gola mentre realizzava che erano già salpati. Il molo non era troppo distante, ma la passerella era stata ritirata e non c’era più modo di scendere dalla nave. A parte…
Si sentì tirare la manica e fu trascinato da Ravenna proprio verso il parapetto, già consapevole di quale idea avesse attraversato la mente della ladra. Una pessima, pessima idea.
«Fermateli!» gridò qualcuno, e quando i due alzarono lo sguardo videro il cacciatore di taglie sporgersi dalla balaustra del ponte di comando.
Nessuno mosse un dito. Colti alla sprovvista da quell’improvvisa piega degli eventi, i marinai si guardarono confusi tra loro, cercando di raccapezzarsi. Tutti tranne uno: lo stesso uomo che Adrian aveva atterrato a colpi di sidro ora avanzava a grandi passi verso di loro, furente.
«Non sono un esperto di fughe impossibili, ma questo mi sembra un enorme passo indietro, sbaglio?» Esclamò Adrian, ma quando si voltò si rese conto che Ravenna non c’era più. Si stava già issando rapida sul bordo del parapetto, reggendosi a una sartia che ondeggiò sotto la sua presa.
Mentre la imitava, allungandole un braccio dietro le spalle per potersi reggere ai cavi, non riuscì a trattenersi: «voglio che sia annotato sul diario di bordo che io non condivido l’idea!»
«Annotato» affermò di rimando Ravenna, quindi abbandonò la presa e si lanciò in avanti, trascinandolo con sé.
Per pochi, gloriosi istanti si sentì quasi volare, il suono dell’aria come unico compagno in quel bizzarro silenzio che solo le sue orecchie percepivano. Il tempo parve rallentare dopo la frenesia degli ultimi minuti, quasi fermarsi. C’era pace.
Poi fredda, soffocante, infinita, implacabile acqua.

Buon anno!
Avrei voluto postare prima, e ce l'avevo quasi fatta. Avevo il capitolo pronto e finito il 31 dicembre, poi... non andava bene. L'ho riletto e qualcosa non quadrava. Era vuoto, era spento. Così ci ho rimesso mano dopo capodanno e ho tagliato, spostato, ricucito, tessuto nuove trame: il capitolo che vedete adesso c'entra poco o niente con quello che stava per essere pubblicato. Ora sono più soddisfatta, anche se mi restano terribili dubbi che spero qualcuno di vuoi possa confermare o fugare, così da togliermi dall'incertezza.
Avviso: ho spostato la storia nella sezione romantica per una questione di tagli. Ho eliminato la parte della storia che la rendeva effettivamente fantasy perché era alquanto superflua, ma l'ambientazione resta decisamente non reale. 
Non voglio strafare con le NdA, indi perquindi passo ai ringraziamenti - a chi ha scoperto la storia di recente e ha deciso che valesse la pena di non perderla di vista, chi è tornato con me su queste pagine dopo più di un anno, chi ha speso due, tre, mille parole per parlare alla scrittrice nenche tanto silenziosa che per la decima volta ha sfiorato le vostre vite per alcuni minuti. Non potrei esserne più fiera.

Au revoir,
Astrid

   
 
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